mercoledì 25 giugno 2025

SELINUNTE.EXE - ERROR 404: HUMAN OUT OF SYSTEM


Il sole di giugno calava obliquo sulle rovine di Selinunte, tingendo d’ambra le colonne spezzate e i capitelli disseminati tra l’erba secca. L’antico Tempio di Hera si stagliava solenne sul profilo del mare, come un avvertimento pietrificato mentre il vento portava odore di sale e lentisco, e con esso un silenzio strano, che sembrava chiedere rispetto.

L’uomo era seduto su una pietra piatta, sotto il porticato di quello che un tempo era un altare. Sessant’anni, forse poco più. Canizie ordinata, volto scavato dal sole e da qualche rimorso antico. Osservava il proprio cellulare con lo stesso sguardo con cui un contadino guarda una zappa rotta. Sullo schermo lampeggiava un messaggio: “Errore: impossibile aprire il contenuto.”

«E va' a cagare, pure tu e ‘sto cazzo di QR Code!» sbottò, non alzando neppure il tono.

La voce attirò l’attenzione di un ragazzo poco distante. Occhiali tondi, maglietta con una scritta criptica in codice binario, zainetto minimal. Si avvicinò sorridendo.

«Problemi di connessione o di interpretazione?»

L’uomo sollevò lo sguardo. «Entrambi. Ma è la seconda che mi preoccupa di più.»

Il ragazzo si chinò, gentile. «Posso aiutare? Sono un informatico, se vuole posso farle accedere al contenuto in due secondi.»

«No, no… è il contenuto che mi infastidisce, non la fatica per accedervi.»

Il giovane rise, pensando fosse una battuta. Poi, nel notare lo sguardo serio dell’uomo, tacque.

«Questi cosi… QR code, AI, app che ti spiegano la storia, che ti suggeriscono le emozioni da provare… ma dov’è finito l’uomo in tutto questo? Il mistero? L’errore? La fatica del capire?»

Il ragazzo si sedette accanto a lui, incuriosito.

«Mah, io la vedo diversamente. La tecnologia ci aiuta. Ottimizza. Ordina. Aumenta la nostra possibilità di conoscere, esplorare, persino di amare. L’AI non ci sostituisce, ci espande.»

L’uomo scrollò il capo. «Ecco, è lì che inizia la mia preoccupazione. Questa fiducia cieca. Ogni volta che esprimo dubbi su cosa ci stiamo giocando delegando le nostre decisioni a delle macchine, tutti mi ridono in faccia. “Sei un conservatore”, dicono. Vintage, aggiungono. Come se fosse un insulto.»

Il ragazzo sembrava colto di sorpresa, ma non ancora convinto. «Ma l’uomo resterà sempre al centro. Saremo noi a dare regole, etica, direzione. L’AI esegue. È uno strumento.»

L’uomo si voltò a guardare il tempio spezzato. «Anche queste pietre un tempo erano strumenti. Architettura, potere, religione. Ma guarda ora. Il tempo, la natura, la violenza dell’uomo… tutto ha lasciato il segno. E oggi restano solo rovine. L’AI non sarà diversa. L’illusione del controllo è l’ultima trappola. Davvero pensi che sarà l’uomo a governarla?»

Fece una pausa, poi aggiunse:

«L’uomo… quella specie illuminata che ha inventato la Shoah, che fa guerre ogni trent’anni, che stermina i più deboli per profitto… pensi davvero che questa specie sia in grado di scrivere algoritmi “etici”?»

Il ragazzo non rispose subito. La brezza si infilava tra le colonne, come un sussurro millenario.

«Io penso che ci proviamo. Che almeno questa volta non siamo del tutto ciechi. Abbiamo imparato qualcosa, forse.»

L’uomo sorrise amaramente. «Mosè, Buddha, Gesù, Maometto, Confucio… tutti ci hanno provato. Ma l’uomo ha sempre trovato il modo di disattendere le loro promesse. E ora pensi che saranno due righe di codice a salvarci? Auguri.»

Restarono in silenzio. Dall’alto del tempio, il sole morente sembrava osservare la scena come un vecchio che ne ha viste troppe.

«L’unica consolazione che ho,» mormorò l’uomo, «è che ho poco tempo davanti. Forse non vedrò l’ultima sostituzione. Quella totale.»

Il ragazzo si voltò verso di lui. «Ma se l’intelligenza artificiale un giorno prenderà tutto il controllo… davvero potrà fare peggio di noi?»

L’uomo si alzò in piedi, e guardò per un lungo istante le rovine. «È proprio questa la domanda. E forse, nel profondo, la risposta ti è già arrivata.»

Ora ragazzo osservava l’uomo con più attenzione, qualcosa, nella sua voce, negli occhi fermi, gli impediva di liquidarlo come l’ennesimo nostalgico. Era stanco, sì, ma non arrendevole e soprattutto, parlava con la calma di chi ha già visto le onde alzarsi e abbassarsi più volte nella vita.

«Ha l’aria di uno che ha lottato con questi temi prima che diventassero moda», disse il giovane, in tono meno ironico.

L’uomo sorrise appena. «Moda... già. Prima erano solo preoccupazioni da vecchi professori o da filosofi pessimisti. Oggi sono diventati pitch da conferenza, titoli di libri, panel da festival. Ma la sostanza resta la stessa: l’uomo gioca con qualcosa che crede di controllare e lo fa con una leggerezza che, se non fosse tragica, sarebbe ridicola.»

Si chinò e raccolse un piccolo frammento di marmo. Lo rigirò tra le dita come fosse una reliquia.

«Conosci la hybris

Il ragazzo fece spallucce. «Greco antico, giusto? Una specie di peccato di orgoglio?»

«Non solo. È molto di più. È lo scavalcare il limite. L’uomo che si crede pari agli dei, che si dimentica della sua misura. Metron, la chiamavano. Ogni volta che l’uomo oltrepassa quel confine, il destino – l’Anánkē – lo richiama. E non con le buone.»

Indicò le colonne spezzate tutt’intorno. «Guarda. Questo era un tempio a Hera, sposa di Zeus, regina degli dei. Luogo di culto, di ordine. Eppure ora è polvere. Perché? Perché la civiltà che l’ha eretto ha creduto di poter durare per sempre, di poter dominare tutto: natura, uomini, dei, ma nulla invece resta in piedi quando si dimentica il proprio limite.»

Fece una pausa. Il vento gli muoveva lievemente i capelli.

«Oggi la nostra hybris ha il volto levigato dell’algoritmo. Parliamo di progresso, efficienza, ottimizzazione… ma sotto c’è lo stesso delirio di onnipotenza di allora. Solo che questa volta è meno visibile, più subdolo: ci promette di toglierci la fatica di essere umani.»

Il giovane fissava l’orizzonte. Aveva smesso di sorridere. Un fremito gli passò negli occhi, come se qualcosa stesse scalfendo la sua certezza.

«Però non è solo delirio. È anche speranza. Desiderio di superare i nostri limiti, di curare, di capire…»

«Lo so», rispose l’uomo. «E in questo c’è una bellezza autentica. Non disprezzo il desiderio umano di conoscenza, né la tecnologia in sé. Ma mi chiedo: a che prezzo? Ogni volta che deleghiamo qualcosa all’AI, ci togliamo una parte di responsabilità. E quando smetti di scegliere, quando una macchina decide per te, anche solo in piccolo… qualcosa dentro si spegne.»

Un silenzio colmò lo spazio tra i due. Dalle colonne, i raggi del sole filtravano come dita divine, l’aria vibrava di una quiete ancestrale.

Il ragazzo parlò piano. «Ha paura?»

L’uomo esitò. Poi annuì.

«Sì. Ma non di quello che l’AI farà: ho paura di quello che non faremo più noi; dimenticheremo la bellezza dell’incertezza, dell’errore, del tentativo, la capacità di fermarci, di sbagliare, di piangere per una decisione presa col cuore, e non con un algoritmo. E quando questo succederà… non saremo più umani: saremo divenuti una civiltà apparentemente perfetta, ma spenta. Una Selinunte digitale: bellissima, ma morta.»

Il ragazzo lo guardò a lungo. Poi tirò fuori il telefono, e per un momento, lo contemplò come se non lo riconoscesse più.

«Posso farle una domanda?» chiese infine.

«Certo.»

«Se potesse scegliere… riavvolgere tutto… fermare questo processo prima che esploda… lo farebbe?»

L’uomo restò immobile. Guardava il tramonto che stava spegnendo lentamente i templi.

«No», disse. «Non servirebbe. Il processo è avviato. Irrefrenabile. Ma almeno… almeno potremmo procedere con coscienza. Con umiltà. Ricordando che l’uomo che sogna di diventare Dio, prima o poi si sveglia… e scopre invece di essere solo polvere. E poi, tutto questo in fondo riguarda più te che me. Come rispondono sempre i tuoi sodali quando cerco di  spiegargli che bisognerebbe andarci più cauti nel rendere indispensabili le app e l'AI nella vita di ogni giorno, non si può rallentare il progresso per me e per quelli come me, dato che tra 20 anni o giù di lì saremo tutti morti. Di nuovo, auguri, ragazzo.»


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