La professione che 26 anni fa decisi di intraprendere (il commercialista)
è stata buon testimone (o vittima?) della rivoluzione telematica, a tal punto
da venirne essa stessa profondamente trasformata. (o trasfigurata?).
Un breve quadretto nostalgico dello studio di un commercialista verso la
fine del secondo millennio:
- Interazione con il Fisco e con i clienti: visite “fisiche” presso gli
Uffici, code interminabili, visite a domicilio ed appuntamenti in studio,
ricezione ed invio di fax e lettere a mezzo servizio postale, ricezione ed
inoltro di telefonate. (numero limitato visto il costo che comportava ciascuna
di queste operazioni).
Oggi: diluvio di mail (potenzialmente illimitate visto il costo
tendenzialmente nullo) a cui dover rispondere in tempo reale, rendendo di fatto
impossibile il programmato lavoro d’ufficio nelle ore d’ufficio e trasformando
così i sabati, le domeniche e molti dopo cena in giornate e tempo ad alto
valore aggiunto per lo svolgimento concreto delle pratiche che non si possono
elaborare durante l’orario che ad esse sarebbe deputato, ovvero quello
d’ufficio, appunto.
Nozione, quella dell’orario d’ufficio, assolutamente svuotata del
significato che poteva avere fino a non molto tempo fa.
- Redazione di atti, tenuta di libri contabili e compilazione di modelli
per le varie dichiarazioni fiscali: un tempo tutto rigorosamente prodotto per
mezzo degli elaboratori elettronici, ma altrettanto rigorosamente conservato,
come si dice oggi, su “supporto cartaceo”, nonché consegnato direttamente
(fisicamente) ai vari Uffici competenti, previa acquisizione della firma
“autografa” del cliente.
Quante code dal tabaccaio a far rifornimento di marche da bollo da appiccicare
sui bilanci da depositare alla Camera di Commercio! (per non dire delle code
all’ufficio postale per pagare i diritti di deposito e agli uffici stessi
dell’Ente camerale per consegnare il malloppo).
Luoghi che erano simili, nei giorni immediatamente precedenti alle
scadenze, a gironi danteschi con le anime di segretarie e contribuenti in pena
lungo file che si muovevano al rallentatore, tra sudore, sbuffi e continue
occhiate all’orologio. (“ce la farò ad andare anche dall’altra parte prima che
chiudano?”). Però quanti incontri, quante chiacchiere sul tempo o sulla partita
della domenica, quante occhiate di dritto e di rovescio ai compagni/compagne di
sventura e quante amicizie e magari
amori nati in… sala d’attesa! Personalmente credo che, senza tutti quei tempi
morti, non sarei mai riuscito a terminare la lettura di molti classici della
letteratura (il Castello di Kafka su tutti) e sicuramente tutti i sonetti di
Shakespeare.
E le dichiarazioni dei redditi? Corse contro il tempo e le code per
consegnare al Comune le buste contenenti i modelli firmati e tutta la
documentazione probatoria a supporto (chi non si ricorda le peripezie per far
arrivare in tempo utile in studio il “volonteroso” cliente per strappargli il
prezioso autografo? Ce n’erano certi così restii a fare l’autografo da far
impallidire le più capricciose rock-star ed altri che puntualmente in
prossimità della scadenza erano sempre irreperibili!).
E tutti i clienti erano garantiti da una disposizione del codice civile
del 1942 che imponeva (e impone) ai professionisti in quanto tali, il segreto
professionale. Senza ulteriori orpelli o adempimenti. Concetto semplice: quello
che vieni a sapere in ragione del tuo ufficio non lo puoi dire a nessuno: se lo
fai rispondi penalmente e per i danni che cagioni.
Poi verso la fine degli anni 90’ del secolo scorso la rivoluzione.
L’amministrazione finanziaria si accorge che sarebbe stato molto più
comodo avere, nella pancia dei suoi archivi informatici, il giorno dopo la scadenza prevista per legge
files che contengono tutti i dati dei modelli dichiarativi, piuttosto che
aprire le buste, controllare i documenti, inserire i dati, rilevare gli errori.
E il tutto a spese altrui.
L’arrivo di Internet fa si che il sogno diventi realtà: s’impone a tutti
i contribuenti con partita IVA di inviare telematicamente in proprio, o a mezzo
di un intermediario abilitato (il commercialista), la dichiarazione dei redditi
in formato elettronico.
Naturalmente si fa credere ai peones che con questo sistema si
elimineranno le code e si renderà più snello il lavoro.
Ma cosa vuol dire inviare telematicamente una dichiarazione dei redditi?
A beneficio dei profani significa essere titolari di un’utenza internet,
disporre di un software ministeriale sul proprio PC che sarà in grado di
controllare e autenticare con un sistema di firma digitale un file creato dal
programma informatico che permette la compilazione del modello fiscale.
Che deve comunque essere stampato su carta, archiviato e “autografato”
dal cliente.
Una volta creato il file e autenticato con le proprie credenziali
informatiche (uso di password), si procede all’invio telematico (dialogo a suon
di clic con una pagina web e utilizzo di una nuova password).
Se tutto è andato per il verso giusto, qualche giorno dopo nella pagina
web compare una ricevuta dell’avvenuto invio, che va “scaricata” e autenticata
(nuovo utilizzo di password) e naturalmente stampata per essere materialmente
consegnata al cliente entro 30 giorni.
Se tutto va per il verso giusto… perché i software vengono aggiornati
continuamente dal Ministero e se non si dispone della versione più aggiornata
si rischia lo “scarto” del file e quindi, se l’errore non viene corretto entro
5 giorni, la dichiarazione viene considerata omessa e sanzionata.
Oppure è scaduta qualche password (dopo 90 giorni di norma) e bisogna
avviare la procedura per il suo rinnovo (cambio)… Oppure perché qualche
temporale da qualche parte ha fatto saltare la connessione Internet e quindi il
PC è bloccato.
E il segreto professionale? Roba superata… non basta più quello, concetto
troppo semplice per la complessità del nostro mondo attuale: oggi si deve per
legge tutelare la privacy, ovvero dover produrre su base industriale al cliente
fogli di carta con milioni di caratteri che nessuno vorrebbe leggere neanche
sotto tortura, per dirgli che i suoi dati verranno inviati al fisco e che il
fisco li utilizzerà a suo piacimento… e che lui mi deve dare il consenso
affinchè io consulente li possa usare. “E se non ti do il consenso?” Chiede
sempre il cliente baldanzoso, pensando di aver trovato un sistema per scamparla
“Se non mi dai il consenso io li uso lo stesso altrimenti non posso spedire la
dichiarazione e tu prendi la multa”. E’ sempre la mia risposta.
Bè.. in compenso sono sparite la code agli Uffici penserete voi… ma
sareste degli ingenui se pensaste davvero così.
Perché gli archivi informatici del Ministero delle Finanze non sempre
incrociano per bene i dati acquisiti dalle dichiarazioni telematiche con quelli
dei pagamenti comunicati dalle banche in forma telematica e quindi, sempre
senza nessun intervento umano, ma per puro automatismo inviano ai contribuenti
le richieste di pagamento, con le sanzioni, per gli errori riscontrati
(presunto e reali).
Affinché l’umano contribuente possa far riscontrare l’errore e quindi
impedire che “l’avviso telematico” del
fisco telematico si trasformi in una vera e propria cartella esattoriale
trascorsi 30 giorni, deve prendere appuntamento a mezzo di prenotazione sul sito
web naturalmente, presso il locale
ufficio dell’Agenzia delle Entrate e cercare di dimostrare l’errore delle
“macchine”.
Così scoprirà che le code non sono affatto scomparse, visto il numero di
sfortunati estratti dalla lotteria telematica.. Solo che anche le code adesso
si sono evolute.. non si fanno fisicamente assieme ai propri compagni di
viaggio e di sventura, ma si fanno al PC, ove farsi attribuire il codice di
prenotazione (senza il quale non si è ascoltati dall’operatore n. XY in
Agenzia) e scoprire che quel codice dà diritto ad un incontro solitario fra una
decina di giorni, visto l’alto numero delle richieste. E addio letture di
Platone e sguardi languidi.
Naturalmente, mi si dirà, non sono le macchine ad aver sbagliato, le
macchine non sbagliano in quanto macchine, alla base c’è sempre un errore
umano: di un programmatore distratto, di un impiegato che ha digitato male
perché la sera prima ha litigato con la moglie… e mi si dirà che, sopra ogni
cosa, non si può più tornare indietro:
il progresso non si ferma.
Indubbiamente è così, indietro non si può tornare mai. Mai e poi mai. E’
la legge dell’evoluzione che da sempre regola il corso della nostra storia.
Però questo non vuol dire che non si debba talvolta fermarsi e guardare
dove ci sta portando l’evoluzione. Magari, se guardiamo con attenzione, non ci
piace proprio e allora, forse possiamo fare in modo affinché questo mutamento
sia più rispettoso dell’Uomo e, in ultima analisi, forse più conveniente.
Io ho provato e sto provando sulla mia pelle cosa significa trasformare i
tempi e i modi di una professione intellettuale (?) per modificarla non in
funzione delle necessità dell’elemento umano ma bensì del miglior funzionamento
delle macchine e del sistema governato dalle stesse.
E la creatività è diventata più dannosa che inutile? No, serve eccome, a
pensare ancora di svolgere una professione intellettuale, così come ancora la
definisce il codice deontologico del mio Ordine di appartenenza.
Ho fatto queste considerazioni rileggendo il diario che scrupolosamente
tenevo durante la mia tarda adolescenza, quando l’occhio si è perso nella
lettura della pagina del 19 aprile 1983 scritta al rientro dalla visita
d’istruzione con la mia classe di 3° ragioneria al centro IBM di Udine.
Turbato, più che ammirato, dalle potenzialità di quei mastodontici
calcolatori dell’epoca (con funzioni infinitamente più misere di un qualsiasi
telefono cellulare che oggi tutti deteniamo), alla sera prima di coricarmi
scrissi queste righe con tutta l’ingenuità dei 17 anni ancora da compiere:
“Chissà, forse verrà il giorno
in cui la macchina farà tutto, sostituendo l’uomo. Quel giorno comunque io non ci sarò più e me ne rallegro
vivamente; se quel giorno arriverà per davvero significherà che la fine dell’uomo
sarà molto vicina. Quando l’uomo si farà sostituire dalla macchina si assisterà
alla fine di ogni sentimento umano ed il ronzio di elaboratori e computer
riempirà l’aria ferma e glaciale. Quel giorno è fortunatamente ed in ogni caso
ancora lontano, ma quando arriverà sarà la fine del sentimento prima e
dell’uomo poi. Tutto ciò è inquietante proprio perché è inevitabile ed i primi
segni s’iniziano già ad intravedere e a percepire. Non invidio coloro che
nasceranno in quel giorno.”
Oggi capisco in pieno le profetiche parole del mio professore
universitario del corso di Tecnica industriale, che nella primavera del 1988 ci
indirizzò il seguente monito:
“La rivoluzione
dell’informazione, che è oramai alle porte, cambierà la società radicalmente;
spariranno gli operai ed i colletti bianchi subiranno la sorte avuta in dono
dagli operai con l’arrivo del taylorismo nella fabbrica. Ecco, i colletti
bianchi saranno gli operai meccanizzati ed alienati del prossimo futuro.”
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