martedì 6 maggio 2025

QUEL MINUTO ETERNO DAL SALOTTO AL GIARDINO

Avevo dieci anni e abitavo con la mia famiglia a Cividale del Friuli. Era il 6 maggio 1976, una sera calda e immobile, di quelle che in primavera sembrano già estate. Dopo il Rosario mariano nella piccola Chiesa di San Pietro ai Volti, come ogni sera di maggio, ci eravamo trattenuti nella piazzetta con gli amici a giocare. Ridevamo, correvamo, eravamo felici di quell'ora serale fuori casa consentita dalla "scusa" del Rosario. Eravamo bambini e non potevamo avere alcun presagio, nulla che lasciasse intuire ciò che sarebbe accaduto di lì a poco.

Poco prima delle 21 ero tornato a casa e mi ero seduto in salotto davanti alla TV; non ricordo cosa stessimo guardando io e mio fratello, solo che all’improvviso il pavimento ha cominciato a tremare leggermente, i vetri hanno vibrato per qualche secondo. Un sussulto breve, secco. Salii di scatto, col cuore in gola, e corsi in cucina dove c’erano mia madre, mio zio e mio nonno.

“Cos’è stato?” chiesi.

“Forse un camion pesante, passato a un’ora insolita,” disse lo zio, cercando di minimizzare.

“È stata una scossa di terremoto,” disse invece il nonno con calma, quasi come se fosse una cosa normale. “Ne ho sentite altre, anni fa. Niente di cui preoccuparsi.”

Ma i cani dei vicini avevano iniziato a ululare in modo strano. Quel latrare continuo, irrequieto, ora ci metteva addosso un’inquietudine difficile da spiegare. Non feci in tempo a tornare in salotto che un boato tremendo squarciò l’aria. La luce si spense. La casa intera prese a scuotersi con una forza mai immaginata. La polvere scendeva dal soffitto e restai lì, pietrificato. Bloccato. Non riuscivo a muovermi, come se il mio corpo non volesse obbedire.


Fu la voce di mia madre, il suo urlo, a strapparmi a quell’inerzia: mi chiamava a sé, stringendo il mio fratellino di sei anni. Riuscii finalmente a raggiungerla e insieme uscimmo nel giardino, mentre la terra continuava a tremare. Un minuto. Uno solo. Ma sembrava non finire mai.

In strada c’era già tutto il vicinato: gente che urlava, altri che piangevano. Nessuna casa era crollata, ma tutti avevamo capito che non era stata una scossa qualsiasi. Tentammo di telefonare a mio padre, che lavorava a Pordenone, ma le linee erano mute. Non sapemmo nulla di lui fino al mattino dopo, quando finalmente riuscì a raggiungerci.

Quella notte la passammo in auto. Le notizie erano confuse, frammentarie. Solo le sirene, che si sentivano quasi senza sosta, davano la misura di ciò che stava accadendo. E all’alba arrivò la verità: il Friuli centrale e la Carnia erano stati devastati. Gemona, Venzone, borghi e paesi interi rasi al suolo come da un bombardamento. I morti sarebbero stati quasi mille. Fabbriche, botteghe, case, scuole: sventrate, crollate, sparite.

Eppure, da quel dolore nacque una forza nuova. I friulani, gente abituata nei secoli alla fatica e al silenzio, non si persero in lamenti. Iniziarono subito a ricostruire. Dai paesi più colpiti partì un moto collettivo di rinascita. Come spesso accade in casi di calamità un po' ovunque, arrivarono aiuti da tutto il mondo: soldi, tecnici, mezzi, ma la differenza la fecero le persone. Le cose accadono, è vero. Non possiamo evitarle una volta che ci colpiscono tra capo e collo, ma ciò che conta davvero è come reagiamo. E il Friuli reagì con dignità e determinazione: fu come se il terremoto avesse risvegliato un orgoglio antico, sepolto da anni difficili, segnati da due guerre mondiali, poi dalle servitù militari e dalla nascita di un confine difficile con la Jugoslavia. Quello fu il momento in cui il Friuli rialzò la testa e cominciò a costruire il suo futuro.

Da zona più depressa del nord Italia, il terremoto anzichè sferrare il colpo di grazia e invitare i residenti ad imitare i tanti parenti che in epoche ancora vicine avevano fatto armi e bagagli per andare lontano a cercare maggior fortuna, nelle Americhe, in Canada, in Australia o più vicino in Svizzera e in Francia, diede il via al processo inverso e il Friuli seppe colmare il divario con le regioni economicamente più sviluppate dando vita assieme al vicino Veneto e al Trentino alla "locomotiva" del Nord-Est.

Per me, bambino di dieci anni, l’estate del ’76 restò impressa nella memoria in modo particolare: le scuole chiusero subito. Tutti fummo promossi. Sembrava quasi una vacanza anticipata, anche se tutto era cambiato. Dormivamo in tenda, nel giardino: io, mio fratello, mamma, papà, lo zio, il nonno. Una vita semplice, fatta di pochi oggetti e tanta vicinanza. Gli elicotteri atterravano nel campo sportivo, portavano soccorsi e aiuti ed io e mio fratello giocavamo all’aperto con gli altri bambini, che dormivano anche loro in tenda. Ci sentivamo parte di qualcosa di grande. Un clima di dolore, sì, ma anche di solidarietà, si percepiva tutt'intorno voglia di fare, di non arrendersi.

Sono stato fortunato. La mia città, Cividale, pur colpita, non fu distrutta e la memoria di ciò che accadde, di chi non c’è più e di chi ha costruito tutto da capo, non mi ha mai lasciato.

Oggi, a distanza di quasi cinquant’anni, ripensando a quella sera e a tutto ciò che seguì, mi rendo conto che quell’esperienza mi ha insegnato una cosa fondamentale, quasi banale: che la forza non è non crollare mai, ma sapersi rialzare, che la vera ricchezza di una comunità non sono le case o le fabbriche, ma le persone che la abitano. E che a volte, proprio dalle macerie, nasce ciò che prima sembrava impossibile.

Ieri fu così, domani chissà.


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