martedì 24 giugno 2025

"DOBBIAMO PARLARE", OVVERO L'ARTE DI NON VOLER ASCOLTARE

Era ancora presto, ma la metropolitana di Napoli aveva già l’odore tipico dei giorni feriali: un misto di caffè forte, profumo di sfogliatelle appena sfornate e quella tensione compressa di una città che corre sempre, ma a modo suo.

Claudio, milanese di nascita, era salito a Toledo, come faceva ogni mattina da quasi vent’anni. Trench grigio, ventiquattrore in pelle un po’ consumata, lo sguardo perso nel vuoto, tipico di chi ha imparato a misurare il tempo e le parole con rigore. Sedette senza nemmeno guardare chi aveva davanti. Poi alzò gli occhi e lo vide. Lo riconobbe subito.

«Io e te dobbiamo parlare», disse, di getto, con un sorriso appena accennato.

L’uomo davanti a lui, nato a Sorrento, si voltò di scatto, sorpreso. Aveva quell’aria più distesa, quasi solare, e un modo di fare gentile che tradiva una certa naturalezza nel rapportarsi agli altri.

«Ehi! Quanto tempo! Sei proprio tu! Ma ti prego… dobbiamo parlare, proprio no! Mannaggia li muort!»

Scoppiarono a ridere insieme, una risata leggera, disarmata. Come il sollievo di ritrovare un complice di un tempo in cui tutto sembrava avere più senso, o almeno più energia.

«Scusa», disse Claudio. «Ma era troppo facile. Te la ricordi, vero? Quante volte l’abbiamo sentita in filiale?»

«Eh già», annuì l’altro, Gianluca, con un sorriso di traverso. Aveva già tolto la cravatta, come faceva sempre appena lasciava l’ufficio. «Il vice che ti prendeva da parte con la faccia grave: “Dobbiamo parlare”. E tu lì a pensare: ho sbagliato un bonifico? Ho approvato un mutuo sbagliato?»

Claudio annuì. «O quella volta che credevano fossi stato io a bucare il plafond del cliente della Ferrari. Mi chiamò il direttore con quella faccia lì. Tre giorni di ansia per poi scoprire che era stato suo figlio a fare casino con il suo tablet.»

«Sì! E tu che avevi già preparato la lettera di dimissioni!»

Risero di nuovo, ma stavolta con una nota di malinconia sotto. Perché il tempo aveva limato le vette, ma anche le illusioni.

«Comunque», riprese Claudio, «ci pensavo proprio stamattina: quante volte ce la siamo sentita dire quella frase, “Dobbiamo parlare”? Ma in realtà nessuno voleva parlare davvero.»

Gianluca lo guardò di lato. «Volevano solo mettere le cose in chiaro. Unilaterali. Tu ascolti, io ti comunico. Punto.»

«Parlare, oggi, è diventato questo. Aspettare il proprio turno. Quando va bene.»

«Quando va bene, sì. Di solito ti interrompono prima che tu abbia finito la frase.»

Claudio guardava il vetro davanti a sé, ma non vedeva il suo riflesso. Pensava a Sara, la figlia ormai adolescente, e a quanto spesso si accorgesse di non ascoltarla davvero. «Come a tennis», mormorò. «Solo che invece della racchetta usiamo le parole. E ci affanniamo a ribattere, mica a capire.»

Gianluca annuì, improvvisamente serio. «Ma sai perché? Perché ascoltare è faticoso. E la fatica oggi non va di moda.»

«Già. Se una cosa richiede tempo, se ti costringe a fermarti, allora è “vecchia”. È “out”.» aggiunse Claudio.

"Non è solo fatica. È che ascoltare davvero… non è solo sentire», continuò Gianluca, con voce più bassa. «È cercare di capire cosa significano le parole dell’altro non per noi, ma per lui. E questo, Claudio, è devastante.»
L’altro si voltò, curioso.
«Cioè?»
«Cioè che quando qualcuno ti parla, tu credi di aver capito perché hai colto le parole. Ma quelle parole passano attraverso i tuoi filtri, le tue esperienze, i tuoi valori. E allora finisci per interpretarle alla luce di te stesso. Invece no. Dovresti leggerle con le sue lenti, col suo vissuto. Capire non cosa diresti tu in quella situazione, ma perché lui lo dice così, con quel tono, in quel momento. È… un’impresa. Una scalata interiore.»
Claudio annuì lentamente. «Serve empatia. E tempo. E voglia di uscire da se stessi. E chi ce l'ha?»
«Appunto. Oggi chi ce l’ha, quella voglia? Siamo tutti occupati a esistere nella nostra bolla, a difendere il nostro punto di vista come se fosse una roccaforte. E più l’altro è distante, più lo riduciamo a una caricatura. Troppa fatica mettersi nei suoi panni, meglio giudicare e tirare dritto.»
Il treno continuava la sua corsa, ma all’interno sembrava essersi creato un silenzio diverso. Di quelli che non pesano.

Gianluca sistemò il giubbotto sul grembo. Aveva lasciato la banca da un paio d’anni. Ora lavorava in consulenza finanziaria, meno sicuro, ma più libero. «Io non ne potevo più di quella dinamica da cartellino e riunioni inutili. Si parlava per non dire, e nessuno ascoltava nessuno. Tutti sempre in vetrina.»

«E quando parli davvero? Quando cerchi un dialogo autentico, magari ti dicono che sei pesante.»

Claudio lo guardò, stavolta con un sorriso più caldo. «Sai che ti invidio? Hai avuto il coraggio di mollare. Io sono ancora lì. Ogni giorno più stanco. Più muto.»

Il treno frenò bruscamente. Una voce metallica annunciò: «Toledo». Fermata di interscambio.

«Scendi qui?», chiese Gianluca.

«No», rispose Claudio. «Ma sai che ti dico? Dopo questo incontro, forse cambio direzione. Almeno mentale.»

Si strinsero la mano, come vecchi compagni di trincea. Si scambiarono i numeri, ma soprattutto una promessa: un pranzo. Un vero pranzo. Con calma. Con ascolto.

Poi Gianluca si alzò. Prima di uscire dal vagone si voltò, con un mezzo sorriso:

«Oh, ma la prossima volta niente “dobbiamo parlare”, eh? Ti denuncio per crimini contro l’umanità.»

L’altro sorrise. «Buona giornata, filosofo.»

«Anche a te, maestro del tennis.»

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