Non ho più la percezione di come gli adolescenti di oggi vivano l'annuale gita scolastica, specialmente quella dell'ultimo anno, quello dell'esame di maturità e che, mi fanno giustamente notare, non si chiama neppure più così, avendo assundo l'altisonante - ma più burocratica - denominazione di "Esame di Stato".
Per quanto mi riguarda sono trascorsi 40 anni esatti da quegli eventi e oramai quasi 10 da quando accompagnai l'ultima volta degli studenti in stage all'estero per cui, vista la sempre maggiore velocità con cui si modificano gli usi sociali e soprattutto come questi vengono vissuti dai ragazzi nel periodo scolare, non ho più idea di che cosa sia diventata per loro quella "fatidica" ultima gita prima della fine degli studi scolastici, momento che segna (o segnava?) un passggio nella vita di ciascuno.
Ex colleghi addirittura mi riferiscono che per ragioni legate alla crescita esponenziale delle difficoltà burocratiche-organizzative, la lievitazione dei costi a carico delle famiglie e l'ardua opera di individuazione di docenti disponibili a fare da accompagnatori date le responsabiltà in capo a questi ultimi, molti istituti non prevedono più l'organizzazione della "visita d'istruzione".
Una circostanza che nel 1985 sarebbe stata vissuta come una tremenda tragedia: la "gita" era per tutti il momento "clou" dell'intera annata, atteso spasmodicamente sin dalla prima campanella di settembre; forse i contemporanei sorrideranno e probabilmente troveranno queste mie parole esagerate ed iperboliche.
Certo, con gli occhi e le menti di chi è cresciuto abituato a spostarsi in gran parte del mondo e dell'Europa senza eccessive difficoltà, pure con una certa frequenza e ad avere a portata di mano immagini, informazioni ed iterazioni in tempo reale comunque, dovunque e praticamente con chiunque, la reazione è più che comprensibile.
Non chiederò loro lo sforzo di immaginarsi il mondo di un adolescente del Friuli orientale nel 1985, rischierebbero un'emicrania fulminante, il sopraggiungere di una noia mortale e il sorgere di una fastidiosa insofferenza: più o meno la stessa che provavo io quando mio padre, e soprattutto mio nonno, insistevano nel farmi credere quanto era spensierata la mia adolescenza rispetto alla loro, rispettivamente svoltasi durante e subito dopo due conflitti mondiali che avevano visto il territorio friulano teatro di ogni genere di efferatezza da parte dei contendenti e di miseria nera per la popolazione civile.
Ai contemporanei dico solo: no internet, no Ryanair, no smarthphone, no iPad o iPod, no foto senza macchina fotografica con pellicola, no chatgpt, leva obbligatoria a 18 anni, no Schengen ma confini tra ciascun stato europeo e mezza Europa non visitabile perchè facente parte di un blocco politicamente e militarmente nemico, no playstation, no euro, no carte di credito, media di un auto per nucleo familiare, ovvero quella "untouchable" che usava il padre per andare al lavoro, no Netflix ma Tv con max 9 canali e spesso senza telecomando.
E sicuramente ho dimenticato qualche altro no di "diavolerie" che loro usano e di cui ignoro l'esistenza.
Bene, in questo scenario da età della pietra, nell'ultima settimana di marzo 1985, a meno di tre mesi dall'esame di maturità la mia classe si radunò un sabato sera nell'atrio della stazione di Udine per prendere il treno che ci avrebbe portato a Monaco di Baviera per poi farci rientrare la settimana seguente.
Sette giorni tutti insieme lontano da casa, senza libri e genitori tra i piedi, in 20 e con un un'unica accompagnatrice: la neanche trentenne docente di tedesco! Un' apoteosi, insomma.
Si perchè, dopo un viaggio che durò tutta la notte, alle otto del mattino seguente dalla Hauptbhnhof di Munchen prendevamo la S-Bahn che in mezz'ora abbondante ci scaricò ad Ismaning, piccolo comune alla periferia della capitale bavarese alla ricerca del nostro albergo, che nei giorni successivi oltre a diventare la nostra "base operativa" fu teatro di una ricca serie di episodi degni di non sfigurare all'interno di qualche cinepanettone dell'epoca.
Al pari del centro storico di Monaco e del parco dell'Olympiastadion, perchè ogni giorno verso le 16,00, terminato il programma delle visite guidate, la docente ci lasciava soli - essendo tutti maggiorenni - con l'unico obbligo di presentarci puntuali alla sera in albergo per la cena.
Vi lascio immaginare.
Fu grazie a questa libertà che alcuni di noi, tra le altre cose, riuscirono a violare la sorveglianza dell'Olympiastadion e calpestare il prato della finale mondiale del 1974 e soprattutto "imitare" Mennea e Borzov in una patetica - ma emotivamente eccezionale - riedizione della finale olimpica dei 200 piani, prima che la sorveglianza ponesse fine allo scempio, "invitandoci" a lasciare subito l'impianto.
Per poi sfidare sul prato del parco dei coetanei tedeschi - dell'ovest - che giocavano a calcio tra di loro, "invitandoli" ad una rivincita della finale mundial di tre anni prima e subito dopo, non paghi per la nuova vittoria e per nulla infastiditi dal fatto di non avere al seguito dei costumi da bagno, in mutande e sudaticci profanammo l’adiacente vasca olimpionica in cui Mark Spitz aveva vinto 7 medaglie d'oro nel 1972.
L'idea di "imitare" Klaus Dibiasi dal trampolino olimpico, lanciandoci "a bomba" come lo facessimo dal salto dall'Edera nel Natisone, decretò la nostra definitiva espulsione dal complesso olimpico natatorio da parte degli addetti alla sicurezza, ai quali avevamo dato l'ennesima occasione per urlare, questa volta a ragione: "Italiener raus!"
Allora non lo sapevamo, ma erano gli ultimi bagliori di un'epoca.
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