La prima volta che misi piede al Palasport "Primo
Carnera" fu il 14 gennaio 1979, circa sei mesi dopo la mia
"prima volta" allo stadio Friuli ed ebbi così modo di sperimentare le
emozioni del gioco che ha conteso, e tutt'ora contende, il posto principale nel
mio cuore di appassionato sportivo. In realtà, i due sport convivono bene nei
miei affetti, perché trattasi di due esperienze complementari e non
antitetiche. Il calcio è stato il "primo amore", lo sport la cui
pratica negli anni '70 costituiva per tutti i maschietti in età
scolare la via più rapida per accedere al mondo esterno dei pari: bastava la
palla e qualsiasi spazio, dal cortile della scuola alla piazzetta della chiesa
o al prato vicino casa, due cappotti, due cartelle o due alberi avvicinati per
finire direttamente dentro lo stadio di San Siro. E su
quegl'improvvisati campetti trovavi avversari di tutti i tipi, dal ricco
al povero, dal più piccolo al più grande, dal secchione al Lucignolo di turno.
Insomma tutti, e se non facevi parte delle poche famiglie ricche o almeno
agiate e volevi avere una qualche specie di vita sociale, non potevi astenerti
dal saper "dare due calci al pallone". Il basket era diverso. Non era per
tutti. Per costituzione: se volevi praticarlo era necessario accedere ad una palestra
o ai pochi campetti con canestro e tabellone che sorgevano di solito nei
Ricreatori. E a Cividale, appunto, ce n'era solo uno. Il pallone da basket,
poi, non poteva essere surrogato da stracci o pezze avvolte o da sfere di
plastica dal prezzo accessibile, doveva essere da basket e solo da basket e non
era acquistabile risparmiando per un po' di mesi la misera paghetta dei
genitori. Neanche in società. E non si poteva giocare in quanti si voleva o in
quanti c'erano, al massimo si poteva arrivare a dieci. E non potevi dire
all'ultimo principiante arrivato: si usano solo i piedi e devi fare gol tirando
la palla tra i due alberi oppure, più probabile, se vai in porta con piedi,
mani e tutto quello che vuoi devi impedire che la palla ci passi in mezzo. Non
potevi cavartela dicendo: lancia la palla nel canestro usando solo le mani; e
il terzo tempo? e i passi? e la doppia? e la palla accompagnata? e i tre
secondi? E il due su tre? E i cinque falli? E il time-out? Insomma, per farla
breve, il basket era il gioco dei "fighetti", di “quelli del centro”,
delle famiglie “bene”, fisicamente dotati in statura e che sublimavano il loro
senso di superiorità rispetto alla massa - calciofila - praticando uno sport
"non per tutti" con “regole d'ingaggio" sicuramente più evolute
e sofisticate rispetto a quelle rudimentali del "balòn". Fino
agli otto anni, per me, che vivevo in una famiglia né agiata e né
particolarmente interessata allo sport, il calcio non poteva che diventare il
mio primo e unico amore, a cui ho dedicato tanto sudore e molte ginocchia
sbucciate su tutte le superfici, durante l'infanzia. Poi, nel 1975, a
Pordenone, dove da poco mi ero trasferito con i miei genitori, l'allenatore
delle giovanili di basket del Ricreatorio San Lorenzo di Rorai Grande, mi
"strappò" dal campo da calcio per mettermi su quello da pallacanestro. Obtorto collo e con molte resistenze da parte mia. Come mai??
Anche a Rorai, quartiere popolare, volevano una squadra di basket e così
incaricano un appassionato insegnante di educazione fisica locale e amico
del Parroco, di selezionare una quindicina di ragazzi da avviare al minibasket.
Impresa complicata, in quel mondo che pullulava di calciatori in erba, che alla
fine si risolse "obbligando" i più alti ad aderire e, visto che durante
l'infanzia la natura mi aveva dato una statura decisamente superiore alla
media, non furono sufficienti tutti i miei pianti per evitare di lasciare i
compagni del calcio per diventare un pioniere della pallacanestro. A distanza
di anni, anche se non lasciai in seguito tracce degne di nota nel mondo della
palla al cesto, non posso che ringraziare quell'insegnante che mi fece imparare
nell'anno successivo i fondamentali e i rudimenti necessari per giocare a basket,
sport che incominciai ad apprezzare ed amare tanto da essere stato selezionato,
sicuramente data l'altezza, per trasferirmi a fine stagione nelle giovanili
della Postalmobili, allora prima squadra della città sul Noncello. Quel
trasferimento non ebbe mai luogo, perché la famiglia ritornò ad abitare a
Cividale, dove, la mancanza in quegl'anni di una società sportiva di
pallacanestro con settore giovanile, mi fece riabbracciare convintamente e
definitivamente il mondo dei pallonari, relegando la pratica del basket ai
tornei scolastici e a occasionali sfide, post compiti del pomeriggio, tre
contro tre nel campetto del Ricreatorio. Quell'anno di basket però fu
sufficiente per farmi innamorare anche di quello sport, così diverso dal
calcio, sia in relazione agli skills necessari per la pratica, che per la
prassi, i rituali e le emozioni della partecipazione passiva. Eccoci qui,
finalmente. La partecipazione passiva. Fu come scoprire un’altra galassia, per
un “pallonaro” che aveva appena incominciato a fare i conti con la tempra
necessaria per assistere il calcio, dal vivo allo stadio, fronteggiando
nell’ordine: la calca feroce alle biglietterie, gli assembramenti e le code
interminabili per l’ingresso, l’esposizione diretta per qualche ora alle
intemperie sui gradoni in cemento della curva prima e durante la partita, la ressa
infernale per acquistare un panino durante l’intervallo in mezzo ad un’umanità,
quasi esclusivamente di sesso maschile, composita ma accomunata da un
generalizzato e continuato uso “approssimativo” del galateo. E guardandosi bene
dall’incrociare lo sguardo con qualcuno “degli ultras”, soggetti dai quali era
meglio stare alla larga non solo allo stadio ma anche ai baracconi e di cui
molti già ben noti alle forze dell’ordine.
Il clima del Palazzetto era invece paragonabile a quello di un salotto: seduta confortevole, riscaldamento, musica di sottofondo, buona visibilità, venditori di bibite e panini che si muovevano agevolmente tra gli spettatori, possibilità di spostarsi tra un settore e l’altro delle gradinate per osservare molto più da vicino i giocatori, pubblico molto più educato e addirittura ragazze sugli spalti! E gli “ultras”, che pure c’erano, sembravano decisamente “più civili”. Agli occhi di un ragazzino di 13 anni un senso di grande sicurezza, rispetto alla vertigine e al battito impazzito del cuore sperimentati la prima volta in mezzo alla folla dello stadio. Ragionamento semplice: se il basket era il gioco dei “fighetti”, “fighetti” – e fighette - non potevano che esserlo anche i sostenitori e gli appassionati. Se andare ad assistere alle partite dell’Udinese al “Friuli” era come partire per una battaglia da campo in mezzo ad una compagnia di alpini, andare al “Carnera” a vedere la Mobiam aveva invece il sapore di essere invitati ad una festa di capodanno per dirigenti e quadri di un istituto bancario. Per questo i miei amori per il calcio e il basket hanno potuto convivere pacificamente ed in modo parallelo: cose troppo diverse per essere messe a confronto, così negl’anni ho potuto partecipare sempre con grande trasporto ad entrambe gli eventi e rammaricarmi solo per i lunghi periodi in cui disastrose vicissitudini societarie e sportive del basket udinese mi hanno privato delle frequentazioni nel salotto del “Carnera”, “condannandomi” a rimanere ostaggio del solo stadio Friuli. Il mio “primo giorno” al palazzetto vide “la palla a due” tra i verdi della Mobiam Udine e i rosa della Manner Novara, che si contesero i due punti in palio nella penultima gara del girone d’andata della stagione regolare del campionato di A2 1978/79. Era una specie di “testa-coda” perché mentre la squadra guidata dall’esperto tecnico “Dido” Guerrieri ambiva a riportare Udine nel massimo campionato dopo i freschi fasti snaiderini veleggiando nelle posizioni di alta classifica, la Manner aveva trasferito a Novara i diritti di Genova e cercava di abbandonare l’ultimo posto in graduatoria ed evitare la retrocessione diretta in serie B. Era anche un altro basket rispetto a quello odierno: non c’era il tiro da tre punti, gli arbitri erano solo due, il possesso era di trenta secondi, vigeva ancora la regola del due su tre ai liberi e c’erano due tempi da venti minuti ciascuno, e solo due stranieri per squadra tanto in A1 che in A2. Per dire solo delle cose più rilevanti. Lo spettacolo c’era lo stesso, eccome se c’era. Quella sera, come da pronostico, vinsero i “mobilieri” di casa con un pirotecnico punteggio da NBA: 123 – 105. La cosa che però mi rimase per sempre ben impressa nella mente di quella prima volta, non è legata ai beniamini di casa, bensì a quello che fece pochi istanti prima della fatidica “palla a due” per l’inizio del match.la “stella” degli avversari: tale Melvyn Jerome “Mel” Davis, ala-centro di 2 metri scarsi e con un passato nell’NBA con i celebri New York Knicks,
Il riscaldamento stava per concludersi, diversi giocatori erano
già accanto ai rispettivi coach presso le panchine, le luci delle gradinate già
spente e i due arbitri al centro del campo quando il “califfo” in maglia rosa
pensò di incutere timore ai suoi avversari terminando il warm-up con una
potente e spettacolare schiacciata in terzo tempo, appendendosi al ferro.
Risultato? Il tabellone di vetro esplose letteralmente in mille pezzi con un
fragoroso botto. Partita rinviata di 45 minuti per sostituire canestro e
tabellone – allora i ferri non erano a prova di schiacciata - con il “feroce”
Mel portato d’urgenza al pronto soccorso dove gli praticarono una decina di
punti di sutura in testa.
Unforgettable, specialmente per un ragazzino di tredici anni al
debutto in un palazzetto.
Il risultato finale ci racconta di un largo successo della Mobiam,
che incontrò un unico ostacolo durante il match: il redivivo Mel Davis che, dopo pochi minuti dall’inizio della gara, rientrò sul parquet con una vistosa
fasciatura in testa e mise a segno 33 punti finali, con uno score di 9/10 ai
liberi 5/16 da fuori, 7/12 da sotto e 8 rimbalzi, risultando di gran lunga il
migliore dei suoi.
Così qualche anno fa,
mentre assistevo a Cividale nel palazzetto di Via Perusini al riscaldamento di
uno dei tanti match di A2 della GSA – erede dell’APU e quindi anche di quella Mobiam
- e mi ritornò ancora alla memoria il
ricordo di Mel Davis, decisi di fare delle ricerche per sapere che fine aveva
fatto quel “califfo” che per sempre aveva segnato la mia memoria baskettara.
Grazie a Google l’impresa, che "una volta" avrebbe il richiesto tempo e la dedizione di una ricerca archeologica, oggi mi ha sottratto il tempo del panino e con un po’ di destrezza e controllo
delle fonti ho scoperto che “Big Mel”, nato nel 1950 a New York e dopo aver
frequentato le scuole medie a Brooklin si iscrisse alla St, John University
dove conseguì una laurea in Marketing e nel campionato universitario,
nonostante fosse un’ala di 2 metri, risulta essere ancora il settimo
rimbalzista di tutti i tempi.
Ingaggiato dai leggendari New York Knicks nel 1973 vi giocò fino
al 1977, prima di passare un anno ai Nets, con uno score finale della carriera
in NBA di 5,3 punti a partita e 4,3 rimbalzi a gara.
Arrivato in Italia con il soprannome di “the Killer”, in virtù del
fisico da “Big Jim”, delle cicatrici sul volto eredità delle risse da strada collezionate
in gioventù a Brooklin ma soprattutto per un diretto destro da KO più volte
azionato durante le fasi calde dei match sui parquet dell’NBA, non ebbe molta
fortuna nella scelta delle compagini in cui militò.
Dopo il primo anno a Novara, targato Manner, dove le sue notevoli
prestazioni non bastarono ad evitare l’ultimo posto e la retrocessione in B per
una società che già a metà campionato aveva esaurito l’ossigeno finanziario e
non riusciva a pagare gli stipendi, l’anno seguente si trasferì a Milano,
sponda Pallacanestro Milano griffato Amaro 18 Isolabella, e anche qui, a fronte
del quarto posto assoluto nella classifica marcatori con una media di 25 punti
a partita e settimo in quella dei rimbalzi totali, cambi di allenatore e
tracollo economico determinarono la retrocessione in A2 prima e la scomparsa
del club dai professionisti poi.
Lasciata l’Italia per una breve parentesi in Svizzera, dove i sui
conti al ristorante mandarono in crisi la dirigenza elvetica, Mel fece ritorno
nella sua New York in tempo per ottenere un master in psicologia e counseling alla
Fordham University e uno in pianificazione della carriera alla N.Y. University.
La leggenda narra che in Svizzera “Big Jim” fosse abituato a
consumare pasti che prevedevano un bis di carbonara seguita da due polli arrosto
interi oppure dodici trote salmonate, con l’immancabile accompagnamento di
patate fritte, dolce e cappuccino finale.
Lasciato il basket, per un periodo è stato supervisore per la
commercializzazione della Pepsi per poi occuparsi di programmi per l’orientamento
delle matricole NBA e per la transizione nel mondo del lavoro dei giocatori in
prossimità di terminare la carriera professionistica. Nel 2005 l’NBA ha
nominato Mel Devis direttore esecutivo dell’Associazione Nazionale Giocatori in
Pensione, ente che si occupa di sostenere gli ex giocatori con problemi di
droga, alcolismo, salute e povertà.
Nel novembre 2005 è ritornato in Italia, quale rappresentante dell’NBA,
assieme a Julius Erving per l’inaugurazione del palazzetto dello sport di Rieti
intitolato alla memoria di Willie Sojourner, altro indimenticato “califfo” del
campionato italiano di fine anni ’70.
Per quanto riguarda la Mobiam, perdendo nettamente l’ultima gara
di campionato al “Carnera” contro i cugini della Pagnossin Gorizia del
cannoniere Roscoe Pondexter guidata dal “santone” Jim Mc Gregor perse l’occasione
di essere promossa direttamente in A1 e fu costretta disputare uno spareggio a
quattro per la promozione assieme agli stessi goriziani, al Bancoroma di Nello Paratore
e alla Pintinox Brescia. Spareggio che si concluse con una beffarda vittoria
contro la Pagnossin e due sconfitte con le altre due contendenti, con
conseguente fallimento dell’obiettivo stagionale.
Concludo, per gli amanti delle statistiche, con il tabellino di
quel mio debutto al “Carnera”, in una domenica di gennaio del 1979 in cui l’Udinese
di Massimo Giacomini in serie B, si faceva rimontare un gol di vantaggio in quel di Cesena e l’allora
“mia” Juve trapattoniana e zeppa di nazionali perdeva in casa contro il
Lanerossi Vicenza di Paolo Rossi non ancora Pablito Re di Spagna.
Arbitri Guglielmo e Giuliano di Messina
Andreani 4 (2/2, 1/1, 0/3) Otello Savio 16 (4/5, 3/6, 3/3)
Gianpiero Savio 15 (1/2, 3/8, 4/9) Piùbello (-,-, 0/1) Vidale n.e., Cagnazzo 18
(2/2, 0/1, 8/9) Bettarini n.e., Tonin 2 (-,-, 1/1) Garrett 41 (1/1, 8/13,
12/16) Gallon 27 (5/6, 1/5, 10/17)
Allenatore Guerrieri
Buscaglia (-,-,-) Papetti 7 (1/1, 1/3, 2/4) Foster 14 (-, 2/3,
5/7) Mottini 19 (3/3, 5/12, 3/4) Cantamessi 22 (-, 8/15, 3/3) Dordei 10 (2/2,
2/5, 2/4) Pozzati (-,-, 0/2) Ceron (-,-, 0/3), Marsano n.e., Mel Davis 33
(9/10, 5/16, 7/12)
Allenatore Tanelli