Ancora oggi molti si ricordano del tentativo di Alexander Dubček di dare, nella primavera del 1968, un volto umano all’ortodossia socialista in Cecoslovacchia ma, soprattutto, di come finì l’esperimento: nella notte del 20 agosto di quell’anno, dal Cremlino Leonid Brežnev diede l’ordine di invadere il paese “fratello” e l’Armata Rossa con 6.000 carri armati e 400.000 uomini eseguì con zelo e precisione l’ordine. In particolare, Praga, fu occupata in modo capillare, riempendosi in ogni dove di soldati sovietici e con le strade presto ostruite da centinaia e centinaia di tanks e mezzi di trasporto truppa. Uno sfregio che i praghesi non dimenticarono e non vogliono dimenticare, anche se la loro città nel corso della sua storia ha spesso visto piombare per le vie eserciti stranieri con tutte le vettovaglie al seguito, come nel 1648 fecero le truppe svedesi del Re Gustavo Adolfo durante la guerra dei trent’anni oppure nel 1939 i soldati di Adolf Hitler per creare il Protettorato di Boemia e Moravia.
O come il 28 e 29 febbraio 2000, quando nella capitale della Repubblica Ceca calarono le orde dell’Armata Bianconera; provenienti dal Friuli, prima con piccoli avamposti aviotrasportati e poi in massa con centinaia di auto private e autocorriere adibite al trasporto delle truppe, conversero sulla capitale boema per sostenere l’Udinese impegnata contro la Slavia Praga nella gara di andata degli ottavi di finale della Coppa U.E.F.A. edizione 1999/2000. Un’armata baldanzosa e agguerrita, convinta che gli “Eroi di Leverkusen” avrebbero avuto vita facile contro gli orgogliosi ma modesti cechi in maglia biancorossa, dopo che l’Udinese si era qualificata violando, con due reti del centravanti di riserva Massimo Margiotta e i miracoli del secondo portiere Morgan De Sanctis, nientemeno che la Bayer Arena, mandando a casa la capolista del campionato tedesco, forte dei vari Ballack, Emerson, Kirsten, Nowotny e Zè Roberto. Anche io fui arruolato in quell’Armata che, per due giorni “occupò” Praga in ogni angolo, con la stessa capillarità delle truppe del Patto di Varsavia nell’agosto del 1968. Non alla ricerca di dissidenti o di socialisti “dal volto umano” da reprimere o catturare, bensì ansiosi di partecipare ad un festoso happening collettivo, alla ricerca delle birrerie più famose e delle tante altre bellezze che è in grado di offrire la città cantata da Angelo Maria Ripellino.
Il mio reparto di arruolamento fu l’Udinese Club Cividale del Friuli, allora presieduto dal compianto e ineguagliabile comm. Romano Blasigh che, per l’occasione, aveva “requisito” ben 3 autocorriere della SAF da adibirsi al trasporto della “soldataglia”. Al prezzo di 250.000 lire del 2000 – pari a 176,11 euro del 2020 – l’ordine di servizio prevedeva la partenza in pullman da Cividale alle ore 20,30 di domenica 27 febbraio, l’arrivo a Praga alle prime luci dell’alba di lunedì 28, la giornata libera a disposizione, il pernottamento con colazione all’Hotel Park Inn, quattro stelle, Svobodova 1, nel quartiere di Nové Město, a metà tra Vyšehrad e Podskalì, biglietto per la partita con fischio d’inizio alle ore 16:00 del 29 febbraio e rientro in pullman subito dopo la fine del match con arrivo a Cividale il 1 marzo, nel cuore della notte. Imperdibile. O meglio indimenticabile, perché di quello a cui stavamo andando incontro me ne resi subito conto quando, alle 20:30 in punto di domenica 27 febbraio, assieme al mio amico Dario, “c’imbarcammo” sul mezzo che ci doveva condurre verso la “gloria”. Prima di tutto non si trattava di un pullman gran turismo e l’interno riportava alla memoria le corriere che avevano evacuato gli sfollati dalle città bombardate durante il secondo conflitto mondiale: il mezzo era occupato da un’umanità composita e vociante, ansiosa di partire e infastidita dal nostro “ritardo”, stipata in ogni posto e in modo tale da non permetterci di scorgere se i nostri sedili fossero ancora disponibili o meno. Fu il commendatore a risolvere la questione, indicandoci due posti nascosti in fondo al pullman, subito prima dell’ultima riga di sedili, quella destinata come da copione ai più giovani, agitati e malandrini di ogni gita che si rispetti. Fu un vero e proprio “viaggio della speranza”: sbarcammo nella Hall dell’albergo a Praga dalle 8:30 del mattino seguente, dopo 13 ore di viaggio turbato dalla temperatura del riscaldamento interno al bus stile “crogiolo di un altoforno”, ripetute richieste inevase di soste per la minzione, canti che spaziavano dal repertorio delle villotte a quello meno romantico della curva nord dello stadio Friuli, odori umani vari, sapori e briciole di pane, prosciutto, salame, pancetta, speck, lattine di birra, bicchieri di vino e grappa “di fossâl”, nonché da innumerevoli tentativi, tutti vani, di prendere sonno.
All’arrivo in albergo con gli occhi resi “acrilici” dalla nottata, io e Dario iniziammo a renderci conto delle dimensioni dell’invasione, osservando le decine di pullman targati UD, PN e GO che già stazionavano nel piazzale antistante e le frotte di “militi” bianconeri che sciamavano nella hall, tutti rigorosamente con la sciarpa commemorativa d’ordinanza attorno al collo; così decidemmo di dormire almeno un paio d’ore, per ricaricare un po’ le pile ed evitare di buttarci subito a “peso morto” nel centro di Praga, dove alto era il rischio di essere coinvolti in una vera e propria “via crucis” tra birrerie e negozi di souvenir. E così fu. Dalla collina di Hradčany alla piazza di Malastrana, dal Karlův Most alla piazza della Città Vecchia, dal cimitero ebraico a Piazza San Venceslao tutta la giornata fu costellata di incontri con gruppi di tifosi friulani di ogni genere, che spesso t’invitavano ad unirsi a loro in brindisi benauguranti. C’erano gruppi familiari con tanto di figli piccoli al seguito che parevano giapponesi in gita turistica, coppie di innamorati che si muovevano tra i vicoli del quartiere ebraico quasi fossero in viaggio di nozze, gruppi più numerosi di giovani e meno giovani che girovagavano alticci, senza meta cantando come coscritti dopo aver passato la visita di leva, capannelli di pensionati che venivano guidati dall’immancabile coetaneo che si era arrogato le funzioni di guida-capogruppo e si spostavano da un sito turistico all’altro come nelle gite del dopolavoro, industriali, politici e professionisti della “Udine Bene” che seduti ai tavolini dei locali più esclusivi del centro, sorseggiando becherovka sorridevano, guardando con malcelata superiorità e sufficienza gli altri “commilitoni” – salvo poi condividere disinvoltamente qualche ora più tardi, con meno superbia, i locali della Praga “a luci rosse” con i tifosi meno danarosi, attratti probabilmente anch’essi dalla fama “libertaria” della capitale boema, oltre che dalle prodezze di Fiore, Muzzi e del “Pampa” Sosa. Tutti comunque rigorosamente con la sciarpa bianconera d’ordinanza al collo. L’entità dell’Armata friulana che compose l’invasione non la potrà mai sapere nessuno con precisione, le cifre riportate dai giornali dell’epoca spaziano tra le 6.000 alle 7.500 persone; a mio avviso più credibile il secondo, considerato che le statistiche ufficiali dell’U.E.F.A. indicano in 13.149 il numero degli spettatori paganti sulle tribune del vecchio stadio Evžena Rošického sulla collina di Petřín e a solo occhio nudo era possibile vedere che ben più della metà erano tifosi bianconeri. Udine e il Friuli erano lì, compresi il Sindaco e alcuni consiglieri regionali che, prima del fischio d’inizio, fecero passerella sulla pista d’atletica dell’impianto e vennero a salutare il “popolo” friulano assiepato nella curva a monte della città. Lo stadio Evžena Rošického era un piccolo impianto fatiscente, costruito nel 1935 durante il periodo d’oro del calcio mitteleuropeo, con una capienza limitata a soli 19.000 posti ma ricco di storia dai sapori contrapposti per i colori friulani: sulla sua pista Venanzio Ortis da Paluzza aveva vinto le medaglie d’oro e d’argento rispettivamente sui 5.000 e i 10.000 metri durante i campionati europei di atletica leggera disputati nel 1978 e nel novembre 1983, invece, gli azzurri campioni del mondo di Enzo Bearzot avevano rimediato l’ennesima batosta nelle qualificazioni verso Francia ’84, perdendo per 2-0.
Tutto il corpo d’armata bianconero si era riversato con due ore d’anticipo all’interno dello stadio, nel varcare i cancelli dell’impianto sembravamo una delle tante ondate di fanteria che il generale Cadorna spediva contro i reticolati delle trincee austro-ungariche sui rilievi del Carso durante la prima guerra mondiale, con molti che parevano più Arditi che Fanti, considerando l’alito ricco di esalazioni a base alcolica. Per quanto mi riguarda, quell’interminabile pre-partita, fu segnato sugli spalti dalla lenta digestione di uno stinco di proporzioni monumentali che, assieme al mio compagno di viaggio avevamo “consumato” prima di raggiungere lo stadio, con un abbondante accompagnamento di Pilsner Urquell e fumo di pipa all’interno della locanda U Schnellů (!) nei pressi di Malostranské Namesti. Per inciso: la pipa e il tabacco Amphora verde erano stati acquistati il giorno precedente in una tabaccheria del centro, come rituale beneaugurante di bearzottiana ispirazione. Quello che poi fece svanire tutta l’euforia, spegnere la magia di quei due giorni “fuori” dall’ordinario scorrere del tempo per la multi-assortita Armata Bianconera e bloccare definitivamente la mia digestione, fu la partita. Una partita che i “soldati” bianconeri in campo, guidati dal generale lucano Luigi “Gicgi” De Canio da Matera, interpretarono malissimo fin dal primo minuto cercando solo di contenere i non irresistibili ma vogliosi avversari, rinunciando a far valere il miglior tasso tecnico con un gioco più offensivo. E, naturalmente, finirono pagando un pesantissimo dazio, con il nostro difensore Zanchi capace a venti minuti dalla fine di indirizzare senza alcun avversario intorno, nel sette della nostra porta, un innocuo traversone che arrivava senza pretese dalla linea di fondo, proprio davanti alla curva in cui l’Armata Bianconera era sistemata.
E tutti noi, insieme al povero Gigi Turci, rimanemmo di marmo (…) nel vedere il pallone gonfiare la rete, facendo esultare gli sparuti e altrettanto increduli tifosi dello Slavia dispersi sui gradoni delle altre tribune dello stadio.
Invano aspettammo un cambio di marcia da parte dei nostri beniamini nei venti minuti successivi: i “nostri” continuarono ad essere preoccupati solo di limitare i danni per giocarsi la qualificazione nella partita di ritorno fra otto giorni sul prato dello stadio Friuli. E così fu: il match terminò 1-0, con i giocatori biancorossi a prendersi gli applausi dai loro sostenitori e quelli bianconeri qualche mugugno e molti cori d’incoraggiamento in vista della rivincita.
L’Armata Bianconera lasciò gli spalti in fretta e senza euforia, abbandonando in massa, armi e bagagli, la città invasa; quell’immagine mi riportò alla mente gli ultimi versi del Bollettino della Vittoria firmato Diaz, che così bene avevo imparato a furia di leggerlo anni prima, durante gli infiniti turni da capo-muta alla porta principale della Scuola Allievi Carabinieri di Fossano: “I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli, che avevano disceso con orgogliosa sicurezza.” Solo che, questa volta, gli austro-ungarici eravamo noi.
Se il viaggio di andata era stato un “viaggio della speranza” quello di ritorno fu una silenziosa, assetata e insonne Odissea, con una sosta di due ore non sull’Isola di Calypso ma fermi e incolonnati al confine tra la Repubblica Ceca e l’Austria, visto che all’epoca i cechi non facevano ancora parte né dell’Unione Europea e né conseguentemente dell’accordo di Schengen; Itaca-Cividale fu raggiunta alle cinque del mattino del primo marzo e pure se non trovai la casa infestata dai Proci, i clienti non morsi dal demone della passione sportiva o turistica, agguerriti più che mai mi aspettavano in studio nel pomeriggio, dove non mi fu sufficiente neppure ricorrere a tutta l’astuzia di Ulisse per riuscire a dribblare gli impegni professionali.
Per la cronaca, otto giorni dopo, l’impresa al contrario si compì e i cechi, perdendo per 2-1, resistendo nell’ultima mezz’ora all’assalto all’arma bianca di un’Udinese abbandonata dalla Dea bendata e alla disperata ricerca del 3-1 qualificazione, si guadagnarono il passaggio ai quarti di finale dove ad attenderli c’erano gli inglesi del Leeds.
Finì con i bianconeri in lacrime, distesi sul prato del Friuli e noi “soldati” dell’Armata bianconera delusi sulle gradinate, nel dover abbandonare i piani già dettagliati per l’invasione della “perfida Albione”. Un po’ come i generali tedeschi del 1940, costretti a buttare nelle immondizie l’Operazione Leone Marino per l’invasione dell’Inghilterra, resa impossibile anche grazie ai tanti piloti cecoslovacchi che, arruolati nell’aviazione britannica, avevano contribuito alla sconfitta nei cieli della Luftwaffe
Nessun commento:
Posta un commento