Lubiana lo accolse in silenzio. Una pioggia leggera cadeva sui tetti rossi della
Stara Ljubljana, e il
Ljubljanica scorreva come un pensiero che nessuno aveva ancora avuto il coraggio di dire ad alta voce.
Ruben arrivò in città senza aspettative. Una valigia, un taccuino mezzo pieno, e due pennelli infilati tra i vestiti come amuleti superstiziosi. Aveva affittato una piccola stanza nella Gornji trg, al terzo piano di un edificio antico con le scale in legno consumate dal tempo. La padrona di casa, una donna magra dai capelli bianchi raccolti in una crocchia, gli aveva detto con voce neutra: “Qui passano tutti, ma pochi restano.”
Non le aveva risposto.
Nei giorni seguenti, Ruben cominciò a camminare. Ore intere per le vie che odoravano di pioggia e caffè nero. Dal Prešernov trg al Grad, su per la collina e giù per i vicoli, tra il verde acido dei parchi e l’ocra dei muri antichi, senza una meta, senza nemmeno l’intenzione di conoscere davvero la città. Ma Lubiana non aveva fretta, gli mostrava sé stessa poco a poco: i ponti ornati di draghi, i palazzi barocchi, le persiane scrostate, i tramonti che spegnevano la città in un silenzio dorato.C’era qualcosa di sospeso a Lubiana, come se la città non volesse spiegarsi ma solo farsi guardare. E lui, da sempre in cerca di silenzi densi, la trovò perfetta.
Un pomeriggio entrò nel Mestna hiša, attratto da un manifesto dai colori scuri.
“Vse, kar ostane.”
Tutto ciò che resta.
Era una mostra d’arte contemporanea slovena. Ruben salì le scale in legno, respirando l’odore di gesso e luce. Le sale erano bianche, vuote, eppure piene di qualcosa che gli si infilava sotto la pelle: tele tagliate, vetro fuso, installazioni fragili come pensieri.
Ma furono le parole sui muri a colpirlo. Frasi scritte in corsivo, in sloveno, sospese tra poesia e confessione.
“Tudi reka se včasih izgubi v sebi.”
Anche il fiume a volte si perde in se stesso.
Sorrise appena. Si era sentito spesso così, negli ultimi anni: come un fiume che devia, che si sgonfia, che scompare sotto terra prima di riemergere altrove, cambiato. Ma quando aveva cominciato a smarrirsi davvero? Quando aveva sentito per la prima volta che la sua arte non bastava?
Il pensiero lo riportò a Madrid, agli anni delle prime mostre. Le gallerie indipendenti, gli spazi condivisi, le cantine con le pareti scrostate e l’umidità che mangiava i colori prima ancora di appenderli.
Aveva sempre fatto fatica a vendere. Non perché non ci credesse. Ma perché i suoi quadri parlavano un linguaggio che la gente non voleva ascoltare.
Erano volti che tremavano, occhi che guardavano da dentro, corpi mezzi cancellati. I suoi dipinti sembravano chiedere allo spettatore di fermarsi. Di sentire qualcosa. Di riconoscere una crepa. Ma quasi nessuno voleva guardare così a lungo. La maggior parte preferiva arte decorativa, superfici calme, colori rassicuranti.
Una volta, dopo un’esposizione, un collezionista gli aveva detto:
— “I tuoi quadri sono inquieti, Ruben. Troppo. La gente non vuole questo in salotto. Vogliono qualcosa che li calmi. Non che li interroghi.”
Un altro gli aveva suggerito di cambiare soggetto. Più luce, meno carne viva. Più paesaggi. Più silenzio.
Ma Ruben non sapeva dipingere il silenzio. O almeno, non quello che gli altri intendevano. E poi, c’era quell’altra verità: non sapeva vendersi. Le parole gli si rompevano in bocca quando provava a spiegare le sue opere. Non riusciva a costruirsi una maschera, non conosceva il linguaggio del mercato. Non era fatto per le lusinghe, per le strette di mano studiate, per i sorrisi ai buffet.
Era solo un uomo che dipingeva ciò che sentiva.
E a volte, neppure lui sapeva esattamente cosa fosse.
Da bambino, il desiderio di disegnare era l’unico rifugio vero. Quando la casa era troppo piena di fatica, di sudore, di stanchezza incompresa, Ruben prendeva un foglio e scompariva tra le linee.
Il padre tornava ogni sera con le mani spaccate dal cemento. Era un uomo onesto, severo, e con il sogno fallito di una vita diversa. Non lo diceva mai, ma Ruben lo sapeva. Lo leggeva nei silenzi, nella rassegnazione con cui versava la birra nel bicchiere sempre uguale.
Ruben si ritrovò davanti a un'altra frase sulla parete, accanto a una scultura di specchi rotti:
“Kaj je dom, če ne kraj, kjer boli, da odideš?”
Cos’è la casa, se non un luogo che fa male lasciare?
E fu lì, davanti a quella scritta, che Ruben sentì salire un nodo allo stomaco. Era quella sensazione che conosceva fin troppo bene: smarrimento, e colpa. E con essa, arrivò un ricordo.
(Madrid, 1996)
Aveva otto anni e una scatola di cartone. L’aveva trasformata in un teatro: cieli viola, colline azzurre, e nel mezzo un cavallo alato. Pegaso. Aveva disegnato tutto con i pastelli a cera, seduto sul pavimento della cucina.
Quando il padre entrò, stanco dal lavoro, con la pelle arrossata dal sole e la camicia intrisa di calce, si bloccò.
— Cos'è 'sta roba?
— È un teatro, papà… per la scuola. Ma l’ho inventato io. Questo è Pegaso, vedi? Vola.
Il padre guardò il disegno, lo prese, lo osservò appena e poi lo lasciò cadere sul tavolo.
— Tu vuoi fare l’artista? Vuoi crepare di fame a disegnare cavalli?
Lo fissò con occhi pieni di stanchezza, ma anche di qualcosa che allora Ruben non sapeva leggere: paura.
— La vita non si nutre d’aria. E nemmeno d’arte. Le bollette non si pagano con i sogni, Ruben. L’arte è per chi può permettersi di non lavorare. Noi no. Noi stiamo coi piedi per terra.
E se ne andò a sedersi davanti alla TV. Il rumore dello schermo coprì il battito del cuore di Ruben, che rimase in piedi accanto alla sua scatola-teatro, come un equilibrista scivolato dal filo.
(Ritorno al presente – Lubiana)
Gli occhi di Ruben erano ancora davanti a quella scritta:
“Kaj je dom, če ne kraj, kjer boli, da odideš?”
Cos’è la casa, se non un luogo che fa male lasciare?
Ruben non sapeva rispondere. E nemmeno vendersi. Non sapeva sorridere a comando, parlare di “visioni” e “percorsi artistici”. Le sue parole gli restavano in gola, scomode come i sogni che fanno sudare.
Non era un pittore da salotti, era uno che dipingeva ciò che faceva male e il dolore, si sa, ha poco mercato.
Eppure, nonostante tutto, non aveva mai smesso.
Uscito dalla mostra camminò ancora senza una direzione precisa, lasciando che i suoi passi lo guidassero seguendo l'inconscio e non una qualsiasi ragione razionale, fino a sedersi sul parapetto del Čevljarski most, guardando le luci della città riflettersi tremanti nell’acqua. Lubiana non cercava di consolarlo, e questo la rendeva perfetta. Aprì il taccuino e scrisse:
“Forse mio padre aveva ragione. L’arte non paga.
Ma io non l’ho scelta.
È l’unica cosa che mi ha scelto davvero.”
Poi aggiunse, sotto:
“Non si vive d’aria.
Ma nemmeno solo di conti da pagare.
A volte si sopravvive grazie a un cavallo disegnato.
E alla testardaggine di continuare.”
Il fiume sotto di lui continuava a scorrere, silenzioso. Come i ricordi, come l’arte, come tutto ciò che resta.
Nika
Il giorno dopo, in un vicolo stretto della città vecchia notò l'ingresso di un piccolo spazio espositivo con una scritta all'ingresso: "Okno", che in sloveno significa "finestra". Non c’erano altre insegne vistose, solo un vetro appannato e quella scritta bianca tracciata a mano. Dentro, una luce calda illuminava pareti grezze e un pavimento di legno scricchiolante.
Ruben entrò come si entra in una stanza d’altri tempi: con la timidezza di chi teme di disturbare.
Un gruppo sparuto di persone stava in cerchio, qualcuno seduto a terra, altri con un bicchiere in mano. Una giovane donna parlava con tono calmo, quasi ipnotico, davanti a una tela ancora incompiuta appesa con mollette da bucato. Sul fondo, un proiettore mostrava parole fluttuanti in sovrimpressione su immagini d'archivio.
Ruben non capiva tutto — lo sloveno gli arrivava come un vento tra le foglie — ma riconosceva il ritmo, il corpo della voce.
Poco dopo lo sguardo di Nika si posò su di lui. Non lo fissò a lungo, solo abbastanza da riconoscere un'assenza che assomigliava alla sua.
Terminato l’incontro, Ruben si avvicinò alla tela. Colori cupi, tratti larghi, e una sola frase scritta in acrilico nero:
“Nič ne izgine, če ga vidiš.”
Niente scompare, se lo guardi.
Sentì un nodo in gola, di nuovo. Ma non era più solo dolore. Era qualcosa di prossimo alla memoria.
Mentre ancora stava osservando la tela, sentì alle spalle la voce di Nika, bassa ma ferma. Aveva occhi chiari, inquieti, e il modo di stare ferma tipico di chi vive in continuo movimento dentro.
— “Tu non sei sloveno.”
— “No. Spagnolo. Madrid. Ma ora… qui.”
Lei lo guardò un attimo in silenzio. e poi disse:
— “Anche io, a volte, ho bisogno di perdere la mia lingua per dire le cose giuste.”
Si trovarono a parlare fuori, in inglese, sotto una pioggia lieve che sembrava trattenersi per ascoltarli.
Ruben le raccontò di cosa non riusciva a vendere. Nika ascoltava come chi sa cosa significa non essere compresi, nemmeno da sé stessi.
— “Le tue opere sono troppo vere?” chiese lei, senza ironia.
— “Troppo vive, forse. Troppo… scomode.”
— “Allora fanno esattamente quello che devono fare.”
Fu in quel momento che Ruben capì: non doveva più spiegarsi, doveva solo restare. E osservare.
Lubiana non lo stava solo accogliendo: lo stava attraversando e forse, finalmente, lui stava cominciando a lasciarla entrare.
Aprirsi al mondo - Odpiranje sebe svetu
Il primo invito di Nika arrivò con naturalezza, quasi senza preavviso.
— “Stiamo organizzando un progetto collettivo. Un’esposizione-laboratorio sul tema del confine. Non politico, ma emotivo. Ti va di partecipare?”
Ruben esitò. Aveva sempre lavorato da solo. L’idea di condividere lo spazio creativo con altri lo inquietava. Eppure, qualcosa in lui si era già aperto. O forse si era rotto.
— “Va bene,” rispose. “Ma non prometto niente.”
Il laboratorio si teneva in uno spazio industriale riconvertito nella Tovarna Rog, un ex complesso meccanico trasformato in centro culturale. Pavimenti ruvidi, muri spogli, luci al neon e voci che si sovrapponevano in almeno quattro lingue. Odore di vernice fresca, tè alla cannella e qualcosa che assomigliava alla possibilità.
Ruben scelse una parete laterale. Iniziò a dipingere come sempre: viscerale, silenzioso, tratti rapidi e profondi. Una figura scomposta, quasi muta, emergeva da uno sfondo grigio. Gli occhi chiusi, le mani aperte come a implorare. Nessun titolo.
Dall’altra parte della sala, Nika stava costruendo un’installazione con carta da pacchi, luci LED e vecchie fotografie di famiglia ritagliate. La sua opera si intitolava:
“Meje so znotraj.”
I confini sono dentro.
Si avvicinò al lavoro di Ruben dopo due giorni. Guardò a lungo, poi disse:
— “È forte. Ma è chiusa.”
— “Chiusa?”
— “Non lascia entrare. È un grido, ma solo tuo. Dov’è lo spazio per l’altro?”
Ruben abbassò lo sguardo. — “Non dipingo per far entrare. Dipingo per non uscire.”
Nika non rispose subito. Poi:
— “È arte o autoterapia, allora?”
La domanda lo colpì come uno schiaffo. Ma era onesta. E in fondo, Ruben lo sapeva: molte delle sue opere nascevano dalla ferita, non dal dialogo. Era come se dipingesse per trattenere il dolore, non per offrirlo.
— “E tu?” le chiese. “Tu non stai usando l’arte per raccontarti?”
— “Sì,” rispose. “Ma io voglio che qualcuno si riconosca. Anche se solo per un attimo. Anche se solo per sbaglio.”
Nei giorni successivi, tra pennelli, cavi elettrici e scambi tesi, si crearono frizioni continue. Ruben trovava l’arte di Nika troppo concettuale, troppo mediata. Lei lo accusava di essere “troppo chiuso nella carne”. Nessuno dei due cedeva. Eppure, continuavano a parlarsi. A guardarsi. A lavorare accanto.
Una sera, rimasero soli. Fuori pioveva, dentro c’era odore di solvente e silenzio.
— “Perché non hai mai smesso, Ruben?”
— “Perché non so fare altro.”
— “Questo non è un motivo.”
— “No. Ma è vero.”
Nika si avvicinò alla sua tela incompiuta. Ci scrisse sopra, con il pennello sottile, una frase in sloveno:
“Če se ne odpreš, ne boš nikoli svoboden.”
Se non ti apri, non sarai mai libero.
Non chiese il permesso. E Ruben non protestò.
Il giorno dopo cancellò la figura al centro.
Non tutto, solo il volto.
E per la prima volta, lo spazio vuoto invitava a entrare.