Cividale del Friuli, 12
febbraio 2007
Il tempo di questa
intervista giunge all’improvviso; non era programmata per questo scorcio di uno
strano inverno in cui le temperature sono costantemente “fuori stagione”e si
discute se non ci si trovi in un interminabile autunno o piuttosto una precoce
primavera...
L’idea era di occuparmi di
altre vicende, magari più liete di personaggi “nuovi” e non invischiati, come
tutti quelli finora “incontrati”, nella palude stigea della storia del novecento
mitteleuropeo .
“E’ tempo di voltare
pagina”- pensavo tra me e me – “Ho
già rincorso ed evocato forse anche
troppi fantasmi in questi anni e non voglio dare l’impressione di provare
un’insana soddisfazione nel ricercare le
ferite che ancora non hanno smesso di sanguinare, o peggio, di essere
catalogato quale precoce nostalgico del ‘secolo breve’ ”.
Così, mentre progettavo
incontri con personaggi che fossero immersi nel tempo presente, con impegno e
risultati tra le grandi opportunità che il recente allargamento dell’Unione
Europea ha “regalato” ai paesi della “vecchia” Mitteleuropa, questo mio
convincimento aveva preso ancora più forza ascoltando le parole del nostro
Presidente della Repubblica, il quale in occasione della Giornata del Ricordo del
tragico esodo del secondo dopoguerra delle popolazioni di etnia istro-veneta
dai territori dell’Istria e della Dalmazia, aveva finalmente, senza omissioni,
reso la giusta memoria al dramma di quelle popolazioni.
Ero felice, in modo ingenuo
forse, ma sinceramente felice; il nostro Capo dello Stato fu un membro di spicco del Partito Comunista, al
tempo della rivoluzione ungherese del 1956 era rimasto allineato e coperto alle
posizioni filo-sovietiche del suo partito: udire quelle parole incondizionate
di condanna sia dei fatti, che del silenzio fatto calare per così lungo tempo
su quella tragedia dal nostro mondo
politico, e dal suo ex partito in primis, per un attimo mi avevano dato
l’illusione di vivere finalmente un momento atteso da sempre: ovvero l’accettazione
condivisa di una tragedia nazionale, l’inizio della sua metabolizzazione nelle
coscienze, la fine delle tristi strumentalizzazioni politiche e la nascita
della possibilità di voltare pagina con maggiore serenità, consapevoli di quale
strada abbiamo esattamente percorso sino ad oggi.
Il quasi unanime plauso e
la condivisione di gran parte delle forze politiche alle parole del Presidente
avevano reso quella sensazione ancora più forte, permettendo alla mia illusione
di crescere e di resistere ancora un po’.
Quell’infantile idillio è
durato poco più di una nottata… il giorno seguente, mentre ancora molto
assonnato e poco assennato, consumavo il rituale della toeletta quotidiana
innanzi allo specchio del mio bagno
provando il consueto disappunto
per ciò che vi vedevo riflesso, il Presidente della Repubblica di Croazia
attraverso le notizie diffuse dalla Radio, mi riportava alla realtà, con
assoluto tempismo, evitando così l’inutile perdurare di quello stato di
fanciullesca beatitudine.
Il Capo dello Stato croato
accusava il nostro Presidente di revanscismo, razzismo e di malcelata
intenzione di ridiscutere i trattati di pace e di aver taciuto sulle reali
cause che hanno portato al termine della seconda guerra mondiale alle violenze sui “collaborazionisti” del regime fascista e
all’esodo istriano - dalmata, ovvero l’aggressione e la violenta politica di
“italianizzazione” perpetrata dallo stesso regime mussoliniano a danno delle
popolazioni slave della zona, prima e durante la seconda guerra mondiale.
“Ecco che ci risiamo! Il
sonno dei fantasmi è stato turbato ancora una volta di più, il tempo proprio
non vuole passare, le lancette dell’orologio non vogliono sbloccarsi dal 1945”
– ho pensato subito, appena scosso dalla notizia – “Altro che “nuova” Europa!
Qui bisogna subito ritornare in fretta a fare il cacciatore di spettri, se non
altro per rendere la loro veglia forzata meno solitaria, visto che sembra
impossibile augurargli un definitivo e liberatorio “Requiescat in pax!”
E così ho annullato tutti
gli impegni della giornata, sono salito in macchina e di gran carriera sono
partito dalla mia Cividale in direzione del valico italo-sloveno di
Stupizza-Robič, destinazione Mlinsko, un piccolo villaggio attraversato dalla
strada che unisce Kobarid a Tolmin: l’appuntamento con la Sig.ra Majda Koren
non poteva aspettare un minuto di più e non solo per l’età ormai molto avanzata del mio nuovo “bersaglio”!
In meno di 45 minuti mi
trovo sulla porta dell’abitazione della signora Majda; la giornata quasi
primaverile, lo splendido paesaggio della Val Natisone e della Soča, la vista
delle cime del Matajur e del Krn, appena “sporcate” dalla neve, questa volta
non mi hanno rasserenato l’animo come accade di solito, ma hanno suscitato
nella mia mente il vivo pensiero che quel paesaggio paradisiaco, neppure 100
anni fa, fu lo sfondo per uno dei più sanguinosi mattatoi della prima guerra
mondiale. Neppure l’agevole attraversamento del confine non è riuscito a
rincuorarmi: anzi, appena lasciato il posto di polizia sloveno il mio pensiero
non si è rivolto all’ormai imminente abolizione anche fisica del confine
stesso, ma bensì mi sono ritornate in mente immagini inquiete della mia
infanzia, ovvero quando con mio padre ogni sabato, ci recavamo in macchina in “Jugo”
a fare il pieno di benzina e a comperare la carne. Un brivido mi è corso lungo
la schiena, per un attimo all’altezza di Robič, dove la repentina uscita di un cacciatore dal
bosco è stata scambiata dai miei sensi
per l’attraversamento dei miliziani che all’epoca pattugliavano il
confine con la stella rossa sulla bustina, il kalashnikov imbracciato
minacciosamente e scrutavano in modo assai poco amichevole le auto di
passaggio; constatare prontamente che la loro vecchia caserma sulla sinistra,
con la scritta “Naš Tito” ben in evidenza, ha lasciato il posto ad un Casinò
dalla benaugurate insegna di “Aurora” mi ha solo parzialmente sollevato, così
come il pagamento in euro del caffè nella gostlina “pri Franku” mi ha fatto
solo venire in mente i tempi in cui mio padre nascondeva nei calzini i dinari
per pagare carne e benzina e così ho
rivissuto anche la tensione che regnava dentro la nostra Fiat 128 quando i
finanzieri ci indirizzavano la frase di rito ”Cosa dichiara?”, i doganieri
jugoslavi ci rivolgevano parole incomprensibili invitando il papà ad aprire il
bagagliaio della macchina e subito dopo,
superato il blocco, mia madre si arrabbiava con lui perché voleva sempre
portare “i bambini” appresso e cercava di farsi promettere che non l’avrebbe
più fatto.
Mlinsko – Slovenija, 13 febbraio 2007
Avvolto in quella fitta
nebbia di ricordi non mi sono neppure accorto che la Sig.ra Majda Koren, già da tempo, mi
stava fissando in silenzio sull’uscio di casa sua…
Non me l’ero immaginata così
giovane; già dubitavo che oggi ci fossero ancora persone interessate a storie
come la mia… al più pensavo a qualche vegliardo come la qui presente… Entri
pure, non mi faccia stare in piedi…
Mi scusi signora Majda, ero troppo assorto in cattivi
pensieri… grazie per aver accettato la mia richiesta.
- le dissi come fulminato dalla sua presenza
e dalle sue parole pronunciate
lentamente con un filo di voce. Quasi ipnotizzato dal suo sguardo, la
seguo nel breve corridoio che conduce nella sua cucina; fin da subito capisco
di trovarmi innanzi ad una donna che ha negli occhi “la memoria del
mondo”: Majda Koren è nata nella
primavera del 1914, nel villaggio di
Livek, neanche una decina di chilometri da Mlinsko, più in alto di 600 metri
sul livello del mare, forse a un chilometro con il confine oggi tra le Repubbliche di Italia e Slovenija,
all’epoca tra la Contea Principesca di Gorizia e Gradisca, parte dell’Impero
d’Austria - Ungheria e la Provincia del Friuli,
parte del Regno d’Italia. Si è seduta vicino ad una vecchia stufa, che
ogni tanto apre per introdurre i ciocchi di legna che con cura verifica ed
estrae da una cesta ricolma, e continua a fissarmi in silenzio; nonostante un
certo imbarazzo non riesco a distogliere lo sguardo: i suoi grandi occhi di un
celeste chiarissimo, mobilissimi e vivaci, che chissà quanti cuori devono aver
rapito in gioventù, riescono ad oscurare
tutto il resto: lo spoglio arredo della stanza, il forte odore della legna
bruciata, l’esile e minuto corpo della donna, il suo volto quasi incartapecorito
e avvolto in un fazzoletto nero. Mi sembra di vedere gli occhi vivi e colmi di
curiosità di un bambino, incastonati come due gemme luminose nel corpo spento
di una mummia; non posso non pensare di avere di fronte la prova vivente di
come il nostro corpo, le nostre membra, altro non siano che il luogo fisico
incaricato di dare temporaneo “rifugio” al nostro “spirito”.
Sono nata nel 1914 da una famiglia di contadini-montanari
insediata in questa valle da almeno 1400 anni… Mio padre e mia madre erano nati
qui 20 anni prima, così come i loro padri e le loro madri e via via indietro fino alla notte dei tempi,
presumibilmente fino a quando, provenienti da un’area dei Carpazi nel VI secolo
d. C., una delle tante tribù slave giunse in queste terre, spinte dalla
violenta avanzata della popolazione turcica degli Avari, prima che a loro
volta, intorno all’anno 900, dopo essere stati sconfitti da Carlo Magno,
venissero dispersi per sempre dai Magiari, i quali si stabilirono nei territori
dell’attuale Ungheria, della Transilvania, della Vojvodina e di parte
dell’attuale Slovacchia.
L’introduzione storica così
accurata non mi colse particolarmente di sorpresa, sapevo bene che Majda si era
laureata in Slavistica all’allora neonata Università di Lubiana nel 1937...
Scommetto che anche lei sta pensando che sono una vecchia
noiosa, che non perde l’occasione per far trasparire la passione per la storia
del suo popolo e che non riesce a nascondere l’orgoglio per essere stata una
delle prime laureate dell’Università di Lubiana.. Non è vero?
Questa volta si che fui
colto di sorpresa! Non bastava l’incredibile luce che emanavano i suoi occhi a
rendermi agitato, quella donna sembrava persino in grado di leggermi nel
pensiero…
Non serve che mi risponda, amico mio… riprese
Majda, dopo aver invano atteso da parte mia un cenno di risposta… Anzi,
le dirò di più, non mi servono nemmeno le sue scuse; se lei è venuto qui deve
aver già calcolato l’incomodo di colloquiare con una donna che guarda
costantemente all’indietro, anche quando gli occhi fissano l’orizzonte… Non è
forse in fondo questo che cerca?
Ha ragione signora Majda, sono qui per sapere quello che
scrutano i suoi occhi all’indietro, anche adesso che mi fissano e mi mettono a
disagio, perché sono convinto che quelle sue “visioni” sono le uniche che mi
possono aiutare a guardare in modo consapevole il mio presente e soprattutto a
cercare di vaticinare il mio futuro in maniera più obiettiva.. risposi in
maniera ferma, cercando di essere il più convincente possibile.
No, la prego, non sia così
banale.. non mi deluda subito! Riponevo grande interesse in questa visita,
pensavo di incontrare finalmente una persona originale, ero curiosa di
conoscere da vicino questo “cacciatore di fantasmi”, colui che mi dicevano si
rifiuta di cercare i “grandi” personaggi; colui che invece di rincorrere quelli che riempiono i libri e che con le
loro decisioni si dice abbiano “fatto” la Storia, vaga alla ricerca degli
“anonimi” che l’hanno subita e che per questo l’hanno “fatta” davvero… Altro che originalità, lei
invece esordisce con l’aforisma più noto che si ricordi, quando si cerca di
dare a noi stessi un alibi alla nostra insana passione per le cose ingiallite e
polverose e di imporre agli altri un preteso nobile valore al tempo che non
dedichiamo alle occupazioni più utilitaristiche in senso economico… mi
interruppe subito Majda, usando un tono
che aveva il sapore di un deluso rimprovero.
Appunto! Io non voglio credere che lei riempia i suoi
taccuini in ossequio a quella colossale sciocchezza… la Storia non ha mai
“insegnato” nulla a nessuno…
Mi permetta, Signora, La Storia insegna eccome, sono i
suoi “allievi” che non intendono imparare le lezioni…
Lei insiste nel volermi deludere, amico mio? La prego, mi
dica che lo sta facendo apposta ad essere così convenzionale… Un vero Maestro è
colui che trova sempre il modo di formare i suoi allievi, non quello che li
riempie di nozioni e poi declina al senso del dovere dei suoi scolari la
responsabilità dell’apprendimento…
Lasci perdere ogni tentativo di dare un senso nobile al
suo “tarlo”… con me può essere sincero fino in fondo, condividiamo lo stesso
“furore”… Lei riempie le sue pagine ed insegue i “fantasmi” in ossequio allo
stesso “fuoco misterioso” che bruciava dentro di me quando studiavo la storia
del mio popolo cercando documenti nelle canoniche polverose delle Pievi che si
trovano nelle mie vallate.
Non c’è nulla di nobile o eroico in questo, ma solo
rispondere senza fare opposizione al
nostro destino. Lo stesso destino che spinge lo speculatore a rischiare le sue
fortune giocando in borsa o il chirurgo a “macellare” il corpo dei suoi
pazienti…
O il ladro a rubare in banca… arrivo a questo se seguo
il suo ragionamento!
Proprio così! Anche il ladro a rubare in banca… se è
quello che brucia nelle fiamme del suo “fuoco misterioso”…
E il “Libero Arbitrio”? Non mi dirà che anche questo è
una sciocchezza priva di senso?
Certo che non lo è… ma dia retta a questa vecchia megera slovena:
l’unico, il vero arbitrio che abbiamo è quello di decidere se lasciarci
bruciare nel nostro “fuoco misterioso”, oppure se decidere di “spegnerlo”.
Questa è l’unica cosa, che possiamo decidere nella nostra
vita… e da questa scelta dipenderà il senso stesso del nostro “breve periodo”,
nonché il modo con cui saremo destinati a fare i conti con i nostri giorni.
Si può decidere insomma di sfidare il proprio destino
ed di opporsi alla propria natura, se questa non ci piace?
Certo che lo si
può decidere! Ma lo si può fare non per un moto egoistico, perché non ci
“piace”… Decidere di spegnere il proprio “fuoco misterioso”, quello si che è
vero eroismo, perché significherà di sicuro abbandonare il progetto a cui
eravamo destinati ed inevitabilmente ci porterà grandi sofferenze interiori.
Tutto questo lo si può fare solo se subentra o se viene a mancare un unico
sentimento…
Non mi faccia indovinare…
Mi delude ancora.. speravo si cimentasse…
Questo sentimento è l’Amore?
Adesso si che non mi delude più! Alla fine ho fatto bene
a seguire il mio istinto da vecchia megera e farla venire qui… mi dia però la
prova che la sua non è stata una risposta casuale!
L’Amore è forse quel sentimento così forte che può
permetterci di spegnere il “fuoco misterioso” quando bruciarci dentro ci
farebbe da un lato si vivere compiutamente il nostro progetto, ma dall’altro ci
allontanerebbe irrimediabilmente dai nostri affetti più profondi, così come la
mancanza di questo sentimento può far morire sul nascere il “fuoco misterioso”
per mancanza di ossigeno? Se questa è la risposta che lei reputa corretta, a me
pare una gigantesca contraddizione…
Lei lo pensa davvero? Non si fermi in superficie… Prima
bisogna amare se stessi..
Intende dire permettere al “fuoco misterioso” di
bruciare dentro di noi e dargli continuo ossigeno?
Vede? Se non ci si ferma in superficie… continui Lei
adesso…
… e una volta che abbiamo imparato ad amare noi stessi
siamo pronti per decidere di amare qualcun altro più di noi stessi e quindi se
ho ben capito, a moderare l’intensità del “fuoco misterioso” fino al punto, se
del caso, a spegnerlo?
Quasi tutto giusto… a parte il finale: il “fuoco
misterioso” non si può mai spegnere del tutto… l’amore potrà togliergli
l’ossigeno, ma in ogni caso Lui coverà sempre sotto la cenere!
Tutto questo è sicuramente molto interessante signora
Majda, ma temo che i miei lettori rimarrebbero delusi, se raccontassi loro solo
le sue impressioni “filosofiche” sul senso della vita…
In questo caso la delusione sarebbero i suoi lettori, mio
caro amico… io non credo li deluderà! In ogni caso, visto che lei pare
sollecitarmi alla narrazione degli eventi a cui ho dovuto assistere, ecco
serviti lei e, in questo caso, i suoi aridi lettori… la prego di non
interrompermi e di non fare domande…
Majda a questo punto spense
i suoi due fari calando le palpebre… fu come se nella stanza calassero le
tenebre ed il gelo della morte paralizzasse cose e persone… persino le parole
che Majda pronunciava senza nessuna emozione o trasporto sembravano arrivare
direttamente dal “regno delle ombre”,
invece di rappresentare l’unica prova che la donna era ancora
protagonista in questo mondo.. “Alla faccia della mia passione per i fantasmi”
– pensai – “questo clima spettrale forse è troppo anche per me!”
Come le dissi, i miei avi hanno abitato la vallata della
Soča ininterrottamente dal VI secolo d.C. facendo sempre il “mestiere” dei
contadini-montanari… prima al servizio dei Patriarchi di Aquileia, poi dei
Conti di Gorizia e dalla morte dell’ultimo conte Leonardo avvenuta nel 1500, al
servizio degli Asburgo, ininterrottamente per più di quattro secoli sino al
1918, a parte le brevi parentesi veneziana dal 1508 -1509 e napoleonica
del 1809 – 1813.
Dalla fine delle sanguinose scorrerie degli Ungari intorno
all’anno 1000 e fino al 1918, per ben 900 anni quindi, i miei avi hanno
condotto per lo più la stessa esistenza:
hanno praticato la dura vita di ogni agricoltore di montagna, coltivando la
terra ed allevando il bestiame per cederne i frutti, trattenuto lo stretto
indispensabile per il mero sostentamento, al nobile di turno, quasi sempre di
origine tedesca. Unici e sporadici eventi in grado di “turbare” l’andamento del
vivere quotidiano furono alcune annate tra il 1500 ed il 1600 in cui comparvero
ferocemente i Turchi a compiere razzie ed uccisioni e talvolta, nel corso dei
secoli, le rivolte, sempre soppresse con punizioni esemplari, contro gli esattori imperiali per l’aumento
delle imposte che mettevano in crisi la già precaria sopravvivenza.
Per il resto la vita seguiva il ciclo delle stagioni
della natura: si nasceva in casa, se si riusciva a sopravvivere al parto e ai
primi anni e se si era maschi si finiva ad aiutare il nonno, il papà e gli zii
nella cura dei campi e del bestiame,
intorno ai 18 anni ci si sposava e se il sovrano non chiamava a servire le sue
armi e probabilmente a morire in battaglia, si moriva intorno ai 50-60 anni
dopo una vita dedicata al lavoro della propria terra; se invece nascevi femmina
ti sposavi tra i 16 e i 18 anni, mettevi al mondo tutti i figli che la natura
ti “concedeva” e insieme alla suocera e alle cognate accudivi alla cura della
prole, della casa, non di rado aiutavi gli uomini nei campi e di solito morivi
vedova tra i 60 ed i 65 anni… sempre se in precedenza eri stata capace di
sopravvivere ai parti!
Come le dicevo, una vita intera scandita dai cicli della
natura e del calendario dei riti cristiani: la religione era l’unico conforto
per lo spirito e la risposta obbligata e “naturale” alle molteplici domande
generate dal “fuoco misterioso”.
E tutto questo per 900 anni, di cui più di 400 sotto le
insegne della monarchia Asburgica
In pochi sapevano leggere o scrivere, però in molti
conoscevano l’uso orale del latino che veniva appreso durante le funzioni
religiose e quasi tutti i padri famiglia almeno un migliaio di vocaboli del
tedesco, ossia tutte quelle necessarie per interagire con i funzionari
imperiali per le questioni quotidiane; se è vero che i primi documenti scritti
in lingua slovena, i testi di Freising o meglio i Brižinski spomeniki, paiono
risalire al IX secolo d.C., sino al 1600 la lingua venne tramandata quasi
esclusivamente in forma orale.
Lei, che so venire dal vicino Friuli, penso sia in grado
di capire bene quanto le sto dicendo; in fondo la storia del suo popolo, se
sostituiamo dal 1420 al 1797 sul vessillo dei “padroni” l’aquila bicipite e ci
mettiamo il leone di San Marco, mi pare quasi gemella fino al 1866. E forse chi
lo sa, magari anche nelle sue vene scorre un po’ del sangue del mio popolo, visto
che dopo le disastrose scorrerie degli Ungari, i Patriarchi di Aquileia
chiamarono proprio la mia gente a ripopolare diverse zone del medio e basso
Friuli abbandonate dai suoi antenati.
Nella seconda metà del 1800 qualcosa incominciò a mutare:
la rivoluzione industriale varcò la Manica e le prime fabbriche sorsero anche
nel vecchio continente; così anche nelle nostre amene vallate si diffuse la
notizia che ai confini settentrionali dell’Impero, ovvero nella Slesia, nella
Boemia e in Moravia erano nati dei grandi opifici dove c’era forte richiesta di
manodopera salariata… le condizioni di lavoro non erano certo migliori di
quelle sui monti, ma il conseguimento di un salario fisso non esposto ai rischi
delle intemperie iniziò ad attirare molte “braccia” dalle zone ove la pratica
dell’agricoltura era resa particolarmente difficoltosa dalla conformazione del
terreno.
La nostra valle non fece eccezione e molti iniziarono ad
abbandonarla in quel periodo; mio padre non fu tra questi e così io nacqui,
come lei sa, a Livek nel maggio del 1914.
Ma lo sviluppo industriale ed i connessi mutamenti
sociali non furono l’unica cosa a cambiare nell’Impero durante il 1800: le
elitès dei vari gruppi etnici non tedeschi, che formavano la Monarchia
bicipite, incominciavano a dare segni di insofferenza al secolare dominio della
nobiltà germanofona e sull’onda dei proclami della rivoluzione francese
iniziarono a rivendicare il diritto di ogni popolo a governarsi da sè. Fu così
che, obtorto collo, la Monarchia asburgica fu costretta un po’ dalle armi e un po’ con le concessioni, a
perdere la quasi totalità dei territori “italiani” e a riconoscere all’Ungheria
lo status di Regno e mettere nelle mani della sua nobiltà il potere sugli altri
gruppi etnici che vi erano inclusi. Da questo riassetto si sentirono
penalizzati pesantemente i notabili delle popolazioni slave e questo clima, di
lì a poco, condusse allo scoppio della prima guerra mondiale e alla conseguente
dissoluzione della duplice Monarchia.
Quando iniziarono le ostilità mio padre fu chiamato alle
armi e dovette raggiungere a Trieste, il comando del 3° battaglione del 97°
Reggimento Imperial Regio di Fanteria “Barone von Waldstätten”, destinazione
l’estremo confine orientale dell’Impero, ovvero il fronte austro-russo in Galizia.
“Naturalmente”, come quasi il 90% dei suoi commilitoni, non fece ritorno:
ufficialmente appartiene alla categoria bellica dei “dispersi”; il suo corpo
non è stato mai ritrovato, non figura negli elenchi dei prigionieri… io me lo
sono sempre voluto immaginare in qualche landa lontana, sano e salvo, fuggito
dagli orrori della guerra, rifarsi una vita scoprendo il suo “fuoco
misterioso”…
E sa qual era la composizione etnica del suo Reggimento:
45% sloveni, 27% serbi e croati, 20% italiani ed il rimanente 8% gli ufficiali
austriaci…
Prima di partire, probabilmente immaginando quello che
stava per scatenarsi di lì a poco, volle che mia madre, io e mio fratello
lasciassimo la valle della Soča per raggiungere Ljubljana, allora si chiamava
Laibach, dove mia mamma potè trovare occupazione quale governante nella casa di
una famiglia nobile di origini viennesi e così soddisfare le nostre esigenze di
vitto e di alloggio.
All’inizio fu molto dura… mia madre, una orgogliosa
montanara che si trovava di punto in bianco a fare la serva in città, con tutte
le notizie terribili che venivano dalla nostra valle, divenuta dall’estate del
1915 addirittura zona di operazioni belliche con l’entrata in guerra
dell’Italia contro l’Austria- Ungheria… Ma invece, quella tragedia epocale si
trasformò per me in una grande opportunità: venire a conoscenza con il mio
“fuoco misterioso”. Quando la guerra terminò con la sconfitta dell’Austria -
Ungheria, la dissoluzione dell’impero e la nascita del Regno dei Serbi, dei
Croati e degli Sloveni avevo quasi 5 anni, tutti vissuti in una casa di nobili
e pronta ad imparare a leggere e scrivere nella mia lingua frequentando a
Ljubljana le scuola elementari slovene. Mia madre decidendo di rimanere a
Ljubljana, visto che la nostra casa di Livek era andata completamente distrutta
e che tutta la valle della Soča era entrata a far parte del Regno d’Italia, mi
stava offrendo la possibilità di fare quello che nessuno dei nostri avi, dal VI
secolo in avanti, non aveva mai avuto occasione di fare!
Da quando entrai nella scuola elementare del quartiere di
Siska nel 1919 a quando nel 1937 mi laureai in Slavistica all’Università di
Ljubljana fui una “divoratrice” di libri, assalita continuamente da una
insaziabile bramosia di sapere e da una curiosità per la storia del mio popolo
che non mi lasciava neanche per un attimo. Pensi che coincidenza… quando fu
fondata l’Università slovena era il 1919 ed io iniziavo le scuole elementari…
Mi sono sempre domandata da dove nascesse tutta quella curiosità, tutta quella
necessità di sapere che a volte mi toglieva quasi il sonno… Che fosse stata la
prima infanzia passata in quella casa di nobili viennesi piena di libri? Che la polvere che si annidava nelle pagine
di quei tomi fosse stata una sorta di “polvere magica” il cui contatto in
tenera età mi aveva consacrata ad una vita di studi? Avevo conosciuto il mio
“fuoco misterioso”…! Spesso mi sono domandata se senza quella guerra che ha
distrutto milioni di famiglie in tutta Europa, che di mio padre non mi ha
lasciato neppure il ricordo del timbro della sua voce ma solo la fotografia di
un uomo, come altre centinaia di migliaia, in “posa” con l’uniforme di un
esercito che non è mai più esistito, avrei mai potuto conoscere il mio “fuoco
misterioso”…
Oggi so che fu un grande atto di amore verso me stessa,
lasciarmi avvolgere completamente dalle sue fiamme; forse inconsapevolmente, ma
avevo scelto, senza riserve, di conoscere il senso della mia vita e in
quegl’anni, non ci furono nulla e nessuno in grado di togliere o solo limitare l’apporto
di “ossigeno” a quell’incendio.
Mia madre morì nel marzo del 1941, nello stesso mese in
cui ottenni la mia prima classe d’insegnamento all’Università di Ljubljana e in
cui mio fratello Aleksander venne richiamato alle armi dall’esercito del Regno
di Jugoslavia, destinazione Sussak, vicino a Fiume, oggi Rijeka, per presidiare
con il suo reparto l’allora frontiera con l’Italia… la mia terra stava per
essere di nuovo sconvolta dall’ecatombe di un’altra guerra scatenata in Europa
già nel 1939!
Se le vicende della mia famiglia scaturite a seguito
della prima avevano permesso probabilmente la nascita ed il divampare del mio
“fuoco misterioso”, quello che accadde per effetto della seconda ne causarono
temporaneamente la riduzione ad una minuscola brace nascosta sotto un cumulo di
cenere.
Nell’aprile del 1941, in meno di due settimane il
giovane, e già instabile, Regno di Jugoslavia cessò di esistere manu
militari: l’Italia si annesse la Dalmazia , la metà occidentale della
Slovenia, creando la Provincia di Lubiana e avocò a se il controllo su di un
Montenegro solo formalmente reso indipendente; la Germania estese direttamente
il suo dominio sulla metà orientale della Slovenia ed il controllo sulla
Serbia, ridotta ad una sorta di protettorato del Reich, l’Ungheria si annesse
la Vojvodina, la Bulgaria buona parte della Macedonia mentre la Bosnia fu
inserita nel nuovo stato di indipendente di Croazia, alleato dell’Italia e
della Germania.
Penso che nessuno dei suoi connazionali avesse la ben che
minima idea di aver contribuito non già all’allargamento dei propri confini o
del proprio “spazio vitale”, come si usava dire a quei tempi, man bensì alla
rottura di un novello vaso di Pandora e
di aver varcato non già una semplice linea di demarcazione invadendo la
Jugoslavia, ma di essersi incamminati sulla strada verso l’Inferno, varcando le
porte dell’Ade.
Se la resa dell’esercito jugoslavo fu quasi immediata e
praticamente senza combattimenti, i megalomani disegni di Mussolini ed Hitler
di “pacificare” quell’area secondo le proprie infami politiche nazionalistiche
di occupazione, si rivelarono un colossale abbaglio, oltre che un crimine
contro l’umanità, pagato con il sangue di qualche milione di morti.
Il governo monarchico jugoslavo fuggì in esilio a Londra,
mentre sul territorio buona parte degli ufficiali serbi, fedeli alla monarchia,
organizzarono immediatamente un movimento clandestino di resistenza contro gli
occupanti, contemporaneamente alla nascita di un esercito popolare di
liberazione nazionale guidato dal comunista croato Tito. Queste due formazioni,
accomunate solo dallo stesso nemico, ovvero gli invasori italo-tedeschi, in
realtà nutrivano un odio profondo l’una verso l’altra in quanto i primi,
chiamati Cetnici, combattevano per la restaurazione di una Jugoslavia guidata
da una monarchia serba anticomunista, mentre i partigiani di Tito intendevano
la lotta armata non solo come un mezzo per liberare il paese ma anche, e con
una determinazione che sfumava nel fanatismo,
per la creazione alla fine delle ostilità di un nuovo ordine sociale e
di una Jugoslavia comunista. Non dimentichi poi, che le milizie dello stato
“indipendente” di Croazia, i cosiddetti “Ustascia”, apertamente anticomunisti e
nazionalisti, combattevano ferocemente sia i Cetnici che i partigiani titini
con lo scopo di eliminarli completamente, al fine di creare uno stato croato
più grande ed egemone in tutta l’area ex jugoslava. In questo clima da “tutti
contro tutti, nessuno escluso, fino all’ultimo sangue”, i vostri soldati dovevano
garantire l’ordine ed i vostri impiegati statali dovevano svolgere la missione
“civilizzatrice” di Roma per italianizzare forzosamente le terre ora slovene,
ora croate che il governo fascista aveva deciso di annettersi. Ci tentarono,
eccome! Probabilmente pensavano che fosse sufficiente seguire i metodi già
usati tra le due guerre nelle mia vallate e nei territori ottenuti dalla
dissoluzione dell’Austria - Ungheria, come ad esempio la chiusura delle scuole,
la proibizione all’uso della lingua slovena o croata negli uffici pubblici e
durante le funzioni religiose e le
discriminazioni a favore dei nuovi residenti italiani. Non poteva però
bastare questa volta: i soldati erano oggetto di continui attentati, di sabotaggi
frequenti e la popolazione opponeva una fiera resistenza; così si pensò di
rincarare la dose: distruzioni di villaggi, fucilazioni di civili per
rappresaglia, internamenti in campi di concentramento locali prima e poi
deportazioni in campi situati sul vostro territorio metropolitano e da cui, per
le condizioni di “vitto ed alloggio” che si trovavano era difficile ritornare
vivi. Uno aveva sede anche nel suo Friuli, dovrebbe saperlo.
A Gonars?
Si, proprio a Gonars. La zia che abitava in questa casa e
i miei due cugini che allora avevano 12 e 15 anni ebbero la sorte di
“frequentarlo” e di non farci ritorno… il
volto di Majda, sempre con gli occhi chiusi, restò immobile senza manifestare
neppure questa volta una qualsiasi emozione.. Dentro di me iniziò invece a
crescere un sentimento di dolore e di
vergogna e senza accorgermi di averla interrotta, la interruppi di nuovo…
Immagino i suoi sentimenti verso il popolo italiano…
Lei immagina molto male, caro amico… i suoi occhi
si aprirono di colpo e mi fissarono in profondità; fu come se improvvisamente
quell’ atmosfera cupa si diradasse, come vedere le tenebre della notte che
iniziano a svanire per effetto del sorgere del sole… io non
nutro nessun sentimento particolare verso il suo popolo, né verso altri:
i popoli non sono né buoni né cattivi; le persone, talvolta, lo possono essere
e niente come la guerra permette agli individui di far emergere il loro meglio
o il loro peggio.
Le avevo chiesto di non interrompermi fino alla fine… Le
rinnovo la domanda, nel suo interesse…
Solo dopo che Majda mi vide annuire
convinto alla proposta con un cenno del capo, chiuse di nuovo gli occhi
e riprendendo il suo racconto, fece nuovamente calare le tenebre in quella che
sapevo essere stata una dimora di vittime innocenti degli effetti
dell’aggressione italiana del 1941...
Il motivo per cui mia zia e i miei due cugini furono
deportati a Gonars erano mio zio e mio fratello;
mio zio era renitente al richiamo alle armi nel Regio
Esercito, cui in tempo di pace aveva prestato servizio giurando fedeltà al vostro
Re, mentre mio fratello era fuggito da un campo di concentramento cui era
tenuto prigioniero dopo la resa del suo reparto a Sussak durante i primi giorni
dell’invasione. I vostri comandi militari erano convinti che tutti e due si
fossero aggregati alla resistenza clandestina comunista; in base ad un
consolidato vezzo italico, avevano ragione solo al 50%: mio fratello aveva
effettivamente “abbracciato” la lotta armata e la fede comunista, ma mio zio si
nascondeva tra i boschi solo per non lasciare da soli moglie e figli…
“naturalmente” quando i vostri soldati deportarono la sua famiglia, anche lui
incominciò la sua battaglia personale contro tutto quello che, cose o persone
che fossero, in qualche modo potesse essere collegato al vostro tricolore o ai vessilli
fascisti. Mio zio morì durante un combattimento con i soldati tedeschi nel
settembre del 1943, a Tolmin, mentre cercava insieme ad alcuni compagni di
asportare materiale bellico dalla caserma abbandonata dai vostri Alpini dopo
l’armistizio dell’8 settembre.
Mio fratello invece fece “fortuna” nella lotta armata e
nel partito comunista, fino a diventare uno degli esponenti di spicco del
partito finita la guerra… evidentemente anche lui scoprì durante quegli anni
tormentati quale era il suo “fuoco misterioso”. E lo alimentò per bene negli
anni a seguire, tanto che io ebbi la possibilità di rientrare in questa casa
solamente dopo la sua morte.
Pur senza guardarmi, Majda fu in grado di percepire il mio vivo
stupore nell’udire quelle ultime parole e la mia incapacità a darne un senso.
Non sprema la meningi per cercare una soluzione, caro
amico: siamo ormai prossimi alla fine della storia ed è il momento di
raccontarle cosa fu di me e del mio “fuoco misterioso”...
L’arrivo “dell’Italia” a Ljubljana causò anche a me
diversi “problemi”: i corsi all’Università furono sospesi ed io persi
inizialmente il lavoro; la mia fortuna fu che un veneziano, il cappellano
militare della divisione di fanteria
Granatieri di Sardegna, acquartierata nel quartiere di Moste, fosse uno
studioso di slavistica e recatosi nella biblioteca della mia facoltà per delle
ricerche personali mi conobbe e fece in modo che in qualche maniera riuscissi a
sopravvivere e ad alimentare comunque il mio “fuoco misterioso”.
Fu grazie a questo cappellano che iniziai ad imparare
l’italiano e che conobbi Guido, o meglio, in quel momento solo il sottotenente
Guido Montaldo, l’uomo destinato a spegnere momentaneamente il “fuoco
misterioso”. Fu tutto così privo di senso
nella sua banalità… io scendevo le scale della biblioteca, lui saliva per
raggiungere don Moretti, il cappellano, in sala consultazioni;
involontariamente ci scontrammo ed io caddi in terra… dal momento che guardai
quell’uomo nei suoi occhi, che senti quello sguardo ricambiato e sentii le sue mani aiutarmi a rialzarmi da
terra e percepii la sua preoccupazione per la mia caduta… ecco da quel momento…
io non riuscii più a pensare ad altro!! Non ero riuscita a capire quale fosse
l’origine del mio “fuoco misterioso” ed ora ancora meno ero in grado
comprendere la causa di quel sentimento tumultuoso che, contro ogni logica,
aveva spento le fiamme. Un italiano, per di più un ufficiale di un esercito
straniero che stava maltrattando il mio popolo, quel popolo al cui studio della
storia e della lingua avevo dedicato sino a quel momento ogni energia, un uomo
con cui a stento ero in grado di comunicare, addirittura di qualche anno più
giovane di me!
Coltivammo quella folle reciproca passione prima
clandestinamente e poi, noncuranti delle più che probabili conseguenze, anche apertamente... Le lascio immaginare:
per i miei connazionali ero diventata una donna della peggior razza, una
“prostituta” che si era venduta al nemico più detestato mentre mio fratello, un
partigiano comunista, mi minacciò di strangolarmi con le sue mani se non avessi
posto fine a quello “scempio” nel più breve tempo possibile! Considerazioni non
molto più lusinghiere, peraltro, le raccoglievo anche tra gli italiani, dai
quali ero considerata poco più che una ruffiana che, appartenente ad una razza
inferiore, cercava di elevarsi dai suoi simili.
Ma quell’altrettanto misterioso sentimento che aveva
tolto tutto l’ossigeno e quindi alimento al “fuoco misterioso”, era dirompente;
tutto quello che accadeva intorno a me e Guido aveva i contorni pallidi, quasi
inconsistenti, rispetto alla luce accecante del nostro amore.
Quando giunse l’armistizio dell’8 settembre 1943 e lo
sfacelo dell’esercito e della presenza istituzionale italiana temetti il
peggio: Guido era in licenza a Milano e
don Moretti si trovava a Venezia mentre io ero rimasta sola, a fronteggiare in
quei giorni la violenta esplosione
dell’odio indiscriminato contro tutto ciò, cosa o persona, che potesse in
qualche maniera essere collegato all’Italia. Fuggii nella notte da Ljubljana,
la mia città, come una ladra terrorizzata all’idea di incontrare mio fratello
ed i suoi compagni. L’idea era di raggiungere il Friuli per poi proseguire
nella ricerca di Guido. Venni invece fermata nei pressi di Most na Soči da un
gruppo di partigiani, ai quali feci credere che stavo raggiungendo mia zia a
Mlinsko; erano giornate di grande confusione, ove la vita di tutti era appesa
ad un esile filo: circolavano soldati italiani sbandati, partigiani che
volevano disarmarli e che cercavano gli ufficiali che si erano comportati più
duramente durante i lunghi mesi dell’occupazione per passarli immediatamente
per le armi, semplici sciacalli ed opportunisti per compiere furti o vendette
personali, truppe tedesche dal grilletto facile ed incattivite per il tradimento italiano; un
momento di anarchia totale, dove tutti gli istinti più bestiali trovarono
terreno fertile: bastava un nulla, un incontro sbagliato al momento sbagliato,
una risposta “sbagliata” alla più banale domanda, una semplice somiglianza fisica
con qualcuno di “sbagliato” e si finiva al creatore.
Fu così che mi fermai veramente da mia zia a Mlinsko, in
qusta casa, e rimasi nascosta per tutto il mese di ottobre, fino a quando, un
giorno incontrai Guido! Non se lo aspettava vero? Quell’uomo era davvero più
pazzo di me… si era arruolato come ufficiale nei bersaglieri di Salò, nel
battaglione “Mussolini”, sapendo che
questo reparto era destinato alla difesa del confine orientale e che quindi la
destinazione rappresentava una possibilità per stare di nuovo vicino a me.
Passai con lui nella val Bača tutto il periodo
dall’ottobre 1943 sino alla metà di aprile del 1945.. fu un’esperienza tremenda
ma per certi versi meravigliosa; ogni ora che riuscivamo a passare insieme, tra
un rastrellamento e l’altro, veniva vissuta in maniera incredibile, con la
consapevolezza che poteva essere ogni volta l’ultimo incontro; ogni volta che
lui usciva dalla mia stanza lo guardavo cercando di scrutarlo bene in ogni
piccolo dettaglio, pensando che quella poteva essere l’ultima immagine di lui,
quella che mi avrebbe accompagnato per il resto dei miei giorni, tanti o pochi
che potessero essere ancora quelli che il destino aveva riservato per me.
A metà dell’aprile del 1945, con il suo battaglione che
aveva perso, tra morti e feriti, quasi il 75% dei suoi effettivi, era chiaro
che oramai la resa nazi-fascista poteva giungere da un giorno all’altro e così
Guido volle che io lasciassi il fronte: il rischio che anch’io cadessi nelle
mani dei partigiani titini e magari in quelle di mio fratello, era diventato
molto alto.
Naturalmente gli dissi che non ne volevo sapere di
lasciarlo, che non m’importava nulla di mio fratello e del rischio di morire,
ritenevo inutile la mia vita senza di lui: il mio “fuoco misterioso” era stato
proprio ridotto ai minimi termini.
Fortunatamente per me, anche Guido mi amava davvero più
di me stessa, ed una notte mi fece caricare nel sonno su di uno degli ultimi
camion che partivano per l’Italia e mi fece portare dal suo sottufficiale più
fidato in abiti civili, a Venezia, nella
parrocchia di San Zaccaria da don Moretti.
La guerra finì di lì a poco in tutta Europa, ma nelle mie
vallate, sul Carso ed in molte zone della Dalmazia ed in generale in tutta la
Jugoslavia, gli orrori compiuti dalle vittoriose truppe di Tito sugli
sconfitti, italiani, ustascia, cetnici, anticomunisti o collaborazionisti in
genere continuarono ancora per alcuni mesi, in un clima di terrore molto simile
a quello che si era diffuso nel settembre del 1943 dopo la capitolazione italiana;
il tutto seguendo il motto da sempre sbandierato con orgoglio da mio fratello:
“Morte al fascismo, libertà si popoli”.
La Jugoslavia divenne uno stato comunista e certamente
per me non c’era più la possibilità di rientrare nel mio paese, quale “collaborazionista”
del nemico “fascista”, né io ci tenevo a rientrare in uno stato che si fondava
su di una nuova illusione o meglio, su di una più sottile menzogna.
Il fascismo, in quanto idea, non poteva essere “uccisa” o
“morire”… poteva essere solo confutata, e farlo non era poi certo un’impresa
titanica, visto ciò che quell’idea criminale aveva prodotto. I popoli poi, in
quanto tali, sono solo un’astrazione e pertanto non si poteva dare la libertà
qualcosa che non esiste. Ciò che esistono sono semmai i singoli individui che
compongono i “popoli” e quindi sono solo le singole persone che possono essere
liberate.
Così invece, al motto di “Morte al fascismo, libertà ai
popoli”, si finì per uccidere i fascisti, permettendo al fascismo di
sopravvivere e ai fascisti superstiti di covare spirito di rivincita mentre,
per garantire la libertà al “nulla”, si misero in catene gli individui per tutelare il potere dei singoli “rappresentanti” del “popolo”.
Si perse una grande occasione per creare davvero un mondo
diverso da quello buio che era preceduto: le “idee”, invece di contribuire a
salvare gli uomini, avevano di nuovo procurato la morte fisica o spirituale di
molti altri esseri umani, confermando
l’assunto che “La Storia non insegna un bel nulla”.
Quanto a me, furono il mio “fuoco misterioso” ed i buoni
uffici di don Moretti a salvarmi: il mio italiano era diventato più che
dignitoso e così fui assunta prima come lettrice, poi come assistente alla
cattedra di lingue e letterature dei paesi dell’Europa Centro Orientale presso
l’Università di Venezia; le braci sopite tornarono piano piano ad ardere e fino
al 1984 credo di aver aiutato tutti gli studenti affetti dal mio stesso “fuoco
misterioso” a far crescere il loro talento.
Per concludere voglio anticipare le sue ultime tre
domande.. Che fine fece Guido e come mai vivo qui da sola dal 1994…
Stremato dal quel racconto più io di quella che
doveva essere la mia “vittima”ultranovantenne, altro non potei che fare cenno
di annuire mentre Majda, sempre con gli occhi chiusi, continuava
imperturbabile, quasi senza badarmi e scandendo lenta e precisa le parole…
In realtà con esattezza fino allo scorso anno non seppi
nulla di certo, da quella notte del 20 aprile 1945 in cui lo vidi per l’ultima
volta prima di addormentarmi vicino a lui, dopo aver fatto l’amore in una tenda
nei pressi di Grahovo nella val Bača. Ufficialmente era disperso, proprio come
mio padre, trent’anni prima, in Galizia nel 1915. A differenza di mio padre
però, che nella mia infanzia immaginavo
vivo, a rifarsi una vita in qualche landa lontanissima della Russia sperando
che un giorno sarebbe rientrato a casa portandomi una Matrioska, per Guido fin
da subito sentivo nel mio profondo che era morto. Per lunghi anni dopo la fine
della guerra era impossibile sapere persino dell’esistenza, prima che della
sorte, di quei bersaglieri “fascisti”; si sentivano ogni tanto racconti
tremendi sulla fine di chi non era più rientrato in quel mese di maggio del
1945 dalle zone orientali, peraltro subito zittiti e negati dalla comunità
“ufficiale” e dalle istituzioni. Molti di quelli che sapevano tacevano, per
vergogna o per paura di ritorsioni.
Un giorno del 1980, l’ultimo anno in cui ho insegnato
alla facoltà di Venezia e in cui, scherzi del destino, morì il Maresciallo
Tito, si presentò nel mio studio in Università un mio coetaneo che asseriva di
ricordarsi ancora di me, a suo dire “la bellissima donna del suo capitano
Montaldo”.
Dopo le frasi e le “bugie” di circostanza – lei è ancora
così bella, signora – mi disse di essere l’unica persona ancora vivente che
probabilmente vide vivo il capitano Montaldo, o meglio il “mio Guido”. Lo
ascoltai con trepidazione… mi raccontò che la mattina del 29 aprile il reparto
stava marciando da Tolmin verso Kobarid per raggiungere l’Italia, quando fu
circondato da un numero soverchiante di partigiani che gli promisero la libertà
di rientrare in Patria, se avessero subito consegnato le loro le armi; Guido e
tutti loro naturalmente non credevano a quella offerta, ma rifiutarla sarebbe
stata ugualmente morte certa.. ci fu un rapido conciliabolo, la maggioranza
voleva morire con le armi in pugno colpendo più nemici possibile, ma Guido
disse che la guerra era finita e che erano già troppi i morti senza senso e
così li convinse a deporre le armi… i soldati
vennero separati dagli ufficiali e tutti furono condotti nella caserma
abbandonata di Tolmin, dove passarono una notte di veglia in silenziosa
angoscia, intervallata ogni tanto dal crepitare delle mitragliatrici
proveniente dal bosco… il mattino seguente furono tutti radunati nel piazzale
dove assieme ai pochi ufficiali superstiti dalle fucilazioni della notte, tra
cui Guido, vennero fatti salire su di un camion e portati via in direzione di
una località che i partigiani chiamavano “l’Ospedale”… quell’uomo terminò il
suo racconto dicendo che, durante una piccola sosta lungo il tragitto, era
riuscito a scappare e a ritornare a piedi, tra mille peripezie in Italia e di
non saper nulla di ciò che era accaduto ai suoi compagni.. o meglio di non
sapere bene come erano stati ammazzati…
Da quel giorno conoscere la sorte di Guido si sposò con
il mio “fuoco misterioso” e dedicai il mio tempo di “insegnante in pensione”
nel fare ricerche.
Così, dopo 10 anni, nel 1990 a seguito dalla caduta del
muro di Berlino e alla relativa apertura degli archivi sloveni, scoprì che il
viaggio del “mio Guido” assieme a quei
disgraziati dei suoi bersaglieri, si concluse nel campo di internamento per
prigionieri e di guerra italiani di Borovnica, dove per le condizioni assolutamente
non dissimili e probabilmente anche peggiori a quelle che mia zia ed i miei due
cuginetti di Mlinsko dovettero aver incontrato a Gonars, trovarono la morte il
90% dei reclusi nei mesi successivi alla fine della guerra. La prova definitiva
che Guido non apparteneva a quel 10% di “fortunati” che ebbero salva la vita a
Borovnica, comunque la ebbi solo nella primavera del 2006, quando il sindaco di
Nova Gorica consegnò a quello di Gorizia, un primo elenco di nomi che trovarono
la morte in quei tragici mesi: al nr. 227 c’era Guido Montaldo, capitano.
Nel 1992 morì mio fratello e così ebbi finalmente la
possibilità di rientrare per la prima volta nella Val Soča , in questa casa di
Mlinsko e dopo due anni di battaglie
legali con la neonata repubblica di Slovenia, riuscì ad ottenerne, quale unica
erede superstite della mia famiglia, anche la proprietà.
Così il cerchio si chiuse: decisi di tornare qui ad
aspettare che lentamente il mio “fuoco misterioso” si spenga per sempre, nel
luogo in cui i miei avi hanno dimorato, ininterrottamente, dal VI secolo dopo
Cristo, anche se negli ultimi 100 anni mio padre giurò fedeltà all’Imperatore
d’Austria, suo fratello al Re d’Italia, mio fratello prima al re di Jugoslavia
e poi al popolo jugoslavo ed io per rientrare qui a Mlinsko nel 1994, ho dovuto
giurare fedeltà alla Repubblica di Slovenia, visto che nel frattempo il “popolo
jugoslavo” aveva imparato così bene la lezione del 1941-45 da volerla ripetere
tra il 1991-95. E questo è tutto…
… prima che la donna riuscisse a riaprire gli
occhi, presi coraggio e decisi di interromperla per l’ultima volta…
Mi scusi se intervengo ancora, ma non credo sia
veramente tutto, signora Majda…
… Majda non sembrò affatto sorpresa per la mia
domanda e senza dire nulla si alzò dalla sedia dalla quale, come pietrificata,
mi aveva raccontato la sua odissea per dirigersi verso una vecchia credenza,
aprire un cassetto, estrarvi una fotografia e appoggiarla sul tavolo che si
trovava davanti a me…
Questa volta è stato lei a leggermi nel pensiero, eh? La
vicinanza con questa vecchia “sensitiva” slovena ha affinato le sue capacità?
In realtà stavo aspettando la sua domanda, altrimenti si che mi avrebbe deluso…
guardi quella fotografia, così che l’album di famiglia sia davvero completo…
… senza indugio e con grande emozione, osservai quella foto a colori che recava il
primo piano di un alto ufficiale della marina italiana, in apparenza sui 50/60
anni, ritratto sul ponte di una nave da
guerra…
… se lei avesse conosciuto Guido non avrebbe avuto difficoltà
a capire che quell’ufficiale è suo figlio: il colonnello Jože Montaldo… nacque
a Venezia alla fine di novembre del 1945 e come sua madre non ebbe la ventura
di conoscere neppure la voce, oltre che il volto, di suo padre.
Guido è morto senza sapere che, quando mi caricò
addormentata su quel camion con destinazione Venezia, nel mio grembo custodivo
il suo erede e a cui, quando il bimbo nacque, decisi di dare il nome di mio
padre. Jože è stato un degno erede di Guido: fin da piccolo,
crescendo nelle calli veneziane incarnò lo spirito d’avventura e l’attrazione
per il mare che anima gli abitanti della Serenissima e il suo “fuoco
misterioso” non tardò a manifestarsi. Ho un solo rimprovero da fargli: non è
stato in grado di vincere il suo amore verso se stesso e di non voler aprire il
suo cuore all’amore che gli permettesse di domare il “fuoco misterioso”…
insomma non mi ha voluto regalare dei nipoti e conduce una vita solitaria,
continuamente in viaggio sui mari.
Adesso è tutto, mio caro amico?
Non ancora signora Majda… c’è un ultima casella da
riempire. Se non ho fatto male i miei calcoli, cosa peraltro possibile vista la
mia viscerale avversione per l’algebra e per la matematica in genere, quando
perse Guido, nel 1945, lei aveva 31
anni… quindi tutto il tempo, come si usa dire, per “rifarsi” una vita negli
affetti..
… Majda finalmente aprì gli occhi e per la prima
volta da quando ero entrato in casa sua si lasciò andare ad un sommesso
sorriso…
Bè… naturalmente ebbi altre frequentazioni con diversi
uomini, se è questo che intende: la carne è carne, lo sappiamo bene … ma la mia
vita affettiva era più che sufficientemente “riempita” dalle attenzioni per il
mio unico figlio e dal “fuoco misterioso” che aveva ripreso a bruciare con
intensità. Per il resto, come ho avuto già modo di dirle, il “fuoco misterioso”
può essere domato solo dall’Amore, e quel tipo di Amore in grado di accantonare
il proprio “fuoco misterioso” capita una sola volta nella vita di ogni persona.
Io avevo già giocato il mio “jolly”, come lei ha avuto modo di sapere.
Ora ci siamo?
Si signora Majda, ora è davvero tutto.
Bene, ora però vorrà scusarmi… queste due ore passate con
lei ed i miei ricordi mi pesano come la mia vita intera e sento forte il dovere
di riposare…
.. e così dicendo mi prese sottobraccio e mi
accompagnò alla porta… mì salutò con un cenno della mano sull’uscio di casa e
mentre stavo per salire in macchina sentì improvvisamente la sua voce che mi
disse…
La prego, non immagini cose troppo brutte sul popolo
sloveno e non si faccia mai oscurare la vista dal risentimento…
Non si preoccupi signora Majda, non nutro nessun
particolare risentimento verso il popolo sloveno, né su altri in particolare. I
popoli non sono né buoni e né cattivi; le persone, talvolta, possono esserlo o
diventarlo!
…il volto di Majda si aprì in un
grande sorriso, mentre con un ampio cenno della mano la salutai dalla macchina.
Ho fatto a ritroso la strada che da Mlinsko porta a Cividale senza
inquietudine, senza pensare alle parole dei Capi di Stato, ma con il sorriso di
Majda negli occhi e con tanti pensieri sul mio “fuoco misterioso” che mi
ronzavano nella mente…
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