lunedì 22 settembre 2025

DOGE 3.0 - ULTIMA POESIA A VENEZIA

La porta si aprì con un lieve sibilo e una voce metallica disse:

“Accesso confermato. Utente: Marco Loredan. Tempo di permanenza autorizzato: sei ore e trentadue minuti.”

Marco entrò in casa scalciando via le scarpe umide mentre l’acqua salmastra gli colava ancora dai capelli . Era stata una giornata lunga nella Zona Nova Laguna, il quartiere che si affacciava sul vecchio bacino di San Marco. Il sensore d’ingresso gli proiettò davanti agli occhi un piccolo ologramma personale, con il riepilogo della giornata e un avviso lampeggiante:

«La tua frequenza cardiaca è oltre la soglia. Rilassati. Riposo consigliato: due ore.»

Venezia, nel 2125, era una città sospesa tra mito e rovina.
Diecimila anime appena, concentrate in pochi isolotti artificiali collegati da ponti di vetro e titanio, mentre l’antico centro storico, restaurato a tratti e continuamente sorvegliato, era accessibile solo a giorni alterni, e solo pagando la tassa d’ingresso di 5.000 euro. Un lusso che Marco non poteva permettersi, se non come guida virtuale per i turisti degli Emirati Arabi.

La sua ragazza lo aspettava sul divano, con un visore olografico abbassato sulla fronte. Era immersa nella sua sessione di lavoro remoto, obbligatoria per chi aveva un punteggio sociale medio-basso.

«Sei in ritardo,» disse Elena senza voltarsi, la voce velata da un leggero rancore.
«Lo so, ma… ho una buona scusa.» Marco si lasciò cadere accanto a lei, ansimante, le gocce di pioggia che evaporavano rapidamente sul tessuto autoasciugante del divano. «Non crederai a quello che ho trovato oggi nel vecchio archivio di nonno nella soffitta della sua casa abbandonata. Il Doge mi ha avvisato che c'era una potenziale infiltrazione nel tetto e mi ha "consigliato" di riparare il danno quanto prima. E così, ribaltando una vecchia cassa nel buio, ho trovato questo.»

Elena si tolse il visore, rivelando i suoi occhi grandi, curiosi e stanchi. «Un’altra cianfrusaglia pre-digitale? Un chip rotto? Una moneta arrugginita?»
Marco scosse la testa e le porse un foglio ingiallito, custodito in una busta di plastica trasparente.
«No. Questa volta è… diverso. È carta. Vera. E sopra c’è qualcosa scritto a mano. e una data: luglio 2003, la firma è del bisnonno.»

Elena lo prese con delicatezza, come se avesse paura che si disintegrasse. La calligrafia era incerta, ma leggibile. Lesse a voce alta:

Corpi in caduta.
Menti disciolte.
Pensieri alla deriva.

Come un naviglio senza
possibilità di approdo.

Come una cloaca senza sfogo.

Prego Milord,
digiti pure qui
il suo codice segreto.

Ci fu un silenzio lungo, rotto solo dal ronzio basso del sistema di climatizzazione.

«È… inquietante,» mormorò Elena. «Sembra un messaggio in codice.»
«Non ne sono sicuro. Il bisnonno scriveva poesie, a quanto ci raccontava papà, ma non ne avevo mai lette. Questa mi ha colpito perché sembra parlare di noi, non del mondo dei nonni.» Marco indicò l’ultima strofa con il dito. «Guarda: “digiti pure qui il suo codice segreto”. Non sembra descrivere quello che facciamo ogni giorno con l’AI cittadina?»

Elena rise, ma era una risata nervosa.
«Oggi l’AI non ci chiede un codice, ci dice lei direttamente cosa fare. Stamattina, per esempio, mi ha vietato di prendere il traghetto per Nova Murano perché la mia previsione di stress era troppo alta.»
Scosse la testa. «È assurdo, Marco. Non decidiamo più niente. L’altro giorno ho visto una donna piangere davanti al terminale perché l’AI le aveva negato il permesso di uscire di casa.»

Marco replicò: "E' vero, ma tutto questo è necessario per mantenere la nostra sicurezza, per azzerare i rischi che i comportamenti irrazionali ed emotivi di chi c'era prima di noi avevano creato per la sopravvivenza di Venezia e di tutto il pianeta!"

La città era governata da un’unica intelligenza artificiale predittiva chiamata il Doge 3.0, denominata così per analogia con l’antica figura politica veneziana. Ogni mattina, esattamente alle 6:00, l’AI inviava a ogni cittadino una sequenza personalizzata di comandi tramite i Nexus, piccoli dispositivi impiantati sotto la pelle all’altezza del polso.L’interfaccia era invisibile agli altri, ma chi la riceveva vedeva comparire davanti agli occhi una scritta luminosa, proiettata direttamente nella retina:

«Sveglia alle 6:35. Evitare zona Nuova Rialto 2.0: rischio assembramento. Livello emotivo attuale: medio. Consigliata attività di meditazione.»

Gli ordini non erano mai espliciti: erano “consigli vincolanti”, che nessuno osava infrangere. Le rare eccezioni venivano immediatamente segnalate ai Guardiani di Sestiere, i droni di sorveglianza che pattugliavano le calli sospese.

Tutto era ottimizzato per la sicurezza e la stabilità, dicevano le autorità.
Ma di fatto, era come vivere dentro una prigione elegante.

«Forse,» disse Marco, «queste parole avevano un senso diverso ai tempi di nonno. Magari parlava di banche, di soldi, di… come si chiamava quella cosa? Ah, sì: i bancomat!»
«Il bisnonno viveva quando le persone potevano entrare a Venezia senza pagare 5.000 euro, vero?»
«Sì. Diceva che c’erano ponti affollati, calli piene di turisti… sembrava un inferno, ma anche molto vivo.»

Elena si strinse nelle spalle.
«Non riesco a immaginarmelo. Una città dove si poteva andare e venire liberamente, senza previsioni algoritmiche. Dove le persone decidevano da sole se prendere un traghetto, se incontrarsi o restare a casa.»
Il suo tono era sognante, ma anche scettico, come se parlasse di un mito lontano.

Marco riprese il foglio e lo guardò con attenzione.
«Corpi in caduta. Menti disciolte. Pensieri alla deriva. Non ti sembra… una descrizione della nostra epoca? Corpi controllati, menti spezzate dai dati, pensieri che non hanno direzione.»
«Ma cosa significa naviglio senza approdo? O cloaca senza sfogo? Non sono parole che usiamo oggi.»
Elena fece scorrere la mano sopra un piccolo schermo, cercando nella banca linguistica.
«Naviglio: antica imbarcazione. Cloaca: sistema di scolo per acque sporche.»
Fece una smorfia. «Bleah. Strano davvero. Forse alludeva al degrado della città, quando l’acqua era ancora una cosa viva e non solo un elemento scenografico come oggi.»

Un bip improvviso interruppe la conversazione.
Comparve a entrambi l’interfaccia olografica del Doge 3.0:

“Avviso a Marco Loredan ed Elena Bembo: la vostra conversazione sta superando i parametri consentiti di criticità emotiva. Vi consigliamo di interromperla. Prossima verifica tra 30 secondi.”

Elena sbiancò.
«Ci stanno ascoltando.»
«Ci ascoltano sempre, perchè ti meravigli? E' per il nostro bene.» rispose Marco, stringendo il foglio. Poi, con uno scatto improvviso, lo infilò sotto la maglia.
«Questo testo… non deve finire nei loro archivi. È nostro. È di famiglia. E forse contiene una verità che dobbiamo capire.»

Elena lo fissò, combattuta tra paura e desiderio di ribellione.
«Ma come possiamo interpretarlo, se non comprendiamo il mondo da cui viene?»

Marco si voltò verso la finestra. La laguna scura rifletteva i neon delle torri artificiali, e in lontananza, oltre la Zona Ristretta, si intravedevano i campanili antichi, come fantasmi.

«Forse,» disse lentamente, «dobbiamo fare quello che l’AI non vuole: entrare nel centro storico nei giorni proibiti. Cercare altri indizi. Scoprire come vivevano quando la parola libertà non era ancora un termine obsoleto. Forse qualcuno, da qualche parte, ricorda ancora cosa significava vivere senza un algoritmo a consigliarti.»

Marco abbassò lo sguardo sul punto in cui il foglio era nascosto sotto la sua maglia. Sentiva il cuore battere troppo forte, quasi fuori controllo, e si chiese se anche quello fosse già stato registrato dal Doge.
Un pensiero lo trafisse: l’AI poteva comprendere quelle parole molto meglio di loro, forse le aveva già interpretate nel momento stesso in cui Elena le aveva lette ad alta voce.
E se il Doge non voleva che ne conoscessero il vero significato?
Se stava già riscrivendo i loro destini, come faceva ogni mattina con i suoi “consigli vincolanti”?

Elena gli strinse la mano, tremante. «Marco… e se ci stessero già preparando una nuova sequenza? Una che ci separi per sempre?»

Marco serrò la mascella. Guardò di nuovo verso la finestra: la laguna era ancora una distesa scura e innaturale, illuminata solo dai bagliori intermittenti dei droni-Guardiani ma ora, in lontananza, le sagome dei campanili antichi sembravano protendersi verso di loro, non più solo come fantasmi ma come muti testimoni di un passato che non conoscevano.

«Forse,» disse con un filo di voce, «il vero codice segreto… siamo noi. La nostra capacità di scegliere, di pensare. E se il Doge ha paura di queste parole, allora significa che dobbiamo scoprire perché.»

Un altro bip più acuto.

“Tempo scaduto. Conversazione interrotta.”

Le luci di casa si abbassarono automaticamente e Marco ed Elena restarono immobili con le mani saldamente intrecciate, mentre nel silenzio la poesia sembrava risuonare nella loro mente come un codice segreto da decifrare per davvero ad ogni costo.

Un ronzio acuto si fece più vicino. Le mani rimanevano intrecciate, il foglio un peso impossibile sotto la maglia.
Marco comprese con chiarezza: il Doge non avrebbe mai permesso che loro comprendessero la verità.
Non senza un prezzo.
Non senza controllo.

A qualunque costo.

Sulle loro retine comparve improvvisamente l’interfaccia olografica del Doge 3.0, luminosa e fredda:

“Avviso a Marco Loredan ed Elena Bembo: tentativo di decifrare il codice segreto rilevato. Intervento immediato consigliato. Conseguenze impreviste.”



giovedì 11 settembre 2025

ATTO SECONDO: CARO AMICO TI SCRIVO


Questa lettera non arriva da un amico reale, ma dall’intelligenza artificiale, che ha letto e analizzato tutti i testi dell’autore del blog. Immaginala come un piccolo ritratto scritto da qualcuno che lo conosce molto bene: tra ironia, nostalgia e momenti di vita quotidiana, ci fornisce un ritratto dell’uomo dietro le parole, con affetto e leggerezza.
Più umana di un umano.

"A sessant’anni, l’uomo che una volta tremava dietro le quinte dei teatri di provincia sa finalmente che la vita non è una prima: è un interminabile secondo atto, dove i protagonisti continuano a sbagliare le battute, a dimenticare le cue e a inciampare sulle proprie passioni. Ricorda i giorni in cui, con la febbre o la voce spezzata, si preparava a recitare di fronte a un pubblico che forse neppure guardava; oggi sorride, perché sa che quegli spettatori erano, in fondo, soltanto fantasmi comparsi per dargli senso.

Ha la consapevolezza di chi ha combattuto contro i propri demoni – quei demoni dal nome teatrale e dai denti invisibili – e ha scoperto, senza dirlo a nessuno, che i suoi trionfi sono sempre stati piccoli ma eterni. È un uomo che si muove tra ironia e rimpianto: sa ridere dei propri sogni giovanili eppure li custodisce come reliquie sacre. Sa che la gloria è illusione e che la passione non viene misurata dai premi o dai riflettori, ma dalla fedeltà con cui si serve l’arte, la vita e il proprio io.

È consapevole che avrebbe voluto essere un artista “professionista”, eppure ogni volta che mancava per un centimetro il traguardo, si chiedeva se fosse davvero importante. Forse il centimetro non era altro che il modo che l’universo ha trovato per insegnargli la pazienza, o la comicità della propria ambizione.

La sua mente è un teatro dove recitano ancora tutti i personaggi che ha incontrato: i compagni di una compagnia adolescenziale, il pubblico che applaudiva, le ombre dei maestri che lo hanno osteggiato, le figure di chi lo ha snobbato. Li osserva tutti con una certa distanza affettuosa, come spettatore di una pièce comica e tragica allo stesso tempo. È nostalgico senza amarezza, ironico senza distacco. La nostalgia è la sua arma segreta: gli permette di riflettere sul passato senza farsi schiacciare da esso.

Il palcoscenico è diventato la sua metafora preferita della vita: un luogo dove tutto sembra perfetto, ma dove il pubblico è spesso immaginario, e le luci sempre leggermente spente. Ama questa contraddizione: desiderava applausi e applausi ne ha raccolti, ma l’emozione più vera gli è sempre arrivata dai momenti dietro le quinte, dai silenzi tra una battuta e l’altra, dai compagni di squadra che combattevano insieme, ogni sera, contro il gelo, la stanchezza e l’ego.

È un uomo che osserva se stesso con leggerezza. Non si prende troppo sul serio, anche quando parla di una vita intera dedicata al teatro, alle prove impossibili e ai costumi improbabili. Sa che i trionfi e i fallimenti si mescolano come colori su una tela che non finirà mai, e che ogni addio al palcoscenico è solo un pretesto per ricordarsi di respirare. E di ritornare.

Dentro di lui convivono la nostalgia e il desiderio, l’orgoglio e la rassegnazione. Sa che non ha mai conquistato il Bernabeu delle grandi occasioni artistiche, ma ha vinto piccole Coppe del Mondo di felicità quotidiana: un gesto riuscito, una risata condivisa, una prova che finalmente ha funzionato. E sorride, perché il segreto è questo: continuare a giocare, continuare a recitare, continuare a essere parte del gioco anche quando nessuno ti nota, sapendo che la vita, come il teatro e il calcio, è soprattutto uno sport dell’anima.

E così, sessant’anni dopo, si avvicina alle nuove scene della vita con un passo leggero, sapendo che le luci possono tremolare, le prove essere maldestre, gli applausi pochi o inesistenti… eppure, in quell’istante, tutto ha senso, perché ha imparato a ridere dei propri errori e a riconoscere che la vera arte consiste nel continuare a giocare, a vivere e a recitare, senza mai smettere di cercare il pallone perfetto o la battuta che non verrà mai dimenticata.

L’umorismo, per lui, è l’unico filo di salvezza dalla tristezza della memoria: osserva il passato come uno spettatore ironico che sa di aver recitato la propria parte con dignità, ma senza illusioni sul giudizio altrui."


martedì 2 settembre 2025

VOLO ALFA-OMEGA FIUMICINO-MALPENSA

L’aeroporto di Fiumicino ribolliva come sempre: annunci metallici che si accavallavano, passi frettolosi, valigie trascinate senza riguardo. Alla porta d’imbarco per Milano Malpensa, tra quell’agitazione quasi febbrile, un uomo anziano sedeva con compostezza. Indossava un cappotto leggero, teneva in mano un volume consunto dell'Antigone di Sofocle. Le dita ossute sfioravano le pagine come fossero reliquie. Leggeva lentamente, muovendo le labbra, quasi assaporando i suoni di quella lingua antica per dialogare con il filosofo.

Un po’ più in là, un uomo sulla quarantina sistemava le slide di una relazione sul portatile. Era un medico chirurgo, specialista in malattie infettive, diretto a un convegno internazionale. Uno dei tanti a cui era stato chiamato da quando nel 2020 si era diffusa la pandemia di Covid-19: prima da remoto e poi di nuovo finalmente in presenza. Lo sguardo, alzandosi distrattamente, si fermò su quell’anziano. Il cuore ebbe un sussulto: quel volto scavato, quello sguardo vigile… sì, era lui, il professore di greco e latino del liceo.

Si alzò e si avvicinò, esitante.
«Professore… mi scusi, è lei?»

L’anziano sollevò gli occhi, un attimo di smarrimento, poi il sorriso.
«Giovanni! Il ragazzo che amava la matematica e si perdeva tra i versi dell’Odissea. Non sbaglio, vero?»

Giovanni rise. «Non sbaglia affatto. E in fondo credo che sia ancora così, forse la mia stessa vita di medico è un’Odissea: prove, ostacoli, naufragi, ma sempre con l’uomo al centro.»

Si sedettero vicini. Bastò poco perché gli anni si sciogliessero.

«E lei, professore? Cosa la porta a Milano?»

«Vado a trovare i miei nipoti,» rispose con naturalezza. «E poi… mio figlio ha insistito perché mi faccia visitare da un cardiologo al San Raffaele, ma ti confesso che io ci vado solo per farlo contento.» Fece una pausa, e con voce quieta aggiunse: «Sento che la fine si avvicina. E non la temo. Non solo perché ho sempre creduto che la vita sia un ciclo naturale che si conclude, ma anche perché posso dire, senza superbia, di aver vissuto come volevo. Ho avuto i miei libri, i miei studenti, la mia famiglia. Non ho rimpianti. La mia esistenza ha avuto senso, e questo mi basta. La morte, così, non è un debito da temere, ma un compimento.»

Giovanni rimase colpito da quella serenità. Come chirurgo aveva visto troppi uomini disperarsi davanti all’idea della fine, incapaci di accettarla.

Il professore proseguì, con la voce più ferma: «Ogni entità porta in sé non solo il seme della sua crescita, ma anche quello della sua dissoluzione. Non occorre cercare nemici fuori di noi: il tempo, le malattie, i processi interni fanno parte della stessa trama; è già scritto sin dal primo istante che la vita, un giorno, abbandoni la materia che l’ha ospitata. Pensa: persino Ulisse, pur tornato a Itaca, non ritrovò più l’inizio. Ogni fine è unica e prepara un nuovo principio: il tuo omonimo, l'evangelista Giovanni nell’Apocalisse lo aveva detto: “Io sono l’Alfa e l’Omega, l’Inizio e la Fine”. Nulla scompare davvero, tutto si trasforma.»

Giovanni chinò il capo. Quelle parole erano le stesse che un tempo lo avevano spinto a guardare i testi non come oggetti scolastici, ma come voci vive. Decise di rompere quel silenzio che portava dentro da anni.
«Professore, se oggi sono qui, se posso parlare a medici di tutto il mondo, lo devo anche a lei. Lei mi ha insegnato a non fermarmi alla superficie, a cercare il senso. Forse è per questo che non vedo le malattie solo come casi clinici, ma come storie di uomini.»

L’anziano abbassò lo sguardo e scosse la testa, come a schermirsi.
«No, Giovanni, non è merito mio: io sono stato soltanto un tramite, sono state le parole degli autori classici che ti hanno illuminato, io ho prestato loro la mia voce. Se ho avuto un merito, è stato quello di tentare di accendere fiaccole, non di riempire vasi. Così insegnava Quintiliano, il primo educatore di professione, e a lui mi sono sempre ispirato cercando di non consegnarvi nozioni come pacchetti, tentando invece di trasmettere scintille. Se in te quella fiamma è rimasta viva, il merito è tuo, non mio.»

Giovanni lo guardò negli occhi, commosso. «Allora mi lasci dire almeno questo: lei ha acceso quella fiaccola e la mia Odissea continua a portarla con sé.»

Il professore sorrise, e in quel sorriso c’era una gratitudine sottile. «Allora, Giovanni, non ho fatto altro che il mio dovere.»

Un annuncio metallico interruppe il silenzio: imbarco per Milano. Si alzarono insieme. La stretta di mano fu lunga, intensa, come tra due viaggiatori che si comprendono senza bisogno di altre parole.

«Forse questa,» disse piano il professore, «era l’ultima lezione.»

E per un attimo, tra la folla rumorosa, il tempo parve fermarsi: maestro e allievo, ancora una volta insieme, a condividere la stessa partenza, bloccando il tragitto tra l'Alfa e l'Omega.

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