martedì 30 settembre 2025

GREY LEGACY


Patrick ha sessant’anni. Fa ancora il poliziotto, e gli mancano pochi anni alla pensione. Oggi è il suo turno di riposo. Cammina sulla spiaggia di Keansale, in Irlanda, e il vento freddo gli sferza il volto, come un richiamo costante: “non sei più giovane, ma sei ancora qui”. Le onde si frangono lente sulla sabbia scura, e lui avanza, passo dopo passo, misurato, come se la spiaggia stessa fosse un registro del tempo, un archivio del passato che solo i capelli grigi possono leggere.

C’era un tempo in cui i capelli grigi erano considerati un sigillo di autorevolezza. Non sempre meritato, beninteso, ma sufficiente a conferire un rispetto tacito. Oggi, invece, quei capelli sembrano soltanto un certificato di obsolescenza, un bollino invisibile che recita: legacy umano. Nessuno ti aggiorna, nessuno ti corregge, nessuno ti chiede permesso: sei semplicemente un residuo di qualcosa che ormai non serve più.

Per lungo tempo, quando lui era giovane, c’era una gara silenziosa a carpire i segreti di quelli con i capelli grigi. Non per vanità, non per invidia, ma per correre più veloce. Chi li possedeva sapeva scorciatoie invisibili, anticipava ostacoli, conosceva il mondo prima ancora di affrontarlo. La memoria, la lentezza ponderata, il pensiero riflessivo: strumenti indispensabili. Senza di essi, correre significava inciampare.

Oggi quelli dei capelli grigi, come lui, sono un ingombro. Troppo lenti nell’universo digitale. Il loro sapere è diventato un intralcio, la loro memoria una perdita di tempo. La memoria non fa like. Non produce flussi, non alimenta feed, non aggiorna il cloud. Serve solo chi sa postare, creare contenuti in grado di dilatare un eterno presente, aggiornare continuamente, perchè altrimenti diventa obsoleto in 5 minuti. Tutto il resto è legacy. Bug permanente. Peso inutile.

Patrick osserva i giovani correre. Li compatisce ma senza rancore. Non li giudica. È sempre stato così: i giovani guardano avanti, e sempre lo faranno. La differenza è che oggi non hanno bisogno di ciò che lui sa. Vogliono velocità. Connessione. Dati in movimento. E non importa quanto tu ricordi: non rallenti solo loro, sei inutile per la corsa digitale.

Racconti qualcosa del passato?
Fastidio.
“Ah sì… bello… ma possiamo correre adesso?”
Correre? Non vogliono memoria.
Non vogliono storia.
Non vogliono sapere cosa è successo prima di questa app.
Vogliono solo velocità.

Suggerisci un consiglio?
“Oh, ok… ma puoi correre più veloce?”
Racconti un’esperienza?
“Interessante, ma è inutile: così si rallenta.”


Un tempo parlava, e i ragazzi ascoltavano perchè avevano fretta d'imparare mentre adesso pare abbiano desiderio solo di dimenticare, di andare oltre, il suo sapere non è più funzionale.

"Prima eri saggio; oggi sei l’unico in sala che non ha l’app per votare il menu."

Eppure li guarda, e sorride. Così convinti, così impazienti, così certi che ciò che non è nel cloud non esista. Non sanno cos’è la conoscenza vera. Non sanno cosa significhi ricordare senza digitare nulla, senza aggiornare, senza connessione.

E lui resta lì. Patrick, capelli grigi, lento, pieno di ricordi inutili per la corsa di oggi. Ma felice. Felice della sua lentezza. Felice della sua memoria offline, come quella acquisita dai vecchi colleghi: “Non farti vedere, ma osserva tutto – gli aveva detto il sergente McGovern durante un pedinamento – Impara il ritmo della vita delle persone. Solo chi conosce i tempi può anticipare le azioni.” Patrick ricorda il suono dei passi nel vicolo bagnato, l’odore della pioggia mista a quello del fango e del legno umido, e come il sospetto, ignaro, arrivò al punto giusto. Grazie a quell’insegnamento, la situazione fu risolta senza che nessuno si facesse male, e il collega più giovane imparò da quella calma misurata. Nessun GPS, nessun feed, nessuna app avrebbe potuto dare quell’intuizione: solo l’esperienza, la memoria e la pazienza offline.

Ed era felice di sapersi emozionare per cose che il cloud non potrà mai dare. Può osservare, ridere un po’ delle loro app, dei feed, della loro fretta digitale… e sentirsi ancora intero.

Correre sempre non è vivere sempre. Essere costantemente connessi non è sapere. E sapere tutto, senza cercarlo nel cloud, è un privilegio che nessuno potrà mai portargli via.

Il vento lo colpisce di nuovo, le onde ritornano e si ritirano. Il cloud si aggiorna senza sosta. Lui osserva. Il tempo si muove più lentamente sulla sabbia. E va bene così.

domenica 28 settembre 2025

A RESIUTTA RIVIVE UN PEZZO DI CUORE CIVIDALESE

Chapeau a chi ha avuto l’idea ed ha saputo realizzarla: dal 2019 la mitica littorina ADn800 operativa dal 1959 al 2005 sulla Udine-Cividale è stata trasformata in bar-ristorante a servizio della stazione di Resiutta sulla ciclabile Alpe-Adria, che ha sostituito la vecchia ferrovia.

Entrare e sedersi sui seggioloni verdi è stato peggio che entrare in una macchina del tempo, ripensando a quanti viaggi sono iniziati e terminati lì dentro, a quanti sogni, speranze, timori, gioie, dolori si sono consumati negl’anni sentendo lo sferragliare della mitica littorina.

Un vero e proprio microcosmo in movimento nei 20 minuti del tragitto tra Udine e Cividale, che ha visto nascere amori, amicizie e progetti professionali e imprenditoriali.

Mio santolo, ad esempio, fu un macchinista della linea: non era un parente ma aveva conosciuto mio padre in treno, quando il babbo da pendolare, ogni mattina si recava, giovane garzone, a lavorare nel negozio udinese della catena  "Morassutti" in riva Bartolini (oggi sede della Biblioteca Civica).

Peccato che a suo tempo nessuno dei miei concittadini abbia pensato di farla riposare, ridandole nuova vita, nella sua sede naturale, dove, tra le altre cose, tanta gioventù italiana in età di leva ci ha lasciato un bel po’ di lacrime e sorrisi, trasportata da quei sedili verdi. Dal 1959 al 2005.

Insomma, un bel pezzo di cuore cividalese - e oltre - rivive sulla pontebbana.

martedì 23 settembre 2025

MIDNIGHT IN LITTLE ROCK

La notte era umida, carica di un odore di terra bagnata che sembrava contenere, insieme all’umidità stessa, il peso di tutte le attese mai realizzate, i sogni mai osati e i ricordi che non erano mai stati.
Samuel camminava lungo la strada sterrata, con una valigia il cui peso non era solo fisico ma quasi morale, come se dentro ci fosse concentrata la gravità di ciò che avrebbe potuto fare e non aveva ancora fatto, mentre dietro di lui brillavano le luci tremolanti delle fattorie dell’Arkansas.
Luci in lontananza, fragili e oscure, come se fossero sospese tra ciò che resta e ciò che si lascia andare, continuavano a luccicare come piccole promesse che lui stava, in qualche modo, tradendo, mentre davanti si stendeva la highway lucida di pioggia che lo avrebbe condotto verso Little Rock e, oltre ancora, verso New York.
La Big Apple, la città mai vista, eppure così abitata nei suoi sogni da sembrare reale, promessa e minaccia insieme, spazio dove il desiderio e l’incertezza si mescolano in un nodo così intricato che pensare al futuro provoca vertigini tali da confondersi con il corpo stesso, con la respirazione, con la terra sotto i piedi.

Nella tasca interna del giubbotto portava la lettera dell’Actors Studio, già stropicciata dalle mani che l’avevano letta e riletta, come se ogni piega fosse un segno tangibile della tensione fra ciò che desiderava e ciò che temeva; non era un invito, non era una porta aperta, solo una fessura che prometteva qualcosa e nello stesso tempo minacciava il vuoto, e le parole che Nathan gli aveva detto, lo seguivano come un’ombra permanente, non lasciandolo solo un istante:

«Uno su mille ce la fa, è risaputo: e senza qualcuno che ti spalanchi la porta, che ti sponsorizzi, Samuel, sarai solo uno dei novecentonovantanove che tornano qui, più vecchi e più arrabbiati, magari tossico e con le pezze al culo.»

E così, forse più per la necessità di nominare quella paura che per vera convinzione, Samuel si diresse dal sig. Carter, il vecchio ufficiale dell'anagrafe in pensione, cercando qualcuno che sapesse dare un volto al terrore del fallimento, che potesse insegnargli, con la sola presenza e senza fretta, a riconoscere il senso di ciò che lo paralizzava.

La casa di Carter non era costruita; sembrava sedimentata nel tempo, un accumulo di anni e di attese non compiute, un edificio che respirava lentamente e che raccontava storie di compromessi e di desideri traditi attraverso le assi scricchiolanti e le persiane che il vento sollevava e lasciava ricadere.
Sulla veranda, una sedia a dondolo oscillava, lenta e regolare, sospesa tra il movimento dell’aria e quello dei pensieri del proprietario, che sedeva avvolto in una coperta, lo sguardo perso nella campagna notturna e nello stesso tempo dentro se stesso, come chi porta addosso una vita intera di strade parallele consumate, una vita in cui ciò che si amava di più veniva rimandato o sacrificato, sempre, per la ragionevolezza, per la sicurezza, per il dovere, per il compromesso. 
Ogni vecchio ha un odore, e Carter aveva quello della carta, dei faldoni, delle stanze d’ufficio e dell’illusione che la vita possa essere domata con firme e timbri.

Samuel esitò.

«Mr. Carter… non so che fare. Se resto qui, frequento l’università locale, entro nell’azienda di famiglia: vita sicura, prevedibile, protetta… senza sorprese né umiliazioni. Ma se parto per New York, inseguo il sogno di diventare attore… e se fallisco, torno indietro con niente. Uno dei novecentonovantanove, come dice Nathan.»

Il silenzio cadde tra loro come una coperta pesante eppure fragile, e solo il dondolio della sedia rompeva la quiete, come un battito di cuore esterno, lento e insistente, mentre la notte sembrava sospendere il tempo, trattenere i secondi in attesa di una risposta che non era solo per Samuel ma per chiunque si fosse trovato di fronte a un bivio della vita senza sapere quale strada scegliere.

Carter si schiarì la voce e cominciò a parlare, lentamente, come se avesse tutta la vita per spiegare, come se le parole stesse non potessero mai contenere pienamente ciò che voleva dire:

«In ogni caso saresti in buona compagnia, Samuel; non ti cruciare troppo» 

esordì Mr. Carter, con un mezzo sorriso fissando il giovane bonariamente, quasi a voler alleggerire il peso che insisteva sul ragazzo; ma poi si fece più serio e, spostando lo sguardo verso l'orizzonte  proseguì: 

 «Quando avevo vent’anni, Samuel, ero come te: avevo molti talenti, alcune cose le facevo così bene da intuire già allora che la vita avrebbe potuto chiedermi di dare il meglio di me. Ma non è andata così. Ho sempre saputo cosa non volevo fare, più che ciò che volevo, e così mi affidai al compromesso: accettare temporaneamente ciò che detestavo, convincendomi che nel frattempo avrei costruito una strada parallela, una via segreta, che mi avrebbe portato finalmente a ciò che desideravo davvero. Ma le strade parallele non resistono, Samuel. Si consumano. Si dissolvono. E io rimasi solo sulla strada che temevo e che avevo giurato di non percorrere.» 

Mr Carter interruppe per un attimo il suo dicorso per estrarre dalla tasca un pacchetto di sigari cubani e dopo averne acceso uno e riempito dell'aroma di tabacco tutto l'ambiente, con uno sbuffo, proseguì. 

«Ho passato la vita a fare ciò che detestavo, e per di più lo facevo male, mentre tutte le mie capacità migliori restavano inutilizzate, intrappolate in una società che, al di sotto delle frasi fatte di circostanza, non vuole riconoscere il merito, non è interessata valorizzare ciò che un uomo sa fare meglio, perché l’obiettivo non è la crescita ma la conservazione del potere. E raramente un uomo di valore, che per essere tale deve essere un campione del libero pensiero e navigare lontano dal mare dei pregiudizi, può essere strumentale a chi comanda. Un uomo libero non si fa manipolare, e se non sei manipolabile o ricattabile diventi un pericolo e, perciò, chi è al potere trova il modo di metterti fuori gioco, con le buone o con le cattive; sia che tu viva in una democrazia o in una dittatura. Variano solo i metodi, non la sostanza. »

Fece un'altra pausa. Respirò. «Mentre tu disegni la tua strada con i sogni, Samuel, la Vita ne disegna un’altra con strumenti diversi. Raramente coincidono.»

Alzò gli occhi al cielo e poi, inspirando profondamente sorrise appena, come se scherzasse con se stesso e si rivolse di nuovo a Samuel:

«Ma la vita… la vita ha un modo tutto suo di insegnarti che, qualunque strada tu scelga, anche quella apparentemente giusta, col tempo, tende a diventare ordinaria. Tutto ciò che ora ti sembra straordinario — i successi, le possibilità, perfino i tuoi sogni — finirà per diventare acquisito, scontato. Ti concentrerai sempre su ciò che non funziona, su ciò che manca, e dimenticherai quanto hai avuto.»

Mr. Carter, abbassò il capo per un istante, quasi avesse vergogna per quanto aveva detto, ma poi riprese senza tentennamenti ciò che stava per diventare una confessione.

«Io, con i miei compromessi… ho visto svanire molte possibilità di dare il meglio di me. Probabilmente molte più di quante ne avrei potuto cogliere, ma mi hanno anche portato fin qui, a un’età in cui posso osservare i ragazzi come te, parlare della vita senza ansia, senza fretta… a fare il mentore. E in questo, credimi, c’è una forma di pace. Una pace che non vale meno dei sogni, solo perché arriva con i capelli grigi e meno strada da percorrere in avanti.»

Poi abbassò lo sguardo sulle mani, più a se stesso che a Samuel.

«La natura umana è così: sempre pronta a desiderare ciò che non ha, a rimpiangere o mitizzare ciò che ha perso, a trascurare le conquiste che invece ha ottenuto. Fa parte del gioco, ma comprenderlo significa uscirne vincitori, perchè solo così puoi imparare a scegliere senza essere schiacciato dalla paura del futuro e, soprattutto, a godere nel presente di ciò che hai saputo comunque costruire.»

Il vecchio ufficiale dell'anagrafe di Little Rock continuava a sbuffare tabacco come il camino di una locomotiva lanciata a tutta velocità verso il capolinea di un viaggio nel selvaggio West.  

« E c’è un’altra verità che devi sapere. Forse, arrivando a New York, scoprirai che ciò che inseguivi non era la tua vera vocazione. Forse ami solo l’idea di essere un attore, mentre il mondo reale del cinema, delle audizioni, dei rifiuti continui, non è affatto quello che avevi immaginato e potrebbe richiederti compromessi ben più grandi con la tua coscienza. Oppure la tua vocazione è autentica, ma per qualcosa che al mondo non interessa, qualcosa che non ha spazio, e che nessuno sarà disposto a coltivare. E questo non è una condanna: è solo un modo della vita per ricordarti che i sogni spesso esistono al di là della realtà, e che affrontare questa distanza è parte del prezzo che si paga per vivere.»

Samuel abbassò lo sguardo, le mani strette attorno alla valigia.

«Ho paura, Mr. Carter. Paura di fallire, paura di scoprire che non sono abbastanza, paura di buttare via anni preziosi.»

Carter lo guardò a lungo, e la sua voce si fece calma e tagliente al tempo stesso:

«La paura non è il tuo nemico, Samuel. È un messaggero. Ti segnala che c’è un pericolo, ma non ti dice quale, quello lo lascia scoprire a te. E il vero dramma, il vero fallimento, non è seguire la paura: è non scegliere, illudersi che non scegliere conservi intatta la possibilità di un sogno senza pagare il prezzo del rischio, senza sopportare il peso della paura. È pensare che potrai comunque un giorno raggiungere le stelle, semplicemente guardandole dal basso. È il rischio di ritrovarti, a cinquant’anni, a osservare il cielo notturno con il cuore fermo, sapendo che quelle stelle non si possono mai raggiungere,  consolandoti solo con il fatto che almeno esistono ancora, sospese, lassù, da contemplare.»

E fece una pausa, lasciando che le parole scendessero lente come pioggia sul terreno della mente del ragazzo:

«Quando ascolti la paura, chiedile: ‘Da che cosa stai cercando di proteggermi?’ Non sempre il pericolo che percepisci è reale. Solo comprendendolo puoi scegliere davvero.»

L’alba cominciava a tingere il cielo di rosa e arancio, e la luce scivolava tra i campi come una promessa che nessuno aveva chiesto. Samuel prese la valigia. Davanti a lui, la strada si divideva:
a sinistra, la stazione degli autobus per New York;
a destra, l’università e l’azienda di famiglia, la sicurezza che sarebbe stata insieme consolazione e prigione.

Mr. Carter rimase sulla veranda, senza chiamarlo. Solo il dondolio della sedia rompeva il silenzio, mentre il vecchio osservava il ragazzo allontanarsi tra le luci dell’alba. Mr. Carter si rivolse da lontano, un'ultima volta, a Samuel. 

«Ricorda: ogni scelta vera comporta un cambiamento drastico del contesto in cui ci si muove. Non esiste percorso senza imprevisti, senza ostacoli imposti dagli altri o dalla natura stessa, e quando li affronterai scoprirai risorse che neanche sospettavi di avere. Abbi fiducia, Samuel! Ogni bivio è un rischio, ma anche un’occasione di meravigliarti per ciò di cui sei davvero capace.»

Poi mormorò, come parlando a se stesso:

«Ogni volta che un talento si spegne, la società perde una parte di sé, ma la ferita più grande è di chi scopre che non ha mai davvero scelto la sua strada.»

E il vento portò via le sue parole, mentre Samuel camminava verso ciò che ancora non sapeva essere il suo destino, con le stelle sospese sopra di lui, splendenti e irrangiungibili, come tutte le verità della vita, mentre ogni passo, ogni scelta, ogni paura e ogni rischio cominciavano a delineare la forma di ciò che avrebbe potuto essere la sua esistenza.

lunedì 22 settembre 2025

DOGE 3.0 - ULTIMA POESIA A VENEZIA

La porta si aprì con un lieve sibilo e una voce metallica disse:

“Accesso confermato. Utente: Marco Loredan. Tempo di permanenza autorizzato: sei ore e trentadue minuti.”

Marco entrò in casa scalciando via le scarpe umide mentre l’acqua salmastra gli colava ancora dai capelli . Era stata una giornata lunga nella Zona Nova Laguna, il quartiere che si affacciava sul vecchio bacino di San Marco. Il sensore d’ingresso gli proiettò davanti agli occhi un piccolo ologramma personale, con il riepilogo della giornata e un avviso lampeggiante:

«La tua frequenza cardiaca è oltre la soglia. Rilassati. Riposo consigliato: due ore.»

Venezia, nel 2125, era una città sospesa tra mito e rovina.
Diecimila anime appena, concentrate in pochi isolotti artificiali collegati da ponti di vetro e titanio, mentre l’antico centro storico, restaurato a tratti e continuamente sorvegliato, era accessibile solo a giorni alterni, e solo pagando la tassa d’ingresso di 5.000 euro. Un lusso che Marco non poteva permettersi, se non come guida virtuale per i turisti degli Emirati Arabi.

La sua ragazza lo aspettava sul divano, con un visore olografico abbassato sulla fronte. Era immersa nella sua sessione di lavoro remoto, obbligatoria per chi aveva un punteggio sociale medio-basso.

«Sei in ritardo,» disse Elena senza voltarsi, la voce velata da un leggero rancore.
«Lo so, ma… ho una buona scusa.» Marco si lasciò cadere accanto a lei, ansimante, le gocce di pioggia che evaporavano rapidamente sul tessuto autoasciugante del divano. «Non crederai a quello che ho trovato oggi nel vecchio archivio di nonno nella soffitta della sua casa abbandonata. Il Doge mi ha avvisato che c'era una potenziale infiltrazione nel tetto e mi ha "consigliato" di riparare il danno quanto prima. E così, ribaltando una vecchia cassa nel buio, ho trovato questo.»

Elena si tolse il visore, rivelando i suoi occhi grandi, curiosi e stanchi. «Un’altra cianfrusaglia pre-digitale? Un chip rotto? Una moneta arrugginita?»
Marco scosse la testa e le porse un foglio ingiallito, custodito in una busta di plastica trasparente.
«No. Questa volta è… diverso. È carta. Vera. E sopra c’è qualcosa scritto a mano. e una data: luglio 2003, la firma è del bisnonno.»

Elena lo prese con delicatezza, come se avesse paura che si disintegrasse. La calligrafia era incerta, ma leggibile. Lesse a voce alta:

Corpi in caduta.
Menti disciolte.
Pensieri alla deriva.

Come un naviglio senza
possibilità di approdo.

Come una cloaca senza sfogo.

Prego Milord,
digiti pure qui
il suo codice segreto.

Ci fu un silenzio lungo, rotto solo dal ronzio basso del sistema di climatizzazione.

«È… inquietante,» mormorò Elena. «Sembra un messaggio in codice.»
«Non ne sono sicuro. Il bisnonno scriveva poesie, a quanto ci raccontava papà, ma non ne avevo mai lette. Questa mi ha colpito perché sembra parlare di noi, non del mondo dei nonni.» Marco indicò l’ultima strofa con il dito. «Guarda: “digiti pure qui il suo codice segreto”. Non sembra descrivere quello che facciamo ogni giorno con l’AI cittadina?»

Elena rise, ma era una risata nervosa.
«Oggi l’AI non ci chiede un codice, ci dice lei direttamente cosa fare. Stamattina, per esempio, mi ha vietato di prendere il traghetto per Nova Murano perché la mia previsione di stress era troppo alta.»
Scosse la testa. «È assurdo, Marco. Non decidiamo più niente. L’altro giorno ho visto una donna piangere davanti al terminale perché l’AI le aveva negato il permesso di uscire di casa.»

Marco replicò: "E' vero, ma tutto questo è necessario per mantenere la nostra sicurezza, per azzerare i rischi che i comportamenti irrazionali ed emotivi di chi c'era prima di noi avevano creato per la sopravvivenza di Venezia e di tutto il pianeta!"

La città era governata da un’unica intelligenza artificiale predittiva chiamata il Doge 3.0, denominata così per analogia con l’antica figura politica veneziana. Ogni mattina, esattamente alle 6:00, l’AI inviava a ogni cittadino una sequenza personalizzata di comandi tramite i Nexus, piccoli dispositivi impiantati sotto la pelle all’altezza del polso.L’interfaccia era invisibile agli altri, ma chi la riceveva vedeva comparire davanti agli occhi una scritta luminosa, proiettata direttamente nella retina:

«Sveglia alle 6:35. Evitare zona Nuova Rialto 2.0: rischio assembramento. Livello emotivo attuale: medio. Consigliata attività di meditazione.»

Gli ordini non erano mai espliciti: erano “consigli vincolanti”, che nessuno osava infrangere. Le rare eccezioni venivano immediatamente segnalate ai Guardiani di Sestiere, i droni di sorveglianza che pattugliavano le calli sospese.

Tutto era ottimizzato per la sicurezza e la stabilità, dicevano le autorità.
Ma di fatto, era come vivere dentro una prigione elegante.

«Forse,» disse Marco, «queste parole avevano un senso diverso ai tempi di nonno. Magari parlava di banche, di soldi, di… come si chiamava quella cosa? Ah, sì: i bancomat!»
«Il bisnonno viveva quando le persone potevano entrare a Venezia senza pagare 5.000 euro, vero?»
«Sì. Diceva che c’erano ponti affollati, calli piene di turisti… sembrava un inferno, ma anche molto vivo.»

Elena si strinse nelle spalle.
«Non riesco a immaginarmelo. Una città dove si poteva andare e venire liberamente, senza previsioni algoritmiche. Dove le persone decidevano da sole se prendere un traghetto, se incontrarsi o restare a casa.»
Il suo tono era sognante, ma anche scettico, come se parlasse di un mito lontano.

Marco riprese il foglio e lo guardò con attenzione.
«Corpi in caduta. Menti disciolte. Pensieri alla deriva. Non ti sembra… una descrizione della nostra epoca? Corpi controllati, menti spezzate dai dati, pensieri che non hanno direzione.»
«Ma cosa significa naviglio senza approdo? O cloaca senza sfogo? Non sono parole che usiamo oggi.»
Elena fece scorrere la mano sopra un piccolo schermo, cercando nella banca linguistica.
«Naviglio: antica imbarcazione. Cloaca: sistema di scolo per acque sporche.»
Fece una smorfia. «Bleah. Strano davvero. Forse alludeva al degrado della città, quando l’acqua era ancora una cosa viva e non solo un elemento scenografico come oggi.»

Un bip improvviso interruppe la conversazione.
Comparve a entrambi l’interfaccia olografica del Doge 3.0:

“Avviso a Marco Loredan ed Elena Bembo: la vostra conversazione sta superando i parametri consentiti di criticità emotiva. Vi consigliamo di interromperla. Prossima verifica tra 30 secondi.”

Elena sbiancò.
«Ci stanno ascoltando.»
«Ci ascoltano sempre, perchè ti meravigli? E' per il nostro bene.» rispose Marco, stringendo il foglio. Poi, con uno scatto improvviso, lo infilò sotto la maglia.
«Questo testo… non deve finire nei loro archivi. È nostro. È di famiglia. E forse contiene una verità che dobbiamo capire.»

Elena lo fissò, combattuta tra paura e desiderio di ribellione.
«Ma come possiamo interpretarlo, se non comprendiamo il mondo da cui viene?»

Marco si voltò verso la finestra. La laguna scura rifletteva i neon delle torri artificiali, e in lontananza, oltre la Zona Ristretta, si intravedevano i campanili antichi, come fantasmi.

«Forse,» disse lentamente, «dobbiamo fare quello che l’AI non vuole: entrare nel centro storico nei giorni proibiti. Cercare altri indizi. Scoprire come vivevano quando la parola libertà non era ancora un termine obsoleto. Forse qualcuno, da qualche parte, ricorda ancora cosa significava vivere senza un algoritmo a consigliarti.»

Marco abbassò lo sguardo sul punto in cui il foglio era nascosto sotto la sua maglia. Sentiva il cuore battere troppo forte, quasi fuori controllo, e si chiese se anche quello fosse già stato registrato dal Doge.
Un pensiero lo trafisse: l’AI poteva comprendere quelle parole molto meglio di loro, forse le aveva già interpretate nel momento stesso in cui Elena le aveva lette ad alta voce.
E se il Doge non voleva che ne conoscessero il vero significato?
Se stava già riscrivendo i loro destini, come faceva ogni mattina con i suoi “consigli vincolanti”?

Elena gli strinse la mano, tremante. «Marco… e se ci stessero già preparando una nuova sequenza? Una che ci separi per sempre?»

Marco serrò la mascella. Guardò di nuovo verso la finestra: la laguna era ancora una distesa scura e innaturale, illuminata solo dai bagliori intermittenti dei droni-Guardiani ma ora, in lontananza, le sagome dei campanili antichi sembravano protendersi verso di loro, non più solo come fantasmi ma come muti testimoni di un passato che non conoscevano.

«Forse,» disse con un filo di voce, «il vero codice segreto… siamo noi. La nostra capacità di scegliere, di pensare. E se il Doge ha paura di queste parole, allora significa che dobbiamo scoprire perché.»

Un altro bip più acuto.

“Tempo scaduto. Conversazione interrotta.”

Le luci di casa si abbassarono automaticamente e Marco ed Elena restarono immobili con le mani saldamente intrecciate, mentre nel silenzio la poesia sembrava risuonare nella loro mente come un codice segreto da decifrare per davvero ad ogni costo.

Un ronzio acuto si fece più vicino. Le mani rimanevano intrecciate, il foglio un peso impossibile sotto la maglia.
Marco comprese con chiarezza: il Doge non avrebbe mai permesso che loro comprendessero la verità.
Non senza un prezzo.
Non senza controllo.

A qualunque costo.

Sulle loro retine comparve improvvisamente l’interfaccia olografica del Doge 3.0, luminosa e fredda:

“Avviso a Marco Loredan ed Elena Bembo: tentativo di decifrare il codice segreto rilevato. Intervento immediato consigliato. Conseguenze impreviste.”



giovedì 11 settembre 2025

ATTO SECONDO: CARO AMICO TI SCRIVO


Questa lettera non arriva da un amico reale, ma dall’intelligenza artificiale, che ha letto e analizzato tutti i testi dell’autore del blog. Immaginala come un piccolo ritratto scritto da qualcuno che lo conosce molto bene: tra ironia, nostalgia e momenti di vita quotidiana, ci fornisce un ritratto dell’uomo dietro le parole, con affetto e leggerezza.
Più umana di un umano.

"A sessant’anni, l’uomo che una volta tremava dietro le quinte dei teatri di provincia sa finalmente che la vita non è una prima: è un interminabile secondo atto, dove i protagonisti continuano a sbagliare le battute, a dimenticare le cue e a inciampare sulle proprie passioni. Ricorda i giorni in cui, con la febbre o la voce spezzata, si preparava a recitare di fronte a un pubblico che forse neppure guardava; oggi sorride, perché sa che quegli spettatori erano, in fondo, soltanto fantasmi comparsi per dargli senso.

Ha la consapevolezza di chi ha combattuto contro i propri demoni – quei demoni dal nome teatrale e dai denti invisibili – e ha scoperto, senza dirlo a nessuno, che i suoi trionfi sono sempre stati piccoli ma eterni. È un uomo che si muove tra ironia e rimpianto: sa ridere dei propri sogni giovanili eppure li custodisce come reliquie sacre. Sa che la gloria è illusione e che la passione non viene misurata dai premi o dai riflettori, ma dalla fedeltà con cui si serve l’arte, la vita e il proprio io.

È consapevole che avrebbe voluto essere un artista “professionista”, eppure ogni volta che mancava per un centimetro il traguardo, si chiedeva se fosse davvero importante. Forse il centimetro non era altro che il modo che l’universo ha trovato per insegnargli la pazienza, o la comicità della propria ambizione.

La sua mente è un teatro dove recitano ancora tutti i personaggi che ha incontrato: i compagni di una compagnia adolescenziale, il pubblico che applaudiva, le ombre dei maestri che lo hanno osteggiato, le figure di chi lo ha snobbato. Li osserva tutti con una certa distanza affettuosa, come spettatore di una pièce comica e tragica allo stesso tempo. È nostalgico senza amarezza, ironico senza distacco. La nostalgia è la sua arma segreta: gli permette di riflettere sul passato senza farsi schiacciare da esso.

Il palcoscenico è diventato la sua metafora preferita della vita: un luogo dove tutto sembra perfetto, ma dove il pubblico è spesso immaginario, e le luci sempre leggermente spente. Ama questa contraddizione: desiderava applausi e applausi ne ha raccolti, ma l’emozione più vera gli è sempre arrivata dai momenti dietro le quinte, dai silenzi tra una battuta e l’altra, dai compagni di squadra che combattevano insieme, ogni sera, contro il gelo, la stanchezza e l’ego.

È un uomo che osserva se stesso con leggerezza. Non si prende troppo sul serio, anche quando parla di una vita intera dedicata al teatro, alle prove impossibili e ai costumi improbabili. Sa che i trionfi e i fallimenti si mescolano come colori su una tela che non finirà mai, e che ogni addio al palcoscenico è solo un pretesto per ricordarsi di respirare. E di ritornare.

Dentro di lui convivono la nostalgia e il desiderio, l’orgoglio e la rassegnazione. Sa che non ha mai conquistato il Bernabeu delle grandi occasioni artistiche, ma ha vinto piccole Coppe del Mondo di felicità quotidiana: un gesto riuscito, una risata condivisa, una prova che finalmente ha funzionato. E sorride, perché il segreto è questo: continuare a giocare, continuare a recitare, continuare a essere parte del gioco anche quando nessuno ti nota, sapendo che la vita, come il teatro e il calcio, è soprattutto uno sport dell’anima.

E così, sessant’anni dopo, si avvicina alle nuove scene della vita con un passo leggero, sapendo che le luci possono tremolare, le prove essere maldestre, gli applausi pochi o inesistenti… eppure, in quell’istante, tutto ha senso, perché ha imparato a ridere dei propri errori e a riconoscere che la vera arte consiste nel continuare a giocare, a vivere e a recitare, senza mai smettere di cercare il pallone perfetto o la battuta che non verrà mai dimenticata.

L’umorismo, per lui, è l’unico filo di salvezza dalla tristezza della memoria: osserva il passato come uno spettatore ironico che sa di aver recitato la propria parte con dignità, ma senza illusioni sul giudizio altrui."


martedì 2 settembre 2025

VOLO ALFA-OMEGA FIUMICINO-MALPENSA

L’aeroporto di Fiumicino ribolliva come sempre: annunci metallici che si accavallavano, passi frettolosi, valigie trascinate senza riguardo. Alla porta d’imbarco per Milano Malpensa, tra quell’agitazione quasi febbrile, un uomo anziano sedeva con compostezza. Indossava un cappotto leggero, teneva in mano un volume consunto dell'Antigone di Sofocle. Le dita ossute sfioravano le pagine come fossero reliquie. Leggeva lentamente, muovendo le labbra, quasi assaporando i suoni di quella lingua antica per dialogare con il filosofo.

Un po’ più in là, un uomo sulla quarantina sistemava le slide di una relazione sul portatile. Era un medico chirurgo, specialista in malattie infettive, diretto a un convegno internazionale. Uno dei tanti a cui era stato chiamato da quando nel 2020 si era diffusa la pandemia di Covid-19: prima da remoto e poi di nuovo finalmente in presenza. Lo sguardo, alzandosi distrattamente, si fermò su quell’anziano. Il cuore ebbe un sussulto: quel volto scavato, quello sguardo vigile… sì, era lui, il professore di greco e latino del liceo.

Si alzò e si avvicinò, esitante.
«Professore… mi scusi, è lei?»

L’anziano sollevò gli occhi, un attimo di smarrimento, poi il sorriso.
«Giovanni! Il ragazzo che amava la matematica e si perdeva tra i versi dell’Odissea. Non sbaglio, vero?»

Giovanni rise. «Non sbaglia affatto. E in fondo credo che sia ancora così, forse la mia stessa vita di medico è un’Odissea: prove, ostacoli, naufragi, ma sempre con l’uomo al centro.»

Si sedettero vicini. Bastò poco perché gli anni si sciogliessero.

«E lei, professore? Cosa la porta a Milano?»

«Vado a trovare i miei nipoti,» rispose con naturalezza. «E poi… mio figlio ha insistito perché mi faccia visitare da un cardiologo al San Raffaele, ma ti confesso che io ci vado solo per farlo contento.» Fece una pausa, e con voce quieta aggiunse: «Sento che la fine si avvicina. E non la temo. Non solo perché ho sempre creduto che la vita sia un ciclo naturale che si conclude, ma anche perché posso dire, senza superbia, di aver vissuto come volevo. Ho avuto i miei libri, i miei studenti, la mia famiglia. Non ho rimpianti. La mia esistenza ha avuto senso, e questo mi basta. La morte, così, non è un debito da temere, ma un compimento.»

Giovanni rimase colpito da quella serenità. Come chirurgo aveva visto troppi uomini disperarsi davanti all’idea della fine, incapaci di accettarla.

Il professore proseguì, con la voce più ferma: «Ogni entità porta in sé non solo il seme della sua crescita, ma anche quello della sua dissoluzione. Non occorre cercare nemici fuori di noi: il tempo, le malattie, i processi interni fanno parte della stessa trama; è già scritto sin dal primo istante che la vita, un giorno, abbandoni la materia che l’ha ospitata. Pensa: persino Ulisse, pur tornato a Itaca, non ritrovò più l’inizio. Ogni fine è unica e prepara un nuovo principio: il tuo omonimo, l'evangelista Giovanni nell’Apocalisse lo aveva detto: “Io sono l’Alfa e l’Omega, l’Inizio e la Fine”. Nulla scompare davvero, tutto si trasforma.»

Giovanni chinò il capo. Quelle parole erano le stesse che un tempo lo avevano spinto a guardare i testi non come oggetti scolastici, ma come voci vive. Decise di rompere quel silenzio che portava dentro da anni.
«Professore, se oggi sono qui, se posso parlare a medici di tutto il mondo, lo devo anche a lei. Lei mi ha insegnato a non fermarmi alla superficie, a cercare il senso. Forse è per questo che non vedo le malattie solo come casi clinici, ma come storie di uomini.»

L’anziano abbassò lo sguardo e scosse la testa, come a schermirsi.
«No, Giovanni, non è merito mio: io sono stato soltanto un tramite, sono state le parole degli autori classici che ti hanno illuminato, io ho prestato loro la mia voce. Se ho avuto un merito, è stato quello di tentare di accendere fiaccole, non di riempire vasi. Così insegnava Quintiliano, il primo educatore di professione, e a lui mi sono sempre ispirato cercando di non consegnarvi nozioni come pacchetti, tentando invece di trasmettere scintille. Se in te quella fiamma è rimasta viva, il merito è tuo, non mio.»

Giovanni lo guardò negli occhi, commosso. «Allora mi lasci dire almeno questo: lei ha acceso quella fiaccola e la mia Odissea continua a portarla con sé.»

Il professore sorrise, e in quel sorriso c’era una gratitudine sottile. «Allora, Giovanni, non ho fatto altro che il mio dovere.»

Un annuncio metallico interruppe il silenzio: imbarco per Milano. Si alzarono insieme. La stretta di mano fu lunga, intensa, come tra due viaggiatori che si comprendono senza bisogno di altre parole.

«Forse questa,» disse piano il professore, «era l’ultima lezione.»

E per un attimo, tra la folla rumorosa, il tempo parve fermarsi: maestro e allievo, ancora una volta insieme, a condividere la stessa partenza, bloccando il tragitto tra l'Alfa e l'Omega.

Post in evidenza

NOTTI MAGICHE ANTE LITTERAM

25 giugno 1983 – Arrivo al campo mezz’ora prima del fischio d’inizio, di corsa dopo essere riuscito a fuggire da una riunione familiare ...