venerdì 20 giugno 2025

LA PROFEZIA DI AMBROSINI: ADVENTURES OF A LIFETIME

New York City, aprile 2025


Il sole di primavera si rifletteva sui vetri dei grattacieli come un report trimestrale mandato in anticipo: brillante, inaspettato, vagamente sospetto.

Marco De Santis – contabile senior, ex giovane promessa della Bocconi, ormai “asset storico” di una multinazionale in cui nessuno ricordava più cosa facesse davvero – stava svuotando la sua scrivania per l’ultima volta.

L’ufficio era una teca del tempo.

Su una mensola in alto, una pianta grassa che aveva smesso di lottare nel 2019. Accanto, un mug sbeccato con il logo di una startup fintech morta al secondo round di finanziamento e appeso alla parete un calendario da tavolo del 2020 – mai sostituito, tanto i giorni erano diventati tutti uguali.

E, in fondo a un cassetto che si apriva solo con un colpo ben assestato, una cartelletta blu.

Sopra, scritto a penna: “Ambrosini, 1988 – Bocconi”

De Santis Sorrise.

Non un sorriso dolce. Di quelli amari, alla “lo sapevo, ma ho fatto finta di niente”.

Si sedette. Non con l’eleganza del manager in pensione, ma con la rassegnazione articolare di uno che ha passato quarantadue anni curvo sulle scadenze fiscali.

Fuori, il traffico di Lexington Avenue scorreva come un foglio Excel con troppi filtri: lento, pieno di errori e con qualcuno che continua a chiederti “ma perché non si aggiorna il grafico?”.

Nel 1988, al terzo anno di università, aveva seguito il corso di Economia e Management dell’Impresa Industriale.

Il Professor Ambrosini parlava come se stesse dettando il futuro. Un giorno, con la calma clinica di chi sapeva già tutto, aveva detto:

“I colletti bianchi subiranno la sorte che hanno avuto i lavoratori nelle fabbriche con l'arrivo delle macchine e del taylorismo: saranno gli operai meccanizzati ed alienati del prossimo futuro, scoprendo nuove e più sottili forme di alienazione.”

De Santis, che sognava riunioni a New York e stock option da piegare in quattro, lo aveva ascoltato con lo stesso scetticismo e la grattata di zebedei con cui si ascolta il croupier al Casinò che dice "il Banco vince sempre" e liquidato mentalmente con un “Menagramo! che esagerazione” e un panino al tonno nella mensa della Bocconi.

Lui ce l'aveva fatta, era riuscito davvero a sbarcare nella City dopo la Bocconi e ad avere la tempra per mettervi le radici e "fare famiglia" coronando il personalissimo sogno americano nella città dei sogni ma "a consuntivo" era andata esattamente come profetizzato da  Ambrosini, solo con meno poesia.

E a guardare, con occhi meno superficiali, più o meno come aveva anticipato abilmente Paolo Villaggio nel 1975 con il suo Fantozzi, celando dietro le "assurde" avventure dell'improbabile ragioniere, tutte le dinamiche presenti nel mondo del terziario, anche di quello "avanzato".  

E a guardare ancora più in profondità, Kafka, con la sua "Metamorfosi" lo aveva messo nero su bianco già nel 1915, ma lui di letteratura si era sempre disinteressato sin dai tempi del Liceo, quando l'aveva giudicata "qualcosa di cui si poteva occupare chi era già ricco e aveva tempo da perdere" ed era il classico studente da "mi basta 6".

De Santis aveva iniziato a registrare fatture con penna blu e fogli protocollo, poi erano arrivati  i floppy da 5¼, poi la "magia nera" di Lotus 1-2-3 che crashava se guardavi male la tastiera. Seguirono Excel 95 (era ora), SAP - l'infernale gestionale tedesco che in azienda avevano subito battezzato Sistema di Abilità Punitiva -  i server aziendali (“basta salvare tutto in G:\”),  poi il cloud che doveva essere la salvezza ma somigliava più ad un magazzino disordinato con un abbonamento mensile  (“non si sa dove va, ma ci va tutto”).

L’outsourcing lo aveva privato dei colleghi italiani mentre l’automazione gli aveva stravolto le mansioni, mortificando l'intelletto, mentre la pandemia aveva sancito il trionfo senza ritorno del "lavoro da remoto" e la vittoria dello smart working.

Quella cosa che l'addetto alla sicurezza ucraino della Tower della City dove De Sancits passava tutte le sue giornate, aveva battezzato "SMRT" working, spiegandogli che "SMRT" in tutte le lingue slave voleva dire "morte". 

L’intelligenza artificiale, alla fine, aveva reso il suo lavoro più "strategico"; tradotto: faceva tutto lei, tu controllavi che non avesse interpretato "costo del lavoro" come "licenzia tutti e compra un robot emotivo".

Negli ultimi cinque anni, il suo lavoro consisteva in tre operazioni:

1. Leggere report generati dall’IA e fingere che avessero un senso.

2. Correggere le “ottimizzazioni” dove l’algoritmo aveva deciso che 0 dipendenti = massimo margine operativo.

3. Sorridere in avvio di videochiamate mentre un software di riconoscimento facciale gli dava 6/10 in “employee engagement” e a seguire l'unico vero vivente collegato diventava il gatto di qualche collega in smart working.

Si era trasformato, senza accorgersene, in quello che Ambrosini aveva descritto con chirurgica crudeltà: un operaio da tastiera, schedato, tracciato, ottimizzato, e completamente inutile durante i blackout di sistema. Però ben pagato, anche nel 2008, quando la grande crisi dei mutui sub-prime sembrava potesse riportare Manhattan, Wall Street e tutta la finanza mondiale all'età della pietra.

Guardò la cartelletta.

Avrebbe voluto scrivere al professore e non per dirgli “aveva ragione” – quello lo sapeva già – ma per chiedergli se, oltre all’evoluzione del lavoro, avesse previsto anche la roulette del Bellagio di Las Vegas, dove in un weekend del 2003, Marco aveva lasciato in una notte quanto guadagnava in un trimestre. 

Sorrise di nuovo.

O forse era il bruciore di stomaco: la cena di ieri sera con i colleghi l'avevano fatta in un ristorante fusion in cui "innovativo" significava servire il risotto su di una pietra calda.

Chiuse lo zaino.

Infilò dentro due penne senza tappo, una graffetta arrugginita, e i resti simbolici di un’epoca in cui “digitale” era solo una marca di orologi Casio.

Scese nell’atrio.

Il receptionist – ventiquattro anni, laurea triennale in “Benessere Integrato e Creatività Transdisciplinare”, sneakers fluorescenti e sguardo zen – lo salutò:

«Happy retirement, Mr. De Santis!»

«Thank you, Son. Remember: quando un’app ti dice “vuoi accettare i nuovi termini?”, la risposta è sempre “no” – ma tanto accetta lo stesso.»

"What??" fu la risposta del receptionist preso in contropiede dall'uso dell'italiano, di cui non capiva una parola, prima di scuotere la testa e con un sorrisino ebete riprendere il suo solitario al terminale e pensare "Italians, crazy people".

Fuori, New York  accolse Mr. De Santis come aveva sempre fatto: rumorosa, indifferente, e piena di promesse non richieste.

E lui era tornato ad essere solo Marco, finalmente, non doveva più loggarsi, ma solo augurarsi che i "grandi" del pianeta, che parevano essere andati tutti fuori di senno da qualche anno, non avessero provocato una guerra atomica.

Libero.

Almeno finché qualche sistema legacy non avesse riesumato il suo nome per un audit del 2011.

Evento più temibile di un'esplosione nucleare.

E iniziò a comprendere suo figlio, che non ne aveva voluto sapere di studiare e lavorava come animatore sulle navi da crociera che facevano rotta tra le isole caraibiche, dove De Santis padre e i suoi colleghi meccanizzati cercavano di riconciliarsi con la vita durante le ferie comandate o la pensione, spendendo più dollari che potevano in ogni sorta attività di plastica che gli veniva venduta come "Adventures of a Lifetime".







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