Ho quasi sessant'anni anni, e da dieci guido treni su questa linea stretta come un sentiero di montagna. Oggi è il 15 agosto del 1932 e lo ricorderò come l’ultimo giorno in cui il trenino da Cividale a Caporetto si sarà messo in moto: domani, resteranno solo i binari morti e il vento nei castagni.
Alle 06:40, alla stazione di Barbetta, le ombre dell’alba erano ancora blu quando ho acceso la caldaia della mia locomotiva Breda numero 4. Era tranquilla, quasi assopita. L’ho toccata sul fianco come si fa con un cavallo stanco ma fedele e lei ha risposto con un soffio, né troppo forte né troppo debole: come se sapesse anche lei.
Il convoglio era modesto: tre vagoni. Un paio di donne coi fazzoletti annodati, un ragazzo con una fisarmonica, e un uomo solo, curvo, vestito di scuro, lo sguardo fisso fuori dal finestrino come chi sta cercando qualcosa che non si può più toccare. Il bigliettaio ha contato gli ultimi biglietti con un’espressione che pareva un atto sacro. Nessuno parlava.
Fischio. Ore 07:00. Partenza.
Cividale si è lasciata alle spalle con grazia, come una signora che non vuole farsi vedere invecchiare. Il Natisone correva con noi, ogni tanto appariva tra i pioppi, poi spariva di nuovo come un pensiero. Il treno si arrampicava lento, come sempre; chi non lo conosce potrebbe pensare a un guasto, ma questo treno non ha mai avuto fretta. E nemmeno io.
Come è uso dirsi a Trieste: "pian e ben e se non se pol ben, almeno pian".
A San Pietro al Natisone, verso le 07:30, il sole filtrava tra i tetti malandati e un uomo affacciato a una finestra ci ha salutati con un fazzoletto bianco. Gli ho risposto col mio cappello, come si fa tra vecchi amici. Ogni paese attraversato oggi sembrava sussurrare qualcosa, come se il paesaggio stesso volesse farsi ricordare: i campanili, le botteghe ancora chiuse, le strade strette che odorano di pane e fieno.
Mentre il treno saliva verso Brischis, il respiro della locomotiva si faceva più affannoso, ma non c’era bisogno di spingerla, come più volte era accaduto quando i vagoni erano occupati ben più dei posti disponibili. La numero 4 oggi ci teneva a fare bella figura. Il ragazzo con la fisarmonica accennava una melodia popolare, di quelle che conosci anche se non le hai mai sentite.
Ogni stazione era una tappa della vita. Barbetta come l'infanzia: incerta, ancora dentro il sonno. San Pietro la giovinezza, piena di luce e di promesse. E ora, col motore che si scalda, entriamo nella parte più ripida del percorso. Quella dove capisci che non basta solo avanzare: bisogna resistere.
A Stupizza, alle 08:05, la stazione ci ha accolti nel silenzio assoluto. I muri, ancora solidi, sembravano osservare il nostro arrivo. Nessuno era lì ad aspettare, ma l’assenza aveva un peso. Ho rallentato più del necessario, non per problemi tecnici, ma perché sentivo che dovevo farlo e l’ho guardata come si guarda una casa che si sta per lasciare per sempre: non cercavo dettagli, cercavo un addio. La locomotiva ha sibilato piano, anche lei ha salutato.
Quando siamo ripartiti, mi è venuto in mente che l'esistenza di ciascuno assomiglia proprio a questo viaggio: si sale con fatica, si attraversano ponti che prima o poi crollano, si fanno fermate troppo brevi, e alla fine si arriva in un posto dove nessuno ci aspetta davvero. Ma si va lo stesso perchè la vita non si ferma nemmeno quando finisce. Va avanti, un po’ più lentamente, nei ricordi degli altri, nei racconti che lasci. Nelle stazioni vuote che qualcuno, un giorno, si fermerà a guardare.
A Poiana, verso le 08:25, ho rallentato ancora. Tra il verde, spiccava la piccola stazione e, accanto, la cisterna d’acqua ancora integra, lucida nel sole di mezza mattina. Un vecchio manufatto, resistente e dignitoso, testimone di mille rifornimenti. L’ho osservata con un misto di gratitudine e malinconia. Quante volte mi ha rifornito d’acqua bollente, quante volte mi ha permesso di proseguire. Tutto era al suo posto, come se il tempo lì non avesse avuto il coraggio di passare.
I passeggeri si affacciavano dai finestrini. Qualcuno fotografava con la memoria. Il ragazzo ha smesso di suonare. A quel punto, la valle sembrava stringersi, come per trattenerci.
Mi sembrava di sentire la vita fare lo stesso: rallentare, guardarsi attorno, accorgersi di quante cose aveva attraversato senza rendersene conto. E adesso — troppo tardi — cercare di trattenerle.
A Suzid, alle 09:40, la locomotiva si è fermata con un lungo sospiro. Sembrava più un respiro che un fischio. Ho spento il motore e lasciato che il silenzio ci avvolgesse.
Tutti sono scesi piano. Anche l’uomo alto, quello curvo, si è avvicinato a me. Aveva gli occhi lucidi, ma non tristi. Solo colmi.
«Mio fratello non è mai tornato dalla guerra,» mi ha detto, senza che io gli chiedessi nulla. «È là, da qualche parte, sotto Caporetto. Grazie… per averci portato fin qui. Per non aver avuto fretta.»
Gli ho stretto la mano. Non ho trovato parole. Solo un nodo alla gola che non se ne voleva andare.
Sono rimasto ancora un po’ sulla locomotiva, da solo. Ho acceso una sigaretta e guardato il cielo che si apriva oltre le montagne. Un tempo quel treno serviva a trasportare uomini e munizioni. Oggi trasportava memoria.
E domani, nulla.
Ma in quel nulla c’era ancora qualcosa. Un filo di fumo, un suono nel bosco, una rotaia che si perde. Come quando la vita finisce: non si spegne, si dissolve. Come vapore.
Eppure, mentre il fumo saliva lento nell’aria e il Natisone scorreva là sotto, mi è parso — o forse solo immaginato — di sentire ancora, in lontananza, il fischio sommesso di una locomotiva.
E se qualcuno, fra qualche anno, camminando tra quegli alberi, sentirà la stessa eco… beh, non si spaventi.
È solo la Storia che respira ancora.
È solo la vita che, ostinata, cerca ancora un binario.
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