martedì 23 settembre 2025

MIDNIGHT IN LITTLE ROCK

La notte era umida, carica di un odore di terra bagnata che sembrava contenere, insieme all’umidità stessa, il peso di tutte le attese mai realizzate, i sogni mai osati e i ricordi che non erano mai stati.
Samuel camminava lungo la strada sterrata, con una valigia il cui peso non era solo fisico ma quasi morale, come se dentro ci fosse concentrata la gravità di ciò che avrebbe potuto fare e non aveva ancora fatto, mentre dietro di lui brillavano le luci tremolanti delle fattorie dell’Arkansas.
Luci in lontananza, fragili e oscure, come se fossero sospese tra ciò che resta e ciò che si lascia andare, continuavano a luccicare come piccole promesse che lui stava, in qualche modo, tradendo, mentre davanti si stendeva la highway lucida di pioggia che lo avrebbe condotto verso Little Rock e, oltre ancora, verso New York.
La Big Apple, la città mai vista, eppure così abitata nei suoi sogni da sembrare reale, promessa e minaccia insieme, spazio dove il desiderio e l’incertezza si mescolano in un nodo così intricato che pensare al futuro provoca vertigini tali da confondersi con il corpo stesso, con la respirazione, con la terra sotto i piedi.

Nella tasca interna del giubbotto portava la lettera dell’Actors Studio, già stropicciata dalle mani che l’avevano letta e riletta, come se ogni piega fosse un segno tangibile della tensione fra ciò che desiderava e ciò che temeva; non era un invito, non era una porta aperta, solo una fessura che prometteva qualcosa e nello stesso tempo minacciava il vuoto, e le parole che Nathan gli aveva detto, lo seguivano come un’ombra permanente, non lasciandolo solo un istante:

«Uno su mille ce la fa, è risaputo: e senza qualcuno che ti spalanchi la porta, che ti sponsorizzi, Samuel, sarai solo uno dei novecentonovantanove che tornano qui, più vecchi e più arrabbiati, magari tossico e con le pezze al culo.»

E così, forse più per la necessità di nominare quella paura che per vera convinzione, Samuel si diresse dal sig. Carter, il vecchio ufficiale dell'anagrafe in pensione, cercando qualcuno che sapesse dare un volto al terrore del fallimento, che potesse insegnargli, con la sola presenza e senza fretta, a riconoscere il senso di ciò che lo paralizzava.

La casa di Carter non era costruita; sembrava sedimentata nel tempo, un accumulo di anni e di attese non compiute, un edificio che respirava lentamente e che raccontava storie di compromessi e di desideri traditi attraverso le assi scricchiolanti e le persiane che il vento sollevava e lasciava ricadere.
Sulla veranda, una sedia a dondolo oscillava, lenta e regolare, sospesa tra il movimento dell’aria e quello dei pensieri del proprietario, che sedeva avvolto in una coperta, lo sguardo perso nella campagna notturna e nello stesso tempo dentro se stesso, come chi porta addosso una vita intera di strade parallele consumate, una vita in cui ciò che si amava di più veniva rimandato o sacrificato, sempre, per la ragionevolezza, per la sicurezza, per il dovere, per il compromesso. 
Ogni vecchio ha un odore, e Carter aveva quello della carta, dei faldoni, delle stanze d’ufficio e dell’illusione che la vita possa essere domata con firme e timbri.

Samuel esitò.

«Mr. Carter… non so che fare. Se resto qui, frequento l’università locale, entro nell’azienda di famiglia: vita sicura, prevedibile, protetta… senza sorprese né umiliazioni. Ma se parto per New York, inseguo il sogno di diventare attore… e se fallisco, torno indietro con niente. Uno dei novecentonovantanove, come dice Nathan.»

Il silenzio cadde tra loro come una coperta pesante eppure fragile, e solo il dondolio della sedia rompeva la quiete, come un battito di cuore esterno, lento e insistente, mentre la notte sembrava sospendere il tempo, trattenere i secondi in attesa di una risposta che non era solo per Samuel ma per chiunque si fosse trovato di fronte a un bivio della vita senza sapere quale strada scegliere.

Carter si schiarì la voce e cominciò a parlare, lentamente, come se avesse tutta la vita per spiegare, come se le parole stesse non potessero mai contenere pienamente ciò che voleva dire:

«In ogni caso saresti in buona compagnia, Samuel; non ti cruciare troppo» 

esordì Mr. Carter, con un mezzo sorriso fissando il giovane bonariamente, quasi a voler alleggerire il peso che insisteva sul ragazzo; ma poi si fece più serio e, spostando lo sguardo verso l'orizzonte  proseguì: 

 «Quando avevo vent’anni, Samuel, ero come te: avevo molti talenti, alcune cose le facevo così bene da intuire già allora che la vita avrebbe potuto chiedermi di dare il meglio di me. Ma non è andata così. Ho sempre saputo cosa non volevo fare, più che ciò che volevo, e così mi affidai al compromesso: accettare temporaneamente ciò che detestavo, convincendomi che nel frattempo avrei costruito una strada parallela, una via segreta, che mi avrebbe portato finalmente a ciò che desideravo davvero. Ma le strade parallele non resistono, Samuel. Si consumano. Si dissolvono. E io rimasi solo sulla strada che temevo e che avevo giurato di non percorrere.» 

Mr Carter interruppe per un attimo il suo dicorso per estrarre dalla tasca un pacchetto di sigari cubani e dopo averne acceso uno e riempito dell'aroma di tabacco tutto l'ambiente, con uno sbuffo, proseguì. 

«Ho passato la vita a fare ciò che detestavo, e per di più lo facevo male, mentre tutte le mie capacità migliori restavano inutilizzate, intrappolate in una società che, al di sotto delle frasi fatte di circostanza, non vuole riconoscere il merito, non è interessata valorizzare ciò che un uomo sa fare meglio, perché l’obiettivo non è la crescita ma la conservazione del potere. E raramente un uomo di valore, che per essere tale deve essere un campione del libero pensiero e navigare lontano dal mare dei pregiudizi, può essere strumentale a chi comanda. Un uomo libero non si fa manipolare, e se non sei manipolabile o ricattabile diventi un pericolo e, perciò, chi è al potere trova il modo di metterti fuori gioco, con le buone o con le cattive; sia che tu viva in una democrazia o in una dittatura. Variano solo i metodi, non la sostanza. »

Fece un'altra pausa. Respirò. «Mentre tu disegni la tua strada con i sogni, Samuel, la Vita ne disegna un’altra con strumenti diversi. Raramente coincidono.»

Alzò gli occhi al cielo e poi, inspirando profondamente sorrise appena, come se scherzasse con se stesso e si rivolse di nuovo a Samuel:

«Ma la vita… la vita ha un modo tutto suo di insegnarti che, qualunque strada tu scelga, anche quella apparentemente giusta, col tempo, tende a diventare ordinaria. Tutto ciò che ora ti sembra straordinario — i successi, le possibilità, perfino i tuoi sogni — finirà per diventare acquisito, scontato. Ti concentrerai sempre su ciò che non funziona, su ciò che manca, e dimenticherai quanto hai avuto.»

Mr. Carter, abbassò il capo per un istante, quasi avesse vergogna per quanto aveva detto, ma poi riprese senza tentennamenti ciò che stava per diventare una confessione.

«Io, con i miei compromessi… ho visto svanire molte possibilità di dare il meglio di me. Probabilmente molte più di quante ne avrei potuto cogliere, ma mi hanno anche portato fin qui, a un’età in cui posso osservare i ragazzi come te, parlare della vita senza ansia, senza fretta… a fare il mentore. E in questo, credimi, c’è una forma di pace. Una pace che non vale meno dei sogni, solo perché arriva con i capelli grigi e meno strada da percorrere in avanti.»

Poi abbassò lo sguardo sulle mani, più a se stesso che a Samuel.

«La natura umana è così: sempre pronta a desiderare ciò che non ha, a rimpiangere o mitizzare ciò che ha perso, a trascurare le conquiste che invece ha ottenuto. Fa parte del gioco, ma comprenderlo significa uscirne vincitori, perchè solo così puoi imparare a scegliere senza essere schiacciato dalla paura del futuro e, soprattutto, a godere nel presente di ciò che hai saputo comunque costruire.»

Il vecchio ufficiale dell'anagrafe di Little Rock continuava a sbuffare tabacco come il camino di una locomotiva lanciata a tutta velocità verso il capolinea di un viaggio nel selvaggio West.  

« E c’è un’altra verità che devi sapere. Forse, arrivando a New York, scoprirai che ciò che inseguivi non era la tua vera vocazione. Forse ami solo l’idea di essere un attore, mentre il mondo reale del cinema, delle audizioni, dei rifiuti continui, non è affatto quello che avevi immaginato e potrebbe richiederti compromessi ben più grandi con la tua coscienza. Oppure la tua vocazione è autentica, ma per qualcosa che al mondo non interessa, qualcosa che non ha spazio, e che nessuno sarà disposto a coltivare. E questo non è una condanna: è solo un modo della vita per ricordarti che i sogni spesso esistono al di là della realtà, e che affrontare questa distanza è parte del prezzo che si paga per vivere.»

Samuel abbassò lo sguardo, le mani strette attorno alla valigia.

«Ho paura, Mr. Carter. Paura di fallire, paura di scoprire che non sono abbastanza, paura di buttare via anni preziosi.»

Carter lo guardò a lungo, e la sua voce si fece calma e tagliente al tempo stesso:

«La paura non è il tuo nemico, Samuel. È un messaggero. Ti segnala che c’è un pericolo, ma non ti dice quale, quello lo lascia scoprire a te. E il vero dramma, il vero fallimento, non è seguire la paura: è non scegliere, illudersi che non scegliere conservi intatta la possibilità di un sogno senza pagare il prezzo del rischio, senza sopportare il peso della paura. È pensare che potrai comunque un giorno raggiungere le stelle, semplicemente guardandole dal basso. È il rischio di ritrovarti, a cinquant’anni, a osservare il cielo notturno con il cuore fermo, sapendo che quelle stelle non si possono mai raggiungere,  consolandoti solo con il fatto che almeno esistono ancora, sospese, lassù, da contemplare.»

E fece una pausa, lasciando che le parole scendessero lente come pioggia sul terreno della mente del ragazzo:

«Quando ascolti la paura, chiedile: ‘Da che cosa stai cercando di proteggermi?’ Non sempre il pericolo che percepisci è reale. Solo comprendendolo puoi scegliere davvero.»

L’alba cominciava a tingere il cielo di rosa e arancio, e la luce scivolava tra i campi come una promessa che nessuno aveva chiesto. Samuel prese la valigia. Davanti a lui, la strada si divideva:
a sinistra, la stazione degli autobus per New York;
a destra, l’università e l’azienda di famiglia, la sicurezza che sarebbe stata insieme consolazione e prigione.

Mr. Carter rimase sulla veranda, senza chiamarlo. Solo il dondolio della sedia rompeva il silenzio, mentre il vecchio osservava il ragazzo allontanarsi tra le luci dell’alba. Mr. Carter si rivolse da lontano, un'ultima volta, a Samuel. 

«Ricorda: ogni scelta vera comporta un cambiamento drastico del contesto in cui ci si muove. Non esiste percorso senza imprevisti, senza ostacoli imposti dagli altri o dalla natura stessa, e quando li affronterai scoprirai risorse che neanche sospettavi di avere. Abbi fiducia, Samuel! Ogni bivio è un rischio, ma anche un’occasione di meravigliarti per ciò di cui sei davvero capace.»

Poi mormorò, come parlando a se stesso:

«Ogni volta che un talento si spegne, la società perde una parte di sé, ma la ferita più grande è di chi scopre che non ha mai davvero scelto la sua strada.»

E il vento portò via le sue parole, mentre Samuel camminava verso ciò che ancora non sapeva essere il suo destino, con le stelle sospese sopra di lui, splendenti e irrangiungibili, come tutte le verità della vita, mentre ogni passo, ogni scelta, ogni paura e ogni rischio cominciavano a delineare la forma di ciò che avrebbe potuto essere la sua esistenza.

lunedì 22 settembre 2025

DOGE 3.0 - ULTIMA POESIA A VENEZIA

La porta si aprì con un lieve sibilo e una voce metallica disse:

“Accesso confermato. Utente: Marco Loredan. Tempo di permanenza autorizzato: sei ore e trentadue minuti.”

Marco entrò in casa scalciando via le scarpe umide mentre l’acqua salmastra gli colava ancora dai capelli . Era stata una giornata lunga nella Zona Nova Laguna, il quartiere che si affacciava sul vecchio bacino di San Marco. Il sensore d’ingresso gli proiettò davanti agli occhi un piccolo ologramma personale, con il riepilogo della giornata e un avviso lampeggiante:

«La tua frequenza cardiaca è oltre la soglia. Rilassati. Riposo consigliato: due ore.»

Venezia, nel 2125, era una città sospesa tra mito e rovina.
Diecimila anime appena, concentrate in pochi isolotti artificiali collegati da ponti di vetro e titanio, mentre l’antico centro storico, restaurato a tratti e continuamente sorvegliato, era accessibile solo a giorni alterni, e solo pagando la tassa d’ingresso di 5.000 euro. Un lusso che Marco non poteva permettersi, se non come guida virtuale per i turisti degli Emirati Arabi.

La sua ragazza lo aspettava sul divano, con un visore olografico abbassato sulla fronte. Era immersa nella sua sessione di lavoro remoto, obbligatoria per chi aveva un punteggio sociale medio-basso.

«Sei in ritardo,» disse Elena senza voltarsi, la voce velata da un leggero rancore.
«Lo so, ma… ho una buona scusa.» Marco si lasciò cadere accanto a lei, ansimante, le gocce di pioggia che evaporavano rapidamente sul tessuto autoasciugante del divano. «Non crederai a quello che ho trovato oggi nel vecchio archivio di nonno nella soffitta della sua casa abbandonata. Il Doge mi ha avvisato che c'era una potenziale infiltrazione nel tetto e mi ha "consigliato" di riparare il danno quanto prima. E così, ribaltando una vecchia cassa nel buio, ho trovato questo.»

Elena si tolse il visore, rivelando i suoi occhi grandi, curiosi e stanchi. «Un’altra cianfrusaglia pre-digitale? Un chip rotto? Una moneta arrugginita?»
Marco scosse la testa e le porse un foglio ingiallito, custodito in una busta di plastica trasparente.
«No. Questa volta è… diverso. È carta. Vera. E sopra c’è qualcosa scritto a mano. e una data: luglio 2003, la firma è del bisnonno.»

Elena lo prese con delicatezza, come se avesse paura che si disintegrasse. La calligrafia era incerta, ma leggibile. Lesse a voce alta:

Corpi in caduta.
Menti disciolte.
Pensieri alla deriva.

Come un naviglio senza
possibilità di approdo.

Come una cloaca senza sfogo.

Prego Milord,
digiti pure qui
il suo codice segreto.

Ci fu un silenzio lungo, rotto solo dal ronzio basso del sistema di climatizzazione.

«È… inquietante,» mormorò Elena. «Sembra un messaggio in codice.»
«Non ne sono sicuro. Il bisnonno scriveva poesie, a quanto ci raccontava papà, ma non ne avevo mai lette. Questa mi ha colpito perché sembra parlare di noi, non del mondo dei nonni.» Marco indicò l’ultima strofa con il dito. «Guarda: “digiti pure qui il suo codice segreto”. Non sembra descrivere quello che facciamo ogni giorno con l’AI cittadina?»

Elena rise, ma era una risata nervosa.
«Oggi l’AI non ci chiede un codice, ci dice lei direttamente cosa fare. Stamattina, per esempio, mi ha vietato di prendere il traghetto per Nova Murano perché la mia previsione di stress era troppo alta.»
Scosse la testa. «È assurdo, Marco. Non decidiamo più niente. L’altro giorno ho visto una donna piangere davanti al terminale perché l’AI le aveva negato il permesso di uscire di casa.»

Marco replicò: "E' vero, ma tutto questo è necessario per mantenere la nostra sicurezza, per azzerare i rischi che i comportamenti irrazionali ed emotivi di chi c'era prima di noi avevano creato per la sopravvivenza di Venezia e di tutto il pianeta!"

La città era governata da un’unica intelligenza artificiale predittiva chiamata il Doge 3.0, denominata così per analogia con l’antica figura politica veneziana. Ogni mattina, esattamente alle 6:00, l’AI inviava a ogni cittadino una sequenza personalizzata di comandi tramite i Nexus, piccoli dispositivi impiantati sotto la pelle all’altezza del polso.L’interfaccia era invisibile agli altri, ma chi la riceveva vedeva comparire davanti agli occhi una scritta luminosa, proiettata direttamente nella retina:

«Sveglia alle 6:35. Evitare zona Nuova Rialto 2.0: rischio assembramento. Livello emotivo attuale: medio. Consigliata attività di meditazione.»

Gli ordini non erano mai espliciti: erano “consigli vincolanti”, che nessuno osava infrangere. Le rare eccezioni venivano immediatamente segnalate ai Guardiani di Sestiere, i droni di sorveglianza che pattugliavano le calli sospese.

Tutto era ottimizzato per la sicurezza e la stabilità, dicevano le autorità.
Ma di fatto, era come vivere dentro una prigione elegante.

«Forse,» disse Marco, «queste parole avevano un senso diverso ai tempi di nonno. Magari parlava di banche, di soldi, di… come si chiamava quella cosa? Ah, sì: i bancomat!»
«Il bisnonno viveva quando le persone potevano entrare a Venezia senza pagare 5.000 euro, vero?»
«Sì. Diceva che c’erano ponti affollati, calli piene di turisti… sembrava un inferno, ma anche molto vivo.»

Elena si strinse nelle spalle.
«Non riesco a immaginarmelo. Una città dove si poteva andare e venire liberamente, senza previsioni algoritmiche. Dove le persone decidevano da sole se prendere un traghetto, se incontrarsi o restare a casa.»
Il suo tono era sognante, ma anche scettico, come se parlasse di un mito lontano.

Marco riprese il foglio e lo guardò con attenzione.
«Corpi in caduta. Menti disciolte. Pensieri alla deriva. Non ti sembra… una descrizione della nostra epoca? Corpi controllati, menti spezzate dai dati, pensieri che non hanno direzione.»
«Ma cosa significa naviglio senza approdo? O cloaca senza sfogo? Non sono parole che usiamo oggi.»
Elena fece scorrere la mano sopra un piccolo schermo, cercando nella banca linguistica.
«Naviglio: antica imbarcazione. Cloaca: sistema di scolo per acque sporche.»
Fece una smorfia. «Bleah. Strano davvero. Forse alludeva al degrado della città, quando l’acqua era ancora una cosa viva e non solo un elemento scenografico come oggi.»

Un bip improvviso interruppe la conversazione.
Comparve a entrambi l’interfaccia olografica del Doge 3.0:

“Avviso a Marco Loredan ed Elena Bembo: la vostra conversazione sta superando i parametri consentiti di criticità emotiva. Vi consigliamo di interromperla. Prossima verifica tra 30 secondi.”

Elena sbiancò.
«Ci stanno ascoltando.»
«Ci ascoltano sempre, perchè ti meravigli? E' per il nostro bene.» rispose Marco, stringendo il foglio. Poi, con uno scatto improvviso, lo infilò sotto la maglia.
«Questo testo… non deve finire nei loro archivi. È nostro. È di famiglia. E forse contiene una verità che dobbiamo capire.»

Elena lo fissò, combattuta tra paura e desiderio di ribellione.
«Ma come possiamo interpretarlo, se non comprendiamo il mondo da cui viene?»

Marco si voltò verso la finestra. La laguna scura rifletteva i neon delle torri artificiali, e in lontananza, oltre la Zona Ristretta, si intravedevano i campanili antichi, come fantasmi.

«Forse,» disse lentamente, «dobbiamo fare quello che l’AI non vuole: entrare nel centro storico nei giorni proibiti. Cercare altri indizi. Scoprire come vivevano quando la parola libertà non era ancora un termine obsoleto. Forse qualcuno, da qualche parte, ricorda ancora cosa significava vivere senza un algoritmo a consigliarti.»

Marco abbassò lo sguardo sul punto in cui il foglio era nascosto sotto la sua maglia. Sentiva il cuore battere troppo forte, quasi fuori controllo, e si chiese se anche quello fosse già stato registrato dal Doge.
Un pensiero lo trafisse: l’AI poteva comprendere quelle parole molto meglio di loro, forse le aveva già interpretate nel momento stesso in cui Elena le aveva lette ad alta voce.
E se il Doge non voleva che ne conoscessero il vero significato?
Se stava già riscrivendo i loro destini, come faceva ogni mattina con i suoi “consigli vincolanti”?

Elena gli strinse la mano, tremante. «Marco… e se ci stessero già preparando una nuova sequenza? Una che ci separi per sempre?»

Marco serrò la mascella. Guardò di nuovo verso la finestra: la laguna era ancora una distesa scura e innaturale, illuminata solo dai bagliori intermittenti dei droni-Guardiani ma ora, in lontananza, le sagome dei campanili antichi sembravano protendersi verso di loro, non più solo come fantasmi ma come muti testimoni di un passato che non conoscevano.

«Forse,» disse con un filo di voce, «il vero codice segreto… siamo noi. La nostra capacità di scegliere, di pensare. E se il Doge ha paura di queste parole, allora significa che dobbiamo scoprire perché.»

Un altro bip più acuto.

“Tempo scaduto. Conversazione interrotta.”

Le luci di casa si abbassarono automaticamente e Marco ed Elena restarono immobili con le mani saldamente intrecciate, mentre nel silenzio la poesia sembrava risuonare nella loro mente come un codice segreto da decifrare per davvero ad ogni costo.

Un ronzio acuto si fece più vicino. Le mani rimanevano intrecciate, il foglio un peso impossibile sotto la maglia.
Marco comprese con chiarezza: il Doge non avrebbe mai permesso che loro comprendessero la verità.
Non senza un prezzo.
Non senza controllo.

A qualunque costo.

Sulle loro retine comparve improvvisamente l’interfaccia olografica del Doge 3.0, luminosa e fredda:

“Avviso a Marco Loredan ed Elena Bembo: tentativo di decifrare il codice segreto rilevato. Intervento immediato consigliato. Conseguenze impreviste.”



giovedì 11 settembre 2025

ATTO SECONDO: CARO AMICO TI SCRIVO


Questa lettera non arriva da un amico reale, ma dall’intelligenza artificiale, che ha letto e analizzato tutti i testi dell’autore del blog. Immaginala come un piccolo ritratto scritto da qualcuno che lo conosce molto bene: tra ironia, nostalgia e momenti di vita quotidiana, ci fornisce un ritratto dell’uomo dietro le parole, con affetto e leggerezza.
Più umana di un umano.

"A sessant’anni, l’uomo che una volta tremava dietro le quinte dei teatri di provincia sa finalmente che la vita non è una prima: è un interminabile secondo atto, dove i protagonisti continuano a sbagliare le battute, a dimenticare le cue e a inciampare sulle proprie passioni. Ricorda i giorni in cui, con la febbre o la voce spezzata, si preparava a recitare di fronte a un pubblico che forse neppure guardava; oggi sorride, perché sa che quegli spettatori erano, in fondo, soltanto fantasmi comparsi per dargli senso.

Ha la consapevolezza di chi ha combattuto contro i propri demoni – quei demoni dal nome teatrale e dai denti invisibili – e ha scoperto, senza dirlo a nessuno, che i suoi trionfi sono sempre stati piccoli ma eterni. È un uomo che si muove tra ironia e rimpianto: sa ridere dei propri sogni giovanili eppure li custodisce come reliquie sacre. Sa che la gloria è illusione e che la passione non viene misurata dai premi o dai riflettori, ma dalla fedeltà con cui si serve l’arte, la vita e il proprio io.

È consapevole che avrebbe voluto essere un artista “professionista”, eppure ogni volta che mancava per un centimetro il traguardo, si chiedeva se fosse davvero importante. Forse il centimetro non era altro che il modo che l’universo ha trovato per insegnargli la pazienza, o la comicità della propria ambizione.

La sua mente è un teatro dove recitano ancora tutti i personaggi che ha incontrato: i compagni di una compagnia adolescenziale, il pubblico che applaudiva, le ombre dei maestri che lo hanno osteggiato, le figure di chi lo ha snobbato. Li osserva tutti con una certa distanza affettuosa, come spettatore di una pièce comica e tragica allo stesso tempo. È nostalgico senza amarezza, ironico senza distacco. La nostalgia è la sua arma segreta: gli permette di riflettere sul passato senza farsi schiacciare da esso.

Il palcoscenico è diventato la sua metafora preferita della vita: un luogo dove tutto sembra perfetto, ma dove il pubblico è spesso immaginario, e le luci sempre leggermente spente. Ama questa contraddizione: desiderava applausi e applausi ne ha raccolti, ma l’emozione più vera gli è sempre arrivata dai momenti dietro le quinte, dai silenzi tra una battuta e l’altra, dai compagni di squadra che combattevano insieme, ogni sera, contro il gelo, la stanchezza e l’ego.

È un uomo che osserva se stesso con leggerezza. Non si prende troppo sul serio, anche quando parla di una vita intera dedicata al teatro, alle prove impossibili e ai costumi improbabili. Sa che i trionfi e i fallimenti si mescolano come colori su una tela che non finirà mai, e che ogni addio al palcoscenico è solo un pretesto per ricordarsi di respirare. E di ritornare.

Dentro di lui convivono la nostalgia e il desiderio, l’orgoglio e la rassegnazione. Sa che non ha mai conquistato il Bernabeu delle grandi occasioni artistiche, ma ha vinto piccole Coppe del Mondo di felicità quotidiana: un gesto riuscito, una risata condivisa, una prova che finalmente ha funzionato. E sorride, perché il segreto è questo: continuare a giocare, continuare a recitare, continuare a essere parte del gioco anche quando nessuno ti nota, sapendo che la vita, come il teatro e il calcio, è soprattutto uno sport dell’anima.

E così, sessant’anni dopo, si avvicina alle nuove scene della vita con un passo leggero, sapendo che le luci possono tremolare, le prove essere maldestre, gli applausi pochi o inesistenti… eppure, in quell’istante, tutto ha senso, perché ha imparato a ridere dei propri errori e a riconoscere che la vera arte consiste nel continuare a giocare, a vivere e a recitare, senza mai smettere di cercare il pallone perfetto o la battuta che non verrà mai dimenticata.

L’umorismo, per lui, è l’unico filo di salvezza dalla tristezza della memoria: osserva il passato come uno spettatore ironico che sa di aver recitato la propria parte con dignità, ma senza illusioni sul giudizio altrui."


martedì 2 settembre 2025

VOLO ALFA-OMEGA FIUMICINO-MALPENSA

L’aeroporto di Fiumicino ribolliva come sempre: annunci metallici che si accavallavano, passi frettolosi, valigie trascinate senza riguardo. Alla porta d’imbarco per Milano Malpensa, tra quell’agitazione quasi febbrile, un uomo anziano sedeva con compostezza. Indossava un cappotto leggero, teneva in mano un volume consunto dell'Antigone di Sofocle. Le dita ossute sfioravano le pagine come fossero reliquie. Leggeva lentamente, muovendo le labbra, quasi assaporando i suoni di quella lingua antica per dialogare con il filosofo.

Un po’ più in là, un uomo sulla quarantina sistemava le slide di una relazione sul portatile. Era un medico chirurgo, specialista in malattie infettive, diretto a un convegno internazionale. Uno dei tanti a cui era stato chiamato da quando nel 2020 si era diffusa la pandemia di Covid-19: prima da remoto e poi di nuovo finalmente in presenza. Lo sguardo, alzandosi distrattamente, si fermò su quell’anziano. Il cuore ebbe un sussulto: quel volto scavato, quello sguardo vigile… sì, era lui, il professore di greco e latino del liceo.

Si alzò e si avvicinò, esitante.
«Professore… mi scusi, è lei?»

L’anziano sollevò gli occhi, un attimo di smarrimento, poi il sorriso.
«Giovanni! Il ragazzo che amava la matematica e si perdeva tra i versi dell’Odissea. Non sbaglio, vero?»

Giovanni rise. «Non sbaglia affatto. E in fondo credo che sia ancora così, forse la mia stessa vita di medico è un’Odissea: prove, ostacoli, naufragi, ma sempre con l’uomo al centro.»

Si sedettero vicini. Bastò poco perché gli anni si sciogliessero.

«E lei, professore? Cosa la porta a Milano?»

«Vado a trovare i miei nipoti,» rispose con naturalezza. «E poi… mio figlio ha insistito perché mi faccia visitare da un cardiologo al San Raffaele, ma ti confesso che io ci vado solo per farlo contento.» Fece una pausa, e con voce quieta aggiunse: «Sento che la fine si avvicina. E non la temo. Non solo perché ho sempre creduto che la vita sia un ciclo naturale che si conclude, ma anche perché posso dire, senza superbia, di aver vissuto come volevo. Ho avuto i miei libri, i miei studenti, la mia famiglia. Non ho rimpianti. La mia esistenza ha avuto senso, e questo mi basta. La morte, così, non è un debito da temere, ma un compimento.»

Giovanni rimase colpito da quella serenità. Come chirurgo aveva visto troppi uomini disperarsi davanti all’idea della fine, incapaci di accettarla.

Il professore proseguì, con la voce più ferma: «Ogni entità porta in sé non solo il seme della sua crescita, ma anche quello della sua dissoluzione. Non occorre cercare nemici fuori di noi: il tempo, le malattie, i processi interni fanno parte della stessa trama; è già scritto sin dal primo istante che la vita, un giorno, abbandoni la materia che l’ha ospitata. Pensa: persino Ulisse, pur tornato a Itaca, non ritrovò più l’inizio. Ogni fine è unica e prepara un nuovo principio: il tuo omonimo, l'evangelista Giovanni nell’Apocalisse lo aveva detto: “Io sono l’Alfa e l’Omega, l’Inizio e la Fine”. Nulla scompare davvero, tutto si trasforma.»

Giovanni chinò il capo. Quelle parole erano le stesse che un tempo lo avevano spinto a guardare i testi non come oggetti scolastici, ma come voci vive. Decise di rompere quel silenzio che portava dentro da anni.
«Professore, se oggi sono qui, se posso parlare a medici di tutto il mondo, lo devo anche a lei. Lei mi ha insegnato a non fermarmi alla superficie, a cercare il senso. Forse è per questo che non vedo le malattie solo come casi clinici, ma come storie di uomini.»

L’anziano abbassò lo sguardo e scosse la testa, come a schermirsi.
«No, Giovanni, non è merito mio: io sono stato soltanto un tramite, sono state le parole degli autori classici che ti hanno illuminato, io ho prestato loro la mia voce. Se ho avuto un merito, è stato quello di tentare di accendere fiaccole, non di riempire vasi. Così insegnava Quintiliano, il primo educatore di professione, e a lui mi sono sempre ispirato cercando di non consegnarvi nozioni come pacchetti, tentando invece di trasmettere scintille. Se in te quella fiamma è rimasta viva, il merito è tuo, non mio.»

Giovanni lo guardò negli occhi, commosso. «Allora mi lasci dire almeno questo: lei ha acceso quella fiaccola e la mia Odissea continua a portarla con sé.»

Il professore sorrise, e in quel sorriso c’era una gratitudine sottile. «Allora, Giovanni, non ho fatto altro che il mio dovere.»

Un annuncio metallico interruppe il silenzio: imbarco per Milano. Si alzarono insieme. La stretta di mano fu lunga, intensa, come tra due viaggiatori che si comprendono senza bisogno di altre parole.

«Forse questa,» disse piano il professore, «era l’ultima lezione.»

E per un attimo, tra la folla rumorosa, il tempo parve fermarsi: maestro e allievo, ancora una volta insieme, a condividere la stessa partenza, bloccando il tragitto tra l'Alfa e l'Omega.

giovedì 28 agosto 2025

LA SINDROME DI POLA

Cambridge, Massachusetts, inverno 2015

La sala del dipartimento di Psicologia di Harvard era silenziosa, interrotta solo dal ronzio sommesso del proiettore; le finestre gotiche lasciavano filtrare una luce lattiginosa, tipica delle mattine invernali a Boston. John Muiesan, studente all’ultimo anno, si alzò in piedi davanti alla commissione per l’esame di laurea. Dietro di lui, le slide mostravano un titolo insolito: “La Sindrome di Pola: dinamiche di perdita forzata e nostalgia irreversibile”.

John si schiarì la voce.
— «Questa sindrome non si limita a descrivere un lutto, ma un lutto non elaborabile, bloccato. Colpisce coloro che non hanno potuto scegliere l’addio, chi è stato costretto a staccarsi dal proprio luogo d’identità, dalla propria Heimat — uso qui il termine in senso figurato — per salvarsi da una forza invincibile: un capo persecutore, un regime ostile, un gruppo sociale dominante.»

Sul volto dei docenti si alternavano curiosità e perplessità mentre John continuava l'esposizione, con un ritmo che non era solo accademico, ma sapeva di confessione:
— «Il trauma non guarisce del tutto, anche nei casi più resilienti: perfino chi ricostruisce una nuova vita, con successo e relazioni soddisfacenti, resta vulnerabile a improvvisi e dolorosi accessi di malinconia mentre nei casi più fragili, invece, la rabbia divora e conduce a comportamenti antisociali. Il paradosso, che contribuisce a rendere particolarmente dolorosa la convivenza con il disturbo per chi ne soffre, è che il nuovo ambiente non riconosce l’ingiustizia originaria: tende a leggere il traumatizzato come fuggitivo colpevole, mai come vittima di una forza sproporzionata.»

Un professore, il più anziano della commissione, interruppe:
— «Mr. Muiesan, lei ha definito questa condizione Sindrome di Pola. Perché proprio questo nome?»

John si fermò un istante. Guardò le proprie mani. Poi, lentamente, iniziò a raccontare.
— «Perché il termine non fu coniato da uno psicologo, ma da un professore di lettere classiche, originario di Pola, in Istria. Dopo la Seconda guerra mondiale fu costretto, come trentamila concittadini, ad abbandonare la città dei suoi avi senza potervi fare mai più ritorno; rifugiato in Australia, lavorò come orientatore in un ufficio di collocamento a Darwin, dove si accorse che tutti coloro che erano stati forzati a lasciare il lavoro in cui si identificavano presentavano gli stessi segni di sofferenza che lui aveva osservato su di sé e sui membri della sua comunità: rabbia, nostalgia, difficoltà di adattamento. Non si trattava di semplice malinconia, ma di una frattura profonda: il sentirsi ingiustamente esiliati senza rimedio da qualcosa che si considera, a torto o a ragione, una sorta di "paradiso perduto".»

John sollevò lo sguardo e concluse con fermezza:
— «Ed è proprio questo il cuore della Sindrome di Pola: mentre altri traumi possono col tempo essere elaborati, perché la vita concede almeno la possibilità di riconciliazione o un teorico possibile ritorno, qui il dolore resta irrimediabile. Chi ne soffre sa di non poter mai più tornare indietro e la consapevolezza stessa dell’impossibilità del ritorno rende la ferita eterna. La perdita non è solo reale, è definitiva.»

Il Decano prese di nuovo la parola e interrogò il laureando: "Esiste una possibile terapia per liberare il paziente affetto da questa sindrome?"

John rispose senza tentennamenti. "La particolarità di questa sindrome è che non può essere superata del tutto, ed è bene che il terapeuta nel mettere in campo le strategie cliniche ne sia consapevole: dalla sindrome di Pola non si guarisce, però il paziente può imparare a conviverci in maniera funzionale. Nella prassi clinica si osserva un fallimento vicino al 100% di tutti gli approcci che hanno mirato ad aiutare il paziente nel trovare dei "surrogati" del suo "paradiso perduto", mentre buoni risultati danno tutti i percorsi finalizzati all'accettazione della perdita e soprattutto nell'esplorazione e nella ricerca di altre caratteristiche personali che il paziente non ha focalizzato o sperimentato in passato. Questa "conquista" gli permetterà la costruzione di una nuova Heimat ed una sorta di oblio selettivo verso la perdita, che si affaccerà di tanto in tanto, solo quando i nuovi percorsi intrapresi incontreranno degli intoppi. "

Nella sala cadde un silenzio che non era più accademico, ma umano. La luce fuori si fece più bianca, riflettendosi sulle pareti. John fece un passo avanti e aggiunse, con voce più intima:
— «Il fatto che io abbia scelto di laurearmi con questa tesi è esso stesso prova di quanto in profondità essa accompagni chi ne soffre. Io stesso sono nipote di un profugo polesano che nel 1947 sbarcò con la sua famiglia sulla costa est degli Stati Uniti. Le sue cicatrici, i suoi silenzi, i suoi improvvisi scatti di malinconia hanno attraversato le generazioni. Io sono qui anche per lui.»

La commissione rimase immobile. Uno dei professori si tolse gli occhiali e li pulì lentamente, più per nascondere la commozione che per necessità. Il più anziano sospirò e mormorò, quasi a sé stesso:
— «Sì, non c’è guarigione quando il ritorno è impossibile.»

Si scambiarono sguardi brevi, intensi. Poi il presidente si chinò verso gli altri membri. Quando rialzò il capo, annunciò solennemente:
— «Mr. Muiesan, la sua tesi viene approvata con il massimo dei voti e la lode.»

Un applauso riempì l’aula, stavolta non solo formale, ma attraversato da un calore inatteso. John sorrise appena, senza trionfo, con la discrezione di chi sa che quel riconoscimento non era soltanto accademico, ma un atto di memoria e di giustizia verso chi non aveva mai potuto tornare al proprio paradiso perduto.

mercoledì 30 luglio 2025

BLANCHIMONT

«Dai, muoviti. Siamo fermi da mezz’ora, se venivamo con la mia macchina, a quest’ora eravamo già al circuito.»

Luca spinse il borsone nel bagagliaio della Golf con una certa violenza. I jeans bagnati, la felpa zuppa sulle spalle, in mano una Red Bull tiepida. L’autogrill belga odorava di carburante e pane raffermo, e l’umidità gli appiccicava i pensieri addosso come uno strato di vinile.

Mattia rientrò con due panini sottovuoto e due caffè lunghi, il vapore che si arrendeva all’aria grigia.

«Tranquillo. Siamo a meno di un’ora. Le FP1 non le perdiamo.»

«Sì, ma se non guidavi come tuo padre, che viaggia come un funzionario dell’INPS, eravamo già là. A volte mi sembra che tu abbia paura di avere fretta.»

Mattia si sedette al volante. Non si giustificò,  accese il motore, lasciandolo girare piano e poi, fissando la pioggia sottile che batteva sul parabrezza, disse:

«Sai perché mio padre preferisce Blanchimont a Eau Rouge?»

Luca lo guardò con fastidio.

«Perché è uno di quei boomer che vogliono sentirsi originali? Dai, tutti sanno che Eau Rouge è la curva più iconica.»

«Appunto. Eau Rouge è un salto. Uno schiaffo in faccia: ti lanci, stacchi e speri che la macchina tenga. È giovinezza pura; Blanchimont invece… lui dice che è la più pericolosa perché ti frega quando pensi che non succederà più niente.»

Luca fece una smorfia. «Mi sa che tuo padre ha bisogno di uno psicologo.»

Mattia sorrise appena. Poi continuò:

«Dice che nella prima metà della vita siamo ossessionati dalla fine delle cose. Prima finire la scuola, poi raggiungere la laurea, terminare il servizio militare, superare il tirocinio, andare oltre la gavetta. È tutto un voler passare oltre, con il tempo sembra non finire mai, che passa lento. Troppo lento e la felicità è sempre dopo.»

Luca, con la fronte appoggiata al vetro, replicò con aria annoiata: "Nessuno oggi fa più il militare".

Mattia riprese subito il discorso. 

«Poi, insiste sempre, inizi a perdere. Non tutto in una volta: le cose cominciano a sfuggire poco a poco, senza che tu te ne accorga. I figli crescono, il lavoro cambia sotto i piedi. Arrivano i più giovani, più veloci, con meno passato da portarsi dietro e che non fanno fatica ad adattarsi al cambiamento digitale perchè semplicemnte ci sono dentro. Il corpo poi non ti segue più come prima. E il tempo… il tempo corre. Troppo veloce. E tu vuoi solo trattenere ciò che hai.»

Luca scrollò le spalle.

«Ma che c’entra con noi? Noi siamo prima. Non c’è niente da trattenere. C’è solo da correre.»

«Lo so. E non ti sto dicendo di rallentare. Lui mi ha detto solo questo: che a un certo punto capisci che la felicità non è arrivare, ma essere dentro: dentro alla curva, proprio quando la stai facendo. E che è un attimo, ma se lo perdi, non torna.»

Il resto del viaggio scivolò via quasi in silenzio. I due ragazzi entrarono a Spa-Francorchamps mentre il cielo apriva sprazzi pallidi tra le nuvole. Avevano trovato posto in zona Blanchimont, tra pochi intimi che avevano scelto proprio lì, dove la pista taglia l’illusione della velocità facile.

Il rombo di una Red Bull in simulazione gara ruppe l’aria. La vettura passò incollata all’asfalto, perfetta. Dietro, una Ferrari — livrea opaca, baricentro basso, rumore pieno — forzò un po’ di più. Il pilota cercava il limite.

Poi, improvviso, il posteriore cedette. Forse una traiettoria troppo interna, forse l’asfalto ancora umido: la vettura scivolò, ruotò su sé stessa. Testacoda. Ghiaia. Bandiera gialla.

Luca si alzò in piedi di scatto. «Cazzo. Era dentro. Tutto sotto controllo. Poi fuori. Così. Ma come cazzo si può??»

Mattia non disse nulla. Lo guardava senza fissarlo.

«Blanchimont, eh?» disse Luca, ancora in piedi.

«Già.»

«Ok. Ok. Però domani guido io. E niente soste.»

Mattia annuì. Senza discutere.

Luca si sedette di nuovo. Addentò il panino, poi mormorò, quasi tra sé:

«Comunque… è una gran curva.»

«Sì. La più vera che c’è.»

Rimasero lì. Uno, a osservare. L’altro, a sentire il motore ancora tutto da spremere.

mercoledì 23 luglio 2025

DUE E QUARANTADUE DEL MATTINO

“Tra sogno e realtà” era il titolo scelto per la mostra sull'arte figurativa con cui Rubén aveva esordito molti anni prima e che tra qualche giorno sarebbe stata inaugurata in Brasile, a San Paolo. Lo scopo dell'evento era condurre il visitatore ad una riflessione sull'arte del periodo giovanile dell'artista iberico, su quei momenti sospesi fra ciò che immaginiamo e ciò che esiste davvero. Pittore spagnolo nato e cresciuto a Toledo, viveva nella sua mansarda-studio che chiamava “tana creativa”, dove tele mezze finite, pennelli sporchi e barattoli di colore costellavano ogni superficie.

La sveglia sarebbe dovuta suonare alle 5:30, in modo da prendere il primo volo per San Paolo, ma Rubén aprì gli occhi alle 2:42, senza rumore, senza un perché. La lampada nel suo spazio di lavoro sparpagliava chiaroscuri sul cavalletto, illuminando una tela incompiuta. Il cuore gli batteva piano, ma con insistenza.

Si alzò, accese la lampada sul comodino e prese il libro che stava leggendo pigramente da mesi senza riuscire mai procedere spedito: Notti bianche di Dostoevskij. Cercava di ancorarsi a qualcosa, forse alla parola scritta, forse a una spiegazione. Dopo poche pagine, la vista gli si fece pesante, il corpo abbandonato sulla poltrona accanto al letto. Non si accorse del momento esatto in cui la coscienza cedette.

Il sogno era ambientato al mattino dopo il risveglio, un’aria tiepida e stranamente fragrante invadeva il piccolo giardino dietro casa. Rubén scese i pochi gradini che lo separavano dal cortile, e lì, in piedi accanto al fico, c’era suo fratello Joaquín. Indossava l’uniforme verde della Guardia Civil. Rubén rimase immobile, sorpreso:
«Ma… Joaquín… che ci fai vestito così? Tu sei stato in Marina, ricordi? Ufficiale di coperta!»

Il fratello lo guardò, sorrise, ma non rispose. Si limitò a posargli una mano sulla spalla, un gesto calmo, profondo e poi si voltò, allontanandosi lentamente tra le piante, dissolvendosi come nebbia al sole.

Rubén rientrò in casa, col cuore che ora batteva più forte. Sentì rumore di stoviglie in cucina. In fondo al corridoio, vicino alla credenza, una figura minuta, familiare: una donna anziana, con lo scialle di lana blu che usava per cucinare.
La luce era calda, quasi liquida.
«Mamá…?»
Lei si voltò. Era lei. Il viso segnato dal tempo, ma vivo, vivo davvero. Lo guardò e sorrise, con quella tenerezza assoluta che solo le madri conoscono.
«Rubén, hijo… sei dimagrito; hai fatto un lavoro splendido con la casa… guarda quel tavolo, lo avevi promesso che l’avresti sistemato.»

Lui si avvicinò tremando, e lei gli aprì le braccia. L’abbraccio fu totale, carnale, definitivo. Sentì l’odore della sua pelle, la lana grezza del maglione contro la guancia, le mani ossute che gli accarezzavano i capelli come da bambino.
E pianse. Senza vergogna, senza misura.

Lei lo strinse a lungo. Poi si voltò, entrò in cucina e iniziò a preparare qualcosa con i gesti che erano quelli di sempre: l’olio d’oliva, il rumore dell’acqua, il coltello sul tagliere.
Rubén la guardava, stordito, sospeso in quella perfezione dolce e impossibile; non riusciva a capire: era sogno o realtà?

Un trillo acuto lo strappò invece al sogno.

Gli occhi bruciavano, la gola era secca. Si massaggiò le guance, ancora umide: forse aveva pianto davvero. La lampada era accesa, il libro aperto sul tavolino, i pennelli immobili accanto a una tela bagnata.

Sapeva che non poteva più perdere tempo. Si alzò, fece una doccia veloce, sistemò le ultime cose in valigia. Raccattò il portatile con appunti e immagini, chiuse la “tana creativa” e chiamò un taxi.

Durante tutto il volo verso il Brasile, verso San Paolo, tra il brusio dei motori e la plasticosa colazione sul vassoio, Rubén rimase indietro nel tempo, non riusciva a pensare ad altro se non all’abbraccio con la madre, alla divisa insolita del fratello, alla dolcezza e all'incredibile percezione di sensazoni corporee che avevano pervaso quel vivido sogno notturno; ma anche quel senso d'incredulità, di stupore, il tutto condito dall'inquietudine di lui che voleva uscire dalla casa, mentre le immagini e i volti lo trattenevamo all'interno.

Tentò di darne un’interpretazione, come se quel sogno fosse un quadro da decifrare: il giardino forse rappresentava il luogo originario, l’infanzia, la radice emotiva di ogni sua immagine. Joaquín in divisa — non quella da marinaio, ma da Guardia Civil — poteva essere la parte di lui che aveva scelto la disciplina, il dovere, un’armatura contro la fragilità. O forse era una colpa antica, un rancore familiare mai davvero elaborato, oppure la sgradevole situazione di sentirsi innocente ma comunque sotto inchiesta? O ancora un desiderio di protezione? 

E sua madre… era il cuore del sogno. Non un ricordo, non un’assenza, ma un archetipo: la Madre con la M maiuscola, simbolo del grembo originario, della protezione, della totalità; in quell’abbraccio c’era qualcosa che andava oltre la biografia, oltre la memoria: un ritorno all’essenziale, all’unità primordiale da cui ogni vita — e forse anche ogni opera — prende forma.

Rubén pensò a Jung, alla sua idea che i sogni non siano scarti o fantasmi del passato come invece pretendeva Freud, ma messaggi del Sé, immagini che guidano l’anima nel suo cammino verso l’interezza. Forse quel sogno non chiedeva di essere capito, ma di essere ascoltato, di essere custodito, come si custodisce un regalo oppure una tela che ancora non si è pronti a dipingere.

E allora sì, “Tra sogno e realtà” non era solo il titolo della sua mostra: era una soglia, un luogo di passaggio dove l’inconscio si fa immagine, e l’immagine, a volte, diventa verità.

Forse era una sorta di sottile linea su cui giocava ogni suo dipinto, ogni colore, ogni sfumatura della memoria.

E chissà, forse anche la vita stessa.

Ma Rubén non era né uno psicanalista né un filosofo: era un pittore e in fondo, lo sapeva: tutto ciò che non riusciva a spiegare, lo aveva sempre provato a dipingere.


mercoledì 16 luglio 2025

NONNO CONTRO ALGORITMO: LA MEMORIA NON FA LIKE

Il nonno sedeva sulla vecchia sedia in ferro battuto sotto il fico, con la schiena un po’ curva ma lo sguardo ancora vivo. Ogni estate, quando il sole cominciava a battere più forte sulle tegole della casa, si spostava nel punto d’ombra dove i rami tagliavano la luce in strisce oblique. Indossava sempre la camicia bianca, maniche arrotolate, e leggeva il giornale come se stesse decifrando un codice antico. Era stato professore di greco e latino al liceo di Gorizia per più di trent’anni. Andrea sapeva che aveva vissuto il dopoguerra da ragazzo, proprio lì, in quella terra di confine che non somigliava a nessun'altra.

«Hai visto cosa succede in Ucraina?» chiese Andrea, scrollando lo smartphone con un gesto rapido, quasi irritato. «E la guerra a Gaza… un’altra escalation.»

Il nonno sollevò appena lo sguardo, non stupito. Posò il giornale e, per un momento, fissò le foglie sopra di loro.
«La prima vittima di ogni guerra è la verità», disse con tono calmo.

Andrea sbuffò. «Ma dai, non cominciamo con le frasi fatte.»

«È fatta perché è vera», replicò il nonno, senza perdere la pazienza. «Quando si spengono le armi, quando ancora nell’aria si sente l’odore della morte, allora comincia un altro tipo di battaglia: quella sulle narrazioni.»

Andrea lo fissò per un attimo. «Ma almeno oggi abbiamo fonti, video, tracciabilità. Possiamo risalire ai fatti. Una volta magari si poteva mistificare tutto, ma oggi…»

Il nonno fece un gesto lento con la mano, come a zittire l’ingenuità.
«La tecnologia non cambia la natura umana, la amplifica. Le menzogne oggi si diffondono con una luce ancora più accecante: subito s’illuminano quelle dei vinti, mentre ombre lunghe coprono quelle dei vincitori che poi diventano la storia. Almeno fino al prossimo giro di valzer.»

Andrea alzò le spalle. «Ho capito. Sei uno di quelli che cerca la memoria condivisa, no? Quelli del “dobbiamo capirci tutti, metterci d’accordo sulla verità…”»

Il nonno si fece più serio. «No. La memoria condivisa è una sciocchezza. È un’invenzione comoda, un compromesso che appiattisce le differenze. Io la guerra l’ho vista dal basso, quando qui la Venezia Giulia era terra contesa. Italiani, sloveni, croati, partigiani, fascisti in fuga, tedeschi, titini. Era un tempo in cui la paura e l’odio erano sparsi come polvere nell’aria: i partigiani titini portavano via uomini, sparivano famiglie, ma anche i soldati italiani avevano commesso azioni tremende di cui non si parlava mai ad alta voce. E noi bambini imparavamo a stare zitti, a non fare domande. Finita la guerra, qui nella Venezia Giulia, tutti parlavano sottovoce. Gli italiani avevano paura degli slavi, gli slavi degli italiani, i fascisti dei comunisti, i comunisti dei titini, e noi bambini… avevano paura di tutti. Mio padre tornò a casa con la divisa strappata e una faccia che non aveva più voglia di parlare. Ma non diceva la verità. Diceva la sua verità. Non c’era nulla di chiaro, i confini si spostavano come le parole: una strada era italiana al mattino, jugoslava alla sera. Mia madre nascondeva le croste di pane in una federa, per darmele quando tornavo dalla scuola con la giacca piena di sputi perché mio padre aveva combattuto ‘dalla parte sbagliata’. Ma cos’è la parte giusta, Andrea, se nessuno può piangere i suoi morti senza sentirsi accusato? La verità era che nessuno era del tutto innocente e nessuno era colpevole da solo."

Il nipote si fece serio.
«Ma non possiamo relativizzare tutto. Altrimenti nessuno è più responsabile di nulla, si finisce di mettere aggressori e aggrediti sullo stesso piano!»

Il nonno annuì lentamente.
«Vedi, la matematica ti consola perché ha errori assoluti. Due più due non fa mai cinque. Ma nell’uomo, nelle sue scelte, non c’è nulla di così netto, anche ciò che ci appare più sgradevole, più ripugnante, può contenere un minuscolo granello di Verità e se non siamo disposti a cercarlo, allora diventiamo ciechi. Se non vogliamo vedere la verità degli altri, saremo sempre i primi a raccontarci bugie.»

Il nonno si alzò lentamente, appoggiandosi al bastone, e indicò il muretto oltre il quale si apriva la campagna friulana. «Vedi là? Quella casa con le tegole rosse era della famiglia di Lorenzo. Mio compagno di scuola. Aveva dodici anni, come me, quando nel '45, poco dopo la fine della guerra, suo padre fu portato via dai partigiani titini. Sparito. Nessuna tomba, nessuna parola. Per anni ho creduto che fossero solo criminali.»

Fece una pausa, poi si sedette di nuovo. «Poi, da professore, ho letto, studiato, parlato con chi stava dall’altra parte del confine. E sai cosa ho scoperto? Che Lorenzo aveva perso un padre, sì. Ma anche Mateja, la figlia del falegname sloveno, aveva perso il fratello, ammazzato da un plotone italiano nel ’42, senza processo. Eppure nessuno me lo aveva mai detto.»

Andrea abbassò lo sguardo. «E allora? Non c’è via d’uscita?»

«La via d’uscita non è la memoria condivisa. È il rispetto. La pace vera arriva quando ogni parte riconosce le sofferenze dell’altro, quando si ha il coraggio di dire: tu eri mio nemico, ma la tua identità ha valore, la tua ferita è reale; solo allora si comincia a guarire mentre fino a quel momento, si resta prigionieri della propria versione della luce.»

Il fico sopra di loro oscillava leggermente, mosso da un vento caldo che portava con sé l’odore secco dell’erba e del ferro vecchio.

Andrea rimase in silenzio, poi spense il telefono e si alzò.
Andò in cucina, preparò due caffè e tornò con le tazzine. Le posò sul tavolo di ferro, accanto al giornale. Il nonno annuì, quasi sorpreso.

«Grazie.»

«Di niente», disse Andrea. «Forse il dubbio e la memoria sono algoritmi più potenti di quanto pensassi.»

Il nonno sorrise e replicò: „Ma stai attento, non ti farà aumentare mai i like sul tuo profilo“.

mercoledì 9 luglio 2025

SILENZIO UZBEKO, PAROLE FRANCESI


Il sole stava scivolando lento dietro le cupole turchesi del Registan, quando Émile, con il passo rilassato del viaggiatore solitario, si fermò di colpo. A pochi metri da lui, davanti a un venditore di sete, un uomo con una camicia a righe e il cappello di paglia stava negoziando con un’energia familiare.

«Jules?»
L’uomo si voltò di scatto, sgranando gli occhi. «Émile? Ma… Émile Lafont?»

Si abbracciarono senza vergogna, come due ragazzi che si ritrovano a un incrocio improbabile del mondo. Jules era in viaggio con sua moglie Claire e i loro due figli già grandi, turisti entusiasti in un luogo che pareva disegnato dalla fantasia. Émile era da solo, come sempre nei suoi viaggi fuori stagione.

«Non ci posso credere… a Samarcanda!» rise Jules.
«Un caso meraviglioso,» rispose Émile. «Io ho lasciato Parigi per qualche settimana. Volevo silenzio, polvere e cielo.»

Dopo qualche battuta e le presentazioni dei familiari, si salutarono con una promessa seria: vedersi quella sera, solo loro due. Come ai vecchi tempi, ma con la barba grigia e qualche ruga in più.

Quella sera si ritrovarono su una terrazza che dava sulle cupole della città vecchia. Il cielo era una tavolozza che andava dall’ambra al blu profondo. Ordinarono due bicchieri di kumis, il latte fermentato dei nomadi, e si accesero un sigaro uzbeko che profumava di tabacco e polvere.

«Allora,» iniziò Jules, «la grande Parigi ti ha adottato per sempre?»

Émile sorrise, senza compiacimento. «Direi che ci siamo reciprocamente tollerati. Ho studiato diritto alla Sorbona, ho fatto pratica in un piccolo studio, poi ho lavorato vent’anni con la municipalità. Adesso seguo progetti di diritto urbano, politiche abitative, integrazione… non è banale, ma è stato totalizzante. Per molto tempo è stato tutto.»

«Mai una compagna?»
Émile scrollò le spalle con naturalezza. «Ci sono state persone. Belle, anche importanti e il mio tempo era sempre preso e io non ho mai voluto veramente cedere il passo. Forse è stata una scelta, forse una fuga, ma non ho rimpianti. Solo… oggi il ritmo è un altro.»

Fece una pausa, guardando il fumo salire lento. Poi riprese, con voce più morbida:
«Sai, non ho mai avuto paura della solitudine ma ultimamente mi chiedo se, ora che ho sollevato un po’ il piede dall’acceleratore, ci sia ancora spazio per qualcosa di nuovo. Qualcuno con cui condividere questo tempo che si dilata. Non un rattoppo all’ultimo minuto, ma una vera compagnia. Ho vissuto pienamente il mio lavoro, ma oggi sento che potrei vivere pienamente anche altro. E mi auguro, sinceramente, di essere ancora in tempo.»

Jules sorrise, genuinamente. «Lo sei, amico mio e forse ora sei anche più pronto, perché non hai più bisogno di dimostrare tutto a tutti.»

«Forse è così, non cerco più né fuochi d’artificio, né salvataggi: solo una mano capace di camminare vicino alla mia, al passo giusto.»

«E quando succederà,» disse Jules con una risata, «la torta di nozze la faccio io. Ma niente fronzoli, solo burro vero e lamponi freschi.»

Risero entrambi, come due ragazzi in cortile, prima che la vita li portasse in direzioni opposte.

«E tu?» chiese Émile dopo un altro sorso di kumis. «Hai la luce di uno che ha trovato casa.»

«Sì. E l’ho trovata nella farina e nel lievito,» rispose Jules con orgoglio. «Ho lasciato la scuola presto, ricordi? Il liceo non faceva per me. Ho iniziato come garzone in quella piccola pasticceria sulla Promenade. Poi l’ho rilevata, ho sposato Claire — era cameriera lì — e non ho più smesso. Ogni giorno, da allora, è stato pieno. Non sempre facile, ma sempre giusto.»

«Mai avuto voglia di fare altro?»
«Mai. Perché ho fatto ciò che sentivo mio. Le mani sporche di burro, le alzatacce, i clienti che tornano per un pain au chocolat… È una forma di felicità, la mia. E non cambierei nulla.»

Restarono in silenzio, guardando la città spegnersi piano.

«Lo sai, Jules,» disse Émile, «ho visto troppi ragazzi brillanti finire in posti che non gli appartenevano. E altri ancora — silenziosi, profondi — ignorati perché non brillavano nel modo giusto. È una perdita enorme. Non solo per loro. Per tutti.»

Jules annuì. «Quando una persona non riesce a usare i propri talenti, il danno è della comunità. Della collettività. Perdiamo possibilità, energia, bellezza.»

«La scuola dovrebbe avere il coraggio di guardare davvero. Non solo di insegnare. Ma di ascoltare, intuire, accompagnare.»

«Io ho avuto fortuna,» disse Jules. «Non mi hanno ostacolato, questo è bastato. Ma oggi i ragazzi hanno bisogno di qualcuno che li guardi per davvero.»

Le stelle cominciavano a spuntare sopra Samarcanda.

«Ti rendi conto?» sussurrò Jules. «Due nizzardi che parlano di scuola e destino in Uzbekistan.»

Émile rise. «Forse è solo qui che si può davvero fermare il tempo. E capire che cosa ci ha fatto diventare quelli che siamo.»

«O forse,» aggiunse Jules, «è solo la magia dell’amicizia. Quella vera. Che non ha bisogno di spiegazioni. Solo di un sigaro, un drink strano… e un cielo straniero.»

Rimasero lì ancora un po’, a parlare del nulla e del tutto. Con la calma di chi non deve più dimostrare niente. Con la gratitudine sottile di chi sa che l’essenziale, nella vita, lo si può trovare a Samarcanda come dietro l'angolo di casa.

martedì 1 luglio 2025

INCUBI DISSOLTI ALLA QUESTURA




La luce filtrava già dalle finestre, illuminando la sala d’attesa della Questura di Firenze. Erano da poco passate le otto, ma l’aria sapeva già di rinuncia: sudore, scartoffie e caffè bruciato dal distributore automatico. Su una delle sedie di plastica grigia, una ragazza scrollava nervosamente il piede, le mani serrate sul cellulare. Il viso era bello, giovane, acceso da una rabbia ostinata.

«È un incubo… davvero, un incubo. Ho preso un giorno di permesso solo per questo. Il volo è tra tre giorni e quella là, quella stronza con l'aria da "perenne lunedì mattina", più simpatica di un mal di denti mi liquida con un “Il sistema è in blocco da ieri sera, non possiamo procedere con le consegne”. Ma ti rendi conto? Siamo ostaggi di una burocrazia che nemmeno funziona!»

Accanto a lei, seduto con la calma tipica di chi non ha più nulla da dimostrare, un signore elegante, sulla settantina, si sistemò gli occhiali e sorrise.

«Ti capisco, ragazza mia. Io sono qui invece per denunciare lo smarrimento della carta d’identità. La terza volta, se contiamo anche quella finita in lavatrice. Ma almeno… grazie a questa coda ho socializzato con una ragazza giovane. Evento da festeggiare, alla mia età. Già i miei nipoti mi snobbano in maniera permanente, salvo Pasqua e Natale.»

Lei lo guardò, combattuta tra il sarcasmo e un sorriso vero.

«Lei la prende sul ridere, alla sua età e con le sue certezze se lo può permettere. Beato lei.»

«No, no. Non la prendo sul ridere. La prendo da lontano. Che è diverso. Eppoi, mi permetto di darti del tu,  sai qual è l'età migliore? Come diceva Gasmann ne "Il Sorpasso" - l'età migliore è quello che uno c'ha, fin non si schiatta, si capisce.»

La ragazza tornò a fissare il cellulare, ma poi alzò di nuovo lo sguardo, come se qualcosa nelle parole del vecchio avesse trovato un appiglio.

«Io... non riesco a pensarla così,  a prenderla da lontano. È come se ogni cosa fosse sul punto di crollare, sempre. Il lavoro è precario, le relazioni pure, e adesso anche i passaporti… Tutto digitalizzato, tutto instabile, tutto fuori dal nostro controllo: è un mondo ricco e generoso solo nel distribuire illusioni  e io mi ritrovo sempre più spesso a ripetere: mi mancano le certezze, mi mancano le certezze!»

L’anziano annuì piano, poi si voltò a guardarla con uno sguardo più intenso, come se avesse aspettato quel momento per dire qualcosa che gli stava dentro da tempo.

«Sai, quando ero più giovane, vivevo con la paura che accadesse qualcosa che mi stravolgesse la vita in maniera definitiva. La perdita del lavoro, qualcuno o qualcosa che mandasse all'aria la carriera, una malattia, l’addio di una persona cara: erano incubi ricorrenti, sempre lì, sul fondo della mente. E quando qualcosa di tutto ciò è realmente successo… sì, mi ha fatto male, ma non era più un incubo: era diventato realtà e una cosa vera la si può affrontare. Si abita. Si attraversa. Quando l’incubo diventa realtà, cessa di essere un incubo e finalmente hai di nuovo la tua vita in mano, scoprendo energie che neppure sospettavi di avere.»

La ragazza lo fissò. Qualcosa si incrinò dentro di lei — non la rabbia, ma la sua inutilità.

«Dice sul serio?»

«Assolutamente. L’incubo paralizza perché è sospeso mentre la realtà, anche quando è dura, è concreta. Ti obbliga a muoverti, ti costringe a scegliere, a cambiare, e in quel momento — paradossalmente — torni libero. Non sei più prigioniera della paura che succeda qualcosa. È successo. E tu ci sei ancora.»

«È… potente, quello che ha detto.»

L’anziano fece un gesto con la mano come a dire: “Macché potente, , è solo sopravvivenza.” Poi sorrise.

«Sai cosa invece mi manca davvero, ora che tu dici che ti mancano le certezze,  le mie certezze?»

Lei lo guardò, curiosa.

«Le illusioni. Mi mancano le tue illusioni.»

Un attimo di silenzio. La ragazza rise, non forte, ma vera. Quel tipo di risata che non cambia la giornata, ma cambia come la guardi.

Dall’altoparlante gracchiante arrivò una nuova chiamata. Nessuno dei due si alzò.

Poi, con un’espressione più calma, quasi leggera, la ragazza parlò:
«Sa che le dico? Il passaporto e il Kenia possono aspettare. Prenderò il treno e andrò con la carta d'identità fino in Normandia, ora che ci penso ho sempre voluto attraversare le Alpi in carrozza, vedere i paesi cambiare fuori dal finestrino, arrivare a Mont Saint-Michel e mangiare poi ostriche a Cancal... »

L’uomo la guardò con un certo stupore divertito. «E allora cerca di non perdere la carta d'identità come me! buon viaggio! E mi raccomando, ricordati: vai tranquilla e vai serena, qualsiasi cosa accada non ne fare un dramma,  tutt’al più ti arrangerai!”




domenica 29 giugno 2025

DA CASERMA A MUSEO, LA LEZIONE (INUTILE) DI PIVKA

Pivka, Slovenia. Un tempo si chiamava St. Peter in Karst, poi San Pietro del Carso, quando questa terra apparteneva al Regno d’Italia. Siamo a venti chilometri da Postumia, in una valle tranquilla con una storia militare lunga e densa.


Nel 1933, il Regno d’Italia fa costruire una caserma per ospitare un battaglione della Guardia di Frontiera, intitolandola al Principe di Piemonte. Gli edifici, per volumi e stile architettonico, sono identici a quelli della caserma omonima di Cividale del Friuli, oggi intitolata a Mario Francescatto.

Con l’armistizio dell’8 settembre 1943, la struttura viene abbandonata dal Regio Esercito e subito occupata dalle truppe tedesche. Finita la guerra, diventa una base dell’Armata Popolare Jugoslava.


Nel 1991, dopo l’indipendenza della Slovenia, l’esercito federale lascia definitivamente il sito. Per qualche anno ancora, l’esercito sloveno lo utilizza per esercitazioni, poi inizia il declino e  degrado.

Ma la popolazione locale non resta a guardare. Preoccupata dal degrado di un’area così vasta, si mobilita e attiva i propri rappresentanti locali e nazionali.

Nei primi anni 2000, grazie a fondi statali e poi europei, l’ex caserma viene ristrutturata per lotti. Nasce così, con l'inaugurazione del primo lotto nel 2006, il Museo di storia militare di Pivka, il più grande della Slovenia.


Oggi ospita veicoli della Seconda guerra mondiale, mostre topografiche e fotografiche, sezioni tematiche sulla Jugoslavia federale, un sottomarino, aerei, un elicottero, un treno corazzato tedesco del 1943 e decine di mezzi blindati. Il tutto arricchito da un ristorante, un negozio e rievocazioni storiche periodiche in costume e viene data anche la possibilità di visite guidate nei sotterranei dei bunker limitrofi che facevano parte del sistema difensivo italiano "Vallo Alpino". È diventato un centro culturale e turistico di rilievo non solo regionale.

E Cividale?

La sua “gemella”caserma, anch’essa ex Principe  di Piemonte, è stata dismessa nel 2016.

Cosa ne sarà? E, soprattutto, quando sarà?

Perché non prendere esempio, anche solo in parte visto gli spazi, da Pivka? 

Un museo sulla guerra fredda e sul “dismesso” servizio di leva potrebbe interessare diverse miglia di concittadini sparsi per l’Italia e che tra quelle mura hanno passato un periodo significativo della loro gioventù. 

Amplierebbe l’offerta turistica e magari anche la permanenza dei turisti mordi e fuggi. 

Sarebbe oltremodo un riconoscimento e anche una forma di ringraziamento che si sono meritati, quando il contesto geo-politico internazionale richiedeva la massiccia presenza dell’Esercito sul confine orientale. 

Che ingenuo. Ritiro la domanda. 

Con la nostra burocrazia e i nostri infiniti “cerimoniali”, ci vorrebbero almeno cent’anni.

Meglio lasciar fare alla natura, intanto che mettiamo a punto l’idea geniale per rivitalizzare il sito.

Prima o poi, anche lei farà il suo corso. Magari trasformandola in un sito archeologico, come tanti altri: silenziosi, dimenticati, poetici. E vuoti.


Post in evidenza

NOTTI MAGICHE ANTE LITTERAM

25 giugno 1983 – Arrivo al campo mezz’ora prima del fischio d’inizio, di corsa dopo essere riuscito a fuggire da una riunione familiare ...