mercoledì 29 marzo 2017

TEMPI MODERNI E PROFEZIE

E’ opinione diffusa che i computer e le reti telematiche che ne permettono la connessione siano i veicoli inarrestabili della semplificazione della pubblica amministrazione, gli strumenti che trasformeranno per il cittadino – utente - contribuente la palude stagnante della burocrazia in un  fluente ruscello di montagna.
La professione che 26 anni fa decisi di intraprendere (il commercialista) è stata buon testimone (o vittima?) della rivoluzione telematica, a tal punto da venirne essa stessa profondamente trasformata. (o trasfigurata?).
Un breve quadretto nostalgico dello studio di un commercialista verso la fine del secondo millennio:
- Interazione con il Fisco e con i clienti: visite “fisiche” presso gli Uffici, code interminabili, visite a domicilio ed appuntamenti in studio, ricezione ed invio di fax e lettere a mezzo servizio postale, ricezione ed inoltro di telefonate. (numero limitato visto il costo che comportava ciascuna di queste operazioni).
Oggi: diluvio di mail (potenzialmente illimitate visto il costo tendenzialmente nullo) a cui dover rispondere in tempo reale, rendendo di fatto impossibile il programmato lavoro d’ufficio nelle ore d’ufficio e trasformando così i sabati, le domeniche e molti dopo cena in giornate e tempo ad alto valore aggiunto per lo svolgimento concreto delle pratiche che non si possono elaborare durante l’orario che ad esse sarebbe deputato, ovvero quello d’ufficio, appunto.
Nozione, quella dell’orario d’ufficio, assolutamente svuotata del significato che poteva avere fino a non molto tempo fa.
- Redazione di atti, tenuta di libri contabili e compilazione di modelli per le varie dichiarazioni fiscali: un tempo tutto rigorosamente prodotto per mezzo degli elaboratori elettronici, ma altrettanto rigorosamente conservato, come si dice oggi, su “supporto cartaceo”, nonché consegnato direttamente (fisicamente) ai vari Uffici competenti, previa acquisizione della firma “autografa” del cliente.
Quante code dal tabaccaio a far rifornimento di marche da bollo da appiccicare sui bilanci da depositare alla Camera di Commercio! (per non dire delle code all’ufficio postale per pagare i diritti di deposito e agli uffici stessi dell’Ente camerale per consegnare il malloppo).
Luoghi che erano simili, nei giorni immediatamente precedenti alle scadenze, a gironi danteschi con le anime di segretarie e contribuenti in pena lungo file che si muovevano al rallentatore, tra sudore, sbuffi e continue occhiate all’orologio. (“ce la farò ad andare anche dall’altra parte prima che chiudano?”). Però quanti incontri, quante chiacchiere sul tempo o sulla partita della domenica, quante occhiate di dritto e di rovescio ai compagni/compagne di sventura e quante amicizie  e magari amori nati in… sala d’attesa! Personalmente credo che, senza tutti quei tempi morti, non sarei mai riuscito a terminare la lettura di molti classici della letteratura (il Castello di Kafka su tutti) e sicuramente tutti i sonetti di Shakespeare.
E le dichiarazioni dei redditi? Corse contro il tempo e le code per consegnare al Comune le buste contenenti i modelli firmati e tutta la documentazione probatoria a supporto (chi non si ricorda le peripezie per far arrivare in tempo utile in studio il “volonteroso” cliente per strappargli il prezioso autografo? Ce n’erano certi così restii a fare l’autografo da far impallidire le più capricciose rock-star ed altri che puntualmente in prossimità della scadenza erano sempre irreperibili!).
E tutti i clienti erano garantiti da una disposizione del codice civile del 1942 che imponeva (e impone) ai professionisti in quanto tali, il segreto professionale. Senza ulteriori orpelli o adempimenti. Concetto semplice: quello che vieni a sapere in ragione del tuo ufficio non lo puoi dire a nessuno: se lo fai rispondi penalmente e per i danni che cagioni.
Poi verso la fine degli anni 90’ del secolo scorso la rivoluzione.
L’amministrazione finanziaria si accorge che sarebbe stato molto più comodo avere, nella pancia dei suoi archivi informatici,  il giorno dopo la scadenza prevista per legge files che contengono tutti i dati dei modelli dichiarativi, piuttosto che aprire le buste, controllare i documenti, inserire i dati, rilevare gli errori. E il tutto a spese altrui.
L’arrivo di Internet fa si che il sogno diventi realtà: s’impone a tutti i contribuenti con partita IVA di inviare telematicamente in proprio, o a mezzo di un intermediario abilitato (il commercialista), la dichiarazione dei redditi in formato elettronico.
Naturalmente si fa credere ai peones che con questo sistema si elimineranno le code e si renderà più snello il lavoro.
Ma cosa vuol dire inviare telematicamente una dichiarazione dei redditi? A beneficio dei profani significa essere titolari di un’utenza internet, disporre di un software ministeriale sul proprio PC che sarà in grado di controllare e autenticare con un sistema di firma digitale un file creato dal programma informatico che permette la compilazione del modello fiscale.
Che deve comunque essere stampato su carta, archiviato e “autografato” dal cliente. 
Una volta creato il file e autenticato con le proprie credenziali informatiche (uso di password), si procede all’invio telematico (dialogo a suon di clic con una pagina web e utilizzo di una nuova password).
Se tutto è andato per il verso giusto, qualche giorno dopo nella pagina web compare una ricevuta dell’avvenuto invio, che va “scaricata” e autenticata (nuovo utilizzo di password) e naturalmente stampata per essere materialmente consegnata al cliente entro 30 giorni.
Se tutto va per il verso giusto… perché i software vengono aggiornati continuamente dal Ministero e se non si dispone della versione più aggiornata si rischia lo “scarto” del file e quindi, se l’errore non viene corretto entro 5 giorni, la dichiarazione viene considerata omessa e sanzionata.
Oppure è scaduta qualche password (dopo 90 giorni di norma) e bisogna avviare la procedura per il suo rinnovo (cambio)… Oppure perché qualche temporale da qualche parte ha fatto saltare la connessione Internet e quindi il PC è bloccato.
E il segreto professionale? Roba superata… non basta più quello, concetto troppo semplice per la complessità del nostro mondo attuale: oggi si deve per legge tutelare la privacy, ovvero dover produrre su base industriale al cliente fogli di carta con milioni di caratteri che nessuno vorrebbe leggere neanche sotto tortura, per dirgli che i suoi dati verranno inviati al fisco e che il fisco li utilizzerà a suo piacimento… e che lui mi deve dare il consenso affinchè io consulente li possa usare. “E se non ti do il consenso?” Chiede sempre il cliente baldanzoso, pensando di aver trovato un sistema per scamparla “Se non mi dai il consenso io li uso lo stesso altrimenti non posso spedire la dichiarazione e tu prendi la multa”. E’ sempre la mia risposta.
Bè.. in compenso sono sparite la code agli Uffici penserete voi… ma sareste degli ingenui se pensaste davvero così.
Perché gli archivi informatici del Ministero delle Finanze non sempre incrociano per bene i dati acquisiti dalle dichiarazioni telematiche con quelli dei pagamenti comunicati dalle banche in forma telematica e quindi, sempre senza nessun intervento umano, ma per puro automatismo inviano ai contribuenti le richieste di pagamento, con le sanzioni, per gli errori riscontrati (presunto e reali).
Affinché l’umano contribuente possa far riscontrare l’errore e quindi impedire che “l’avviso telematico”  del fisco telematico si trasformi in una vera e propria cartella esattoriale trascorsi 30 giorni, deve prendere appuntamento a mezzo di prenotazione sul sito web naturalmente,  presso il locale ufficio dell’Agenzia delle Entrate e cercare di dimostrare l’errore delle “macchine”.
Così scoprirà che le code non sono affatto scomparse, visto il numero di sfortunati estratti dalla lotteria telematica.. Solo che anche le code adesso si sono evolute.. non si fanno fisicamente assieme ai propri compagni di viaggio e di sventura, ma si fanno al PC, ove farsi attribuire il codice di prenotazione (senza il quale non si è ascoltati dall’operatore n. XY in Agenzia) e scoprire che quel codice dà diritto ad un incontro solitario fra una decina di giorni, visto l’alto numero delle richieste. E addio letture di Platone e sguardi languidi.
Naturalmente, mi si dirà, non sono le macchine ad aver sbagliato, le macchine non sbagliano in quanto macchine, alla base c’è sempre un errore umano: di un programmatore distratto, di un impiegato che ha digitato male perché la sera prima ha litigato con la moglie… e mi si dirà che, sopra ogni cosa,  non si può più tornare indietro: il progresso non si ferma.
Indubbiamente è così, indietro non si può tornare mai. Mai e poi mai. E’ la legge dell’evoluzione che da sempre regola il corso della nostra storia.
Però questo non vuol dire che non si debba talvolta fermarsi e guardare dove ci sta portando l’evoluzione. Magari, se guardiamo con attenzione, non ci piace proprio e allora, forse possiamo fare in modo affinché questo mutamento sia più rispettoso dell’Uomo e, in ultima analisi, forse più conveniente.
Io ho provato e sto provando sulla mia pelle cosa significa trasformare i tempi e i modi di una professione intellettuale (?) per modificarla non in funzione delle necessità dell’elemento umano ma bensì del miglior funzionamento delle macchine e del sistema governato dalle stesse.
Ero stato “programmato” dal sistema educativo e scolastico per svolgere un mestiere che premiasse ingegno, facilità di rapporti interpersonali e creatività pur nel rigore delle norme, ed invece mi accorgo di essere diventato assieme alla maggior parte dei miei colleghi, più o meno consapevolmente, un terminalista adibito al continuo scarico di programmi informatici, memorizzatore di password, conservatore di dispositivi per la firma digitale, tutto atto a dialogare in modo impersonale con “utenti” che non hanno più un nome ed un cognome (e soprattutto una faccia) ma un nickname o un indirizzo di posta elettronica (naturalmente ora certificata e protetta da una password).  E che prega Iddio che nell’approssimarsi di una scadenza non venga un temporale che interrompa un download sul più bello.
E la creatività è diventata più dannosa che inutile? No, serve eccome, a pensare ancora di svolgere una professione intellettuale, così come ancora la definisce il codice deontologico del mio Ordine di appartenenza.
Ho fatto queste considerazioni rileggendo il diario che scrupolosamente tenevo durante la mia tarda adolescenza, quando l’occhio si è perso nella lettura della pagina del 19 aprile 1983 scritta al rientro dalla visita d’istruzione con la mia classe di 3° ragioneria al centro IBM di Udine.
Turbato, più che ammirato, dalle potenzialità di quei mastodontici calcolatori dell’epoca (con funzioni infinitamente più misere di un qualsiasi telefono cellulare che oggi tutti deteniamo), alla sera prima di coricarmi scrissi queste righe con tutta l’ingenuità dei 17 anni ancora da compiere:

“Chissà, forse verrà il giorno in cui la macchina farà tutto, sostituendo l’uomo. Quel giorno comunque  io non ci sarò più e me ne rallegro vivamente; se quel giorno arriverà per davvero significherà che la fine dell’uomo sarà molto vicina. Quando l’uomo si farà sostituire dalla macchina si assisterà alla fine di ogni sentimento umano ed il ronzio di elaboratori e computer riempirà l’aria ferma e glaciale. Quel giorno è fortunatamente ed in ogni caso ancora lontano, ma quando arriverà sarà la fine del sentimento prima e dell’uomo poi. Tutto ciò è inquietante proprio perché è inevitabile ed i primi segni s’iniziano già ad intravedere e a percepire. Non invidio coloro che nasceranno in quel giorno.”

Oggi capisco in pieno le profetiche parole del mio professore universitario del corso di Tecnica industriale, che nella primavera del 1988 ci indirizzò il seguente monito:


“La rivoluzione dell’informazione, che è oramai alle porte, cambierà la società radicalmente; spariranno gli operai ed i colletti bianchi subiranno la sorte avuta in dono dagli operai con l’arrivo del taylorismo nella fabbrica. Ecco, i colletti bianchi saranno gli operai meccanizzati ed alienati del prossimo futuro.”

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