Milano, un giovedì pomeriggio di febbraio. L’aria umida colava sui vetri come una seconda pelle, e la luce di Piazza Duomo filtrava appena, slavata, grigia, immobile. Dall’ottavo piano dello studio legale Marchetti, lo skyline della città sembrava distante, irreale. Dentro, lo spazio aveva il silenzio morbido dei luoghi che non devono giustificarsi: boiserie scura, scaffali precisi, due poltrone basse di pelle chiara e una scrivania ampia, lucida, con un ordine talmente perfetto da sembrare freddo. Giorgio Marchetti vi sedeva dietro, in camicia bianca e giacca grigio scuro, assorto nella lettura di un parere giuridico che riguardava più il potere che la giustizia.
Alle sue spalle, il Duomo affiorava dalle nebbie come una promessa gotica non mantenuta. Giorgio era abituato a quella vista: ogni giorno, da quasi vent’anni, lavorava con l’idea che la bellezza e la complessità dovessero restare fuori dai casi legali. Non ne aveva bisogno. Gli bastavano la logica, l’esperienza, il distacco. La sua fama di penalista era costruita sull’assenza di stupore.
La porta si aprì senza bussare.
Luca, ventidue anni, jeans ancora umidi, zaino nero sulle spalle, uno sguardo che oscillava tra la frustrazione e la voglia di essere ascoltato per davvero.
LUCA
Odessa è saltata.
Lo disse così, di colpo, quasi come si sputa qualcosa che non si riesce più a tenere in bocca. Il padre alzò appena lo sguardo, la penna ancora in mano.
LUCA
Hanno sospeso il programma, chiuso tutto. Gli aeroporti, il corso. Niente tirocinio, niente cliniche. La guerra. Già.
Mi ero illuso, sai? Dopo il casino del Covid, pensavo che fosse finita. Che tornassimo alla normalità. Come se la normalità fosse una cosa che si può prenotare.
PADRE (senza cambiare tono)
Odessa... la città dei sogni in fiamme. Strano come i luoghi tornino, con ciclicità. A volte come ricordi, a volte come avvertimenti.
Luca fece qualche passo nella stanza, lasciando delle orme leggere sul pavimento di legno. Non si era tolto il giubbotto. Si sentiva ancora dentro, non accolto. Non voleva pietà. Ma nemmeno indifferenza. Sapeva che suo padre non avrebbe risposto con compassione. Ma sperava almeno in una verità.
LUCA
Sai cosa mi spaventa? Non è solo aver perso un’opportunità. È che ogni volta che cerco di costruire qualcosa, il mondo cambia schema. Sempre all’ultimo. Mi sento... come se stessi provando a montare un puzzle mentre i pezzi cambiano forma da soli.
Il padre lo osservò in silenzio. Non con disprezzo. Con quella specie di lucidità asciutta che somiglia molto alla stanchezza.
PADRE
È esattamente così. Il mondo cambia schema.
Sempre.
Il punto non è quando. Il punto è se sei abbastanza attento da accorgertene prima che succeda.
LUCA
Ma è sempre stato così?
PADRE
No.
O meglio: non sempre ce ne accorgevamo. Prima la complessità era nascosta. Oggi è ovunque. È nel telefono, nei voli low-cost, nei tuoi esami. È nella tua idea di libertà.
Fece una pausa, poi aggiunse:
PADRE
Nel 1989 avevo diciannove anni. Ero a casa, davanti alla TV, e vidi il Muro crollare. Quella notte sembrava che tutto potesse cominciare da capo. Fine della Storia, dissero. L’Occidente aveva vinto.
Non era vero, ovviamente. Era solo l’inizio del disordine elegante.
LUCA
E tu ci credevi?
PADRE
Sì. Per qualche mese. Poi iniziarono a cambiare le cose. I mercati, le alleanze, le illusioni.
Nel 2001 ero a New York. Lavoravo su una fusione internazionale, uno di quei casi che poi finisce sui giornali solo se qualcosa esplode.
Quel giorno, qualcosa esplose davvero.
Uscivo da un edificio a Lower Manhattan. Sentii il primo boato, poi il secondo. E poi il fumo, la gente ferma, i telefoni muti. Ricordo quella domanda che aleggiava in tutte le facce:
“E adesso?”
La stessa che ci eravamo fatti a Berlino, ma con un tono molto diverso.
Luca lo fissava. Non aveva mai sentito quel racconto. Mai sentito il padre usare la parola “paura” nemmeno per sbaglio. E ora, in quelle parole, non c’era paura. C’era qualcosa di peggio: la consapevolezza.
PADRE
Da lì in poi, solo strati. Strati di protezione, di controllo, di sospetto.
Dopo l’11 settembre: i corpi. Scanner, check-in, impronte.
Dopo il 2008: i soldi. Tracciabilità, regole, blocchi.
Dopo il Covid: il respiro stesso. La temperatura, le distanze, il fiato.
Ogni crisi ha portato con sé una nuova forma di controllo. E tutti, più o meno, abbiamo accettato.
LUCA
E ci abituiamo?
PADRE
No.
Ma impariamo a ignorarlo. A fingere che sia normale. Che sia il prezzo da pagare per “vivere bene”. Ma vivere bene non è gratis.
Il benessere, quello vero, si alimenta di equilibrio. E l’equilibrio… consuma ordine. Consuma entropia.
LUCA (a bassa voce)
L’entropia… il disordine.
PADRE
No.
L’entropia è la tendenza naturale di ogni sistema complesso a disgregarsi. È la legge che ci dice che ogni struttura organizzata, per restare tale, deve spendere energia.
Più il mondo si connette, più consuma energia per restare unito. E prima o poi, qualcosa salta.
Non è un’anomalia. È il ritmo interno del sistema.
Luca si sedette. I muscoli delle spalle si erano rilassati, ma dentro la mente era una centrifuga. Forse era questo che voleva: non risposte, ma sapere che qualcun altro aveva imparato a convivere con l’incertezza.
LUCA
Allora tanto vale mollare tutto?
PADRE
No. Ma smettila di cercare soluzioni definitive.
Ci sono solo strategie temporanee.
Non esiste una mappa. Solo un certo allenamento alla complessità.
Il silenzio si allungò. Fuori, un tram passava sotto la pioggia. Luca guardò fuori: la piazza, la gente, la vita che proseguiva senza troppe domande. Poi sorrise, appena.
LUCA
Domani vado a Livigno. Con Martina e gli altri. Tre giorni di sci. Niente telegiornali, niente piani. Solo neve e ginocchia stanche.
Mi prendo una pausa dal mondo che cambia schema.
Tanto, quando torno… ci sarà un altro pezzo da ricollocare.
PADRE (sorridendo con lentezza)
Va’ a Livigno.
E se ti capita di guardare una montagna, pensa che nemmeno quella è immobile.
Solo che ha imparato a crollare lentamente
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