martedì 4 novembre 2025

QUATTRO NOVEMBRE


Durante i primi anni della scuola elementare la festa che più attendevo, dopo il Natale, era il 4 novembre e non perchè fosse una giornata speciale in famiglia, essendo l'onomastico di mio fratello.

Il 4 novembre, fino al 1977, era infatti la festività "dell'Unità nazionale", poi la Legge n. 54 del 5 marzo 1977 la "spostò" alla prima domenica di novembre, mentre la Legge n. 27 del 1 marzo 2024 l'ha ridenominata "Giornata dell'Unità nazionale e delle Forze armate", senza peraltro ripristinarla come festività.

Perché il 4 novembre? I "vintage" della mia generazione e qulcuno meno "old style" si ricorderà che il 4 novembre 1918 fu il giorno di entrata in vigore dell'armistizio di Villa Giusti, accordo che il 3 novembre stabiliva la fine delle ostilità tra il Regno d'Italia ed il dissolvendo Impero d'Austria-Ungheria e sanciva la vittoria italiana che al prezzo di circa 1.250.000 morti, equamente divisi tra civili e militari, completava con il successivo trattato di pace di Saint-Germain l'unificazione nazionale.

Questo almeno quello che la Maestra ci raccontava a scuola con orgoglio patriottico, mentre con il tempo i più curiosi hanno scoperto che la storia della nostra nazione ed in particolare della nostra regione, era assai più complessa e parlare di vinti e vincitori, di buoni e di cattivi poteva (e può) essere molto fuorviante e poco aderente alla realtà.

Un terreno da percorrere a piedi nudi con passi lievi, con l'attenzione di chi si trova ad attraversare un pavimento cosparso di vetri rotti, e non una piazza d'armi asfaltata su cui esibirsi a passo di marcia con scarponi chiodati.  

Per noi fanciulli, di diritto ingenui ed ignari e che solamente il primo ottobre avevamo ripreso le lezioni, era già tempo di fare una tonificante sosta ai box, con 4 giorni di vacanza dal 01 al 04 novembre, celebrando i defunti civili, militari e la Patria vittoriosa. E nelle annate fortunate, gettando i giusti ponti, potevano diventare una settimana.

Per i maschietti, poi, che dividevano il loro tempo libero tra il campetto da calcio, il gioco "della guerra",  infinite battaglie con i soldatini Airfix o Atlantic ed il cimento con la costruzione di carri armati o aeroplani della seconda guerra mondiale, l'apertura delle caserme ai civili del 4 novembre era un appuntamento imperdibile.

Un giorno straordinario: salire su carri armati veri e non quelli immaginari che costruivamo in cortile con pochi mezzi e tanta fantasia, imbracciare fucili veri e non quelli di legno o plastica delle nostre "battaglie" da giardino,  indossare elmetti e baschi, fraternizzando con i militari e assistendo alle loro evoluzioni in armi mentre la fanfara suonava nell'ordine delle autentiche "hit": "L'Inno di Mameli" e "La Canzone del Piave" che le Maestra una volta alla settimana ci faceva cantare tutti insieme a scuola. 

È più di qualcuno di noi che si accalcava al portone della caserma in attesa che l’ufficiale di picchetto dasse il via libera all’ingresso dei visitatori, non vedeva l’ora di vestire un giorno la divisa di qualche arma dell’esercito. 

E anche su questo punto, il passare degl’anni s’icaricò di modificare radicalmente la visione di molti tra quei fanciulli e di svelarci che c’erano altri che non si accalcavano a quei cancelli perché in casa i genitori non gradivano quella festività e la consideravano un lascito sgradito del periodo più buio della nostra storia. 

E oggi? Cosa resta del quattro novembre?  
Personalmente tanta tenerezza per il sentire del bambino che fui

  

mercoledì 29 ottobre 2025

QUASI PRONTA

 

Milano, autunno, sabato sera.

Nel grande appartamento di Brera le luci calde dei faretti si riflettono sul parquet lucido. Il profumo di un fondotinta costoso si mescola a quello di un Barolo appena stappato mentre dalla finestra socchiusa arriva il suono distante del traffico e una scia di musica elettronica da un locale lì sotto.

Giulio, quarantacinque anni, avvocato d’affari con la passione per i vini e l’ansia per i ritardi, osserva la scena come un imputato rassegnato.
Claudia, quarantenne splendida, perfetta nel suo disordine calcolato, asciuga i capelli davanti allo specchio, indossando solo un accappatoio color perla.

— Hai deciso cosa metterti? — chiede lui, guardando l’orologio con una punta di malcelata impazienza. — È già tardi, Cla. Lo sai che l'Enrico e la Silvia non sopportano i ritardi.

— Sono quasi pronta. (Sarò pronta quando sarò pronta. Forse tra dieci minuti, forse tra un’ora. Tu intanto non rompere le palle e trovati un’altra occupazione, possibilmente lontano da me. E vaffanculo anche l'Enrico e la Silvia.)

Giulio sospira, si versa un dito di vino, e cerca un argomento neutro.
— Posso almeno scegliere la bottiglia da portare?

— Fai quello che vuoi. (E' un test, idiota. Dovresti conoscermi abbastanza bene per sapere qual è la bottiglia giusta. Che cazzo chiedi? Sei scemo?)

Lui la fissa come si guarda una bomba a orologeria. — Questo “fai quello che vuoi” mi mette i brividi più del fisco.

— Ma smettila — risponde lei, sorridendo senza guardarlo. (Appunto: è un test. E stai per fallirlo, amore mio.)

Giulio posa il bicchiere e alza le mani. — Ti prego, cerchiamo di non litigare prima di uscire.

— Va bene. (Non va bene. Significa solo che la discussione è terminata. Al momento.)

Un silenzio breve, teso come un elastico.

Lei apre l’armadio, indecisa tra due vestiti identici, cambia idea tre volte, poi si volta verso di lui.

— Ti rendi conto che a ogni cena ci arriviamo sempre in ritardo per colpa tua?

— Mia? Io sono pronto da venti minuti!

— Sì, ma mentalmente sei ancora in tribunale.

Giulio si avvicina, con un tono che vuole essere dolce. — Magari dopo la cena andiamo a bere qualcosa solo io e te.

— Vedremo. (No, e se si, non'interessa.)

— “Vedremo” cosa? — insiste lui. — Vedremo se sopravvivo alla cena o vedremo se mi concedi il tuo  drink dopo?  — l'avvocato gioca la carta della seduzione con un doppio senso neppure molto doppio.

— Vedremo, Giulio. (No, e smettila di interpretare tutto, che mi rovini anche la pausa drammatica. Eppoi: ma come sei scontato. "Il tuo drink!" ma con chi credi di avere a che fare? con una escort pescata in rete?)

Lui scuote la testa. — Ti rendi conto che ogni tua risposta è un campo minato semantico?

— E tu ti rendi conto che tu analizzi tutto? È per questo che sei bravo nel lavoro e pessimo nella vita.

— Ah, perfetto. Quindi quel tipo di ieri sera all’aperitivo era più bravo nella vita?

— Quel tipo è un gran figo. (Penso che tu mi stia dando troppo per scontata, e forse ti stai lasciando andare un po’ troppo. Uomo avvisato.)

Giulio sbatte la lingua contro il palato. — Fantastico. Quindi vuoi farmi ingelosire.

— No, voglio solo che ti rimetta a correre. Hai una pancia da commercialista.

Il phon tace, la tensione resta. Lei si trucca, lui la osserva nello specchio.

— Ti stai vedendo con qualcuno? — chiede lui, quasi per scherzo ma non del tutto.

— Davvero pensi che avrei tempo per un amante? (Sei senza rimedio, che cazzo di domandi fai? E tu pensi che se io veramente avessi un amante tu potresti accorgertene??)

— Hai detto la stessa cosa del pilates — ribatte lui, ma la voce è stanca.

Lei posa il rossetto con gesto lento. — Senti Giulio, dobbiamo parlare. (Io devo parlare, tu devi ascoltare.)

Giulio si irrigidisce. — Oddio. Dimmi almeno se prima o dopo la cena.

— Di questo ne parliamo più tardi. (Mi hai fatto così incazzare che non riesco neanche a pensare. Ho bisogno di un po’ di tempo per tenerti il muso e capire come cazzo faccio a stare ancora con te.)

Lui alza gli occhi al soffitto, come in preghiera. — Vuoi che cancelli la cena? Restiamo a casa, ordiniamo sushi.

— Non preoccuparti. (Inizia a preoccuparti.)

— Sei splendida, comunque — dice, sincero, mentre lei indossa un orecchino.

— Credi che lei sia carina?

Giulio si gira, sorpreso ma colpevole. — Lei Chi? 

— Non fare l'idiota con me, sai bene di chi sto parlando. (E' proprio un ingenuo, non capisce che lo sto provocando, se sospettassi qualcosa per davvero sarebbe già in croce.) 

Non ti starai mica riferendo a Francesca, la mia nuova Segretaria? 

Un silenzio di tomba scende nel grande appartamento di Brera.

(Eccolo qui, il pesce che cade nella rete... adesso lo mangio vivo!) 

Ma no! Cosa dici... Tu sei… carina.

Lei lo guarda di traverso. — Solo carina?

( Rispondi di si e te la scordi fino a Natale)

— No, no. Sei bellissima. Da infarto.

— Ti perdono. (Ho deciso che, per adesso, posso vivere nonostante quello che hai combinato, ma sappi  che stasera non vorrò in alcun modo veder ciondolare il tuo pisello dalle mie parti e ti rinfaccerò per tutti i giorni della tua vita di aver sicuramente guardato quella Francesca con aria da marpione.) 

— Allora possiamo uscire? — chiede lui, già con la giacca in mano.

— Sono stanca.

— Stanca? Ma non siamo ancora usciti!

— Appunto.

Lei prende la borsetta, si guarda per un ultimo istante allo specchio prima di voltarsi verso Giulio con un sorriso impeccabile, mentre lui la guarda tra il basito e il rassegnato.

— Allora Giulio, andiamo si o no? (Non va bene. Ma almeno stasera ci sarà del vino decente.)

E così, mano nella mano, escono nel corridoio illuminato del palazzo, come due attori che conoscono a memoria la parte, ma non credono più davvero nella trama.

giovedì 23 ottobre 2025

C'ERA UNA VOLTA LA TRATTORIA FRIULI

C'era una volta una vecchia trattoria, si chiamava Friuli, ed era stata inaugurata nel settembre di un anno horribilis per quelle contrade: il 1976.

Il proprietario in poco tempo azzeccò il cuoco capace di usare gli ingredienti giusti per cucinare piatti saporiti che, con grande soddisfazione dei clienti, vide salire il livello fino alla menzione nelle guide nazionali della ristorazione.

La trattoria necessitava di adeguamenti per reggere ora il peso del livello acquisito e mantenerlo e, così, il proprietario cedette la mano ad una famosa società locale dai grandi mezzi economici, e questa iniziò ud abbellirlo ed ingrandirlo nelle strutture, e puntò su piatti da cucinarsi con ingredienti di pregio internazionale, allargando la clientela e puntando a finire nelle guide europee, non solo nazionali e a diventare addirittura stellato!

Dopo pochi anni però, la società proprietaria aveva ben altre gatte da pelare in casa sua che continuare a finanziarie la politica espansiva e assai dispendiosa del ristorante che, nonostante gli ingredienti pregiati i cuochi prescelti, italiani e stranieri, non riuscivano a far decollare e così regalò l'azienda al suo direttore come liquidazione.

La qualità dei piatti continuava a peggiorare, il "nuovo" proprietario non aveva più le risorse per mantenere il livello, si fece qualche "maneggio" per riuscire a reggere, ma alla fine, sull'orlo della bancarotta e con il declassamento nelle guide Michelin, cedette a sua volta ad un nuovo proprietario, un friulano tutto d'un pezzo.

I clienti locali nonostante tutto, si mantenevano sempre affezionati al loro ristorante di fiducia.

Il nuovo proprietario ci mise un po' a capire come andava il mercato, all'inizio si affidava a cuochi ed ingredienti di pregio, ma al limite della scadenza e così la clientela, sempre affezionata, si dovette accontentare di menù di seconda categoria con qualche episodico pranzo di livello.

Poi, sfruttando le nuove regole del mercato, trovò la formula magica per far decollare l'attività: cuochi semisconosciuti e di grande talento e pietanze anch'esse poco note e provenienti da ogni angolo del mondo che riuscivano a stupire la concorrenza e guadagnare posizioni nelle guide nazionali e per la prima volta anche europee.

La clientela ne fu estasiata. 

Ma il proprietario scoprì presto che poteva brevettare i piatti e cederli alle multinazionali della ristorazione e guadagnarci un bel po' e fu così che si dedicò solo alla gestione del ristorante Friuli, ben coadiuvato dai suoi familiari.

Per molti anni riuscì a mantenere alto il livello qualitativo  - pur cambiando cuochi, ingredienti e menù -  soddisfare gli affezionati clienti locali e guadagnarci un bel po' di denari, tanto da attrarre spesso le attenzioni del Fisco, non convinto della fedeltà delle dichiarazioni dei redditi dell'azienda.

Le cose funzionavano talmente bene che pensò di replicare il modello ristrutturando in Spagna ed Inghilterra vecchie trattorie, acquisendone la proprietà, ed iniziando a scambiarsi i cuochi e le pietanze all'interno della catena creata.

Il cibo ed i menù non ne guadagnavano in qualità, ma i profitti salivano e i clienti, soprattutto quelli friulani non smettevano di frequentare il ristorante Friuli, come fedeli che non disertano mai la Messa della domenica, anche quando o se la Fede vacilla.

Ad un certo punto il proprietario, all'apice della popolarità per la capacità di mantenere ai massimi la qualità del prodotto dimostrata  dal cuoco del tempo nel mescolare sempre al meglio le pietanze note, ma soprattutto meno note, che venivano rifornite ogni anno da ogni dove, decise che la struttura del ristorante era antiquata e sentiva il peso del tempo.

Decise che era ora di rinnovarlo completamente, rifacendolo da capo a piedi e cambiandogli pure il nome, "brandizzandolo" con una marca automobilistica prima e con una multiutility energetica poi per adeguarlo al mercato ed aumentare i ricavi e così, in un paio di anni, con tenacia tipicamente friulana di superare tutte le ardue prove imposte dall'italica burocrazia, il risultato fu un vero e proprio gioellino, un ristorante di lusso.

Da lì in poi, invece, la qualità del prodotto divenne sempre più scarsa, nonostante una girandola di cuochi assunti in Italia e all'estero per trasformare, come era riuscito in passato, "il piombo in oro".

L'operazione è perfettamente andata a buon fine a livello contabile, mentre è risultata indigesta per i clienti che si sono visti propinare ogni anno, immancabilmente e nonostante le promesse di rilancio, cibi sempre più scotti e insipidi, fino a rischiare il declassamento.

Nonostante questo, non è cambiata la fedeltà: qualche mugugno, ma sempre "presenti" alla messa della domenica o del venerdì, del sabato e del lunedì, visto che nel tempo i ristoranti possono aprire quando vogliono e neanche tutti alla stessa ora, per le mutate regole di mercato.   

La proprietà, di fronte agli sparuti brontolii e  maldipancia di qualche cliente meno bonario, fa spallucce e dice: "O mangi questa minestra o salti la finestra", perché diversamente non si può fare con la concorrenza che c'è e anzi, bisogna essere orgogliosi di essere, con la sua gestione, da più di trent'anni clienti fissi di un ristorante di lusso stabilmente elencato nelle guide Michelin.

Nonostante tutto.

Morale della favola, se c'è una morale: la proprietà non guadagnerà mai una stella Michelin, nè in Italia nè altrove, ma sicuramente merita il premio Nobel per l'economia.

Chapeau. 

E i clienti?




giovedì 16 ottobre 2025

L'ULTIMA SBERLA


Sono nato a metà degli anni ’60 in Friuli e come gran parte dei miei coetanei, l’infanzia e la prima adolescenza si sono svolte assieme ad un compagno di viaggio molto presente quanto indesiderato: la sberla. In famiglia, all’asilo e alla scuola elementare erano “espedienti” considerati assolutamente “politically correct”  per l’educazione dei giovani virgulti.

Questa compagnia, almeno in famiglia, è stata indiscussa almeno fino ai primi anni 90, mentre nelle istituzioni scolastiche, dopo la rivoluzione studentesca e giovanile del ’68, la pratica si era ridotta drasticamente fino a scomparire in  pratica del tutto già  a metà degli anni ’70.

Ogni volta che si contravveniva ad una richiesta (ordine) dei genitori o dei maestri o si combinava qualche “disastro” che poteva mettere in cattiva luce il buon nome della famiglia o dell'istituzione nel suo contesto di riferimento – la sberla era inevitabile come la caduta delle foglie in autunno.

Naturalmente forza e localizzazione della sberla – sedere o volto – variava a seconda dell’importanza dell’infrazione in base alla diversa scala valoriale vigente nella famiglia di appartenenza.

Che questa pratica, appannaggio esclusivo dei padri fosse da rivedere, attesi i risultati comunque insoddisfacenti in termini di rispetto delle regole, dev’essere iniziato a serpeggiare ad un certo punto anche tra gli stessi papà, considerato che mio fratello, nato invece all’inizio degli anni ’70 si prese un decimo degli schiaffoni che miravano a fare di me una persona adulta ed educata, raddrizzando i comportamenti ritenuti disfunzionali per la morale del tempo.

E non perché lui  fosse più ligio alle regole o rispettoso dei divieti  rispetto a me.

Quando la mia generazione a sua  volta si è trovata a ricoprire il difficile ruolo di genitore, probabilmente memore di quanto male ci hanno fatto quelle grandinate di sberle inflitte dal nostro Pater Familias  - oggi termine divenuto politicamente scorretto e sostituito dal più benevolo anglicismo Care Giver   - le abbiamo bandite del tutto e spinte sul bordo del Codice penale.

Sia chiaro, la finalità di questo scritto non vuole essere un Ode nostalgica al tempo della Sberla che, a posteriori, ritengo mi abbiano recato più danni che benefici ma fare solo la fotografia di un’epoca  e confrontarla, lasciando un ricordo personale a chi è interessato a guardare sotto la superficie del presente.  

Quei ceffoni non facevano male fisico, quello se ne andava in fretta: erano vere e proprie ferite dell’Anima che facevano fatica a guarire perchè inferte da chi invece ti aspettavi riconoscimento e qualche carezza.

Detto questo non mi sento una vittima, e non ho mai smesso di voler bene a mio Padre perché con il tempo ho capito che ciò che oggi sconfinerebbe nel codice penale e sarebbe di sicuro socialmente inaccettabile, per lui non solo era un normale stile educativo, ma per di più quello che riteneva il migliore e più efficace per me.

Ciascuno è figlio del suo tempo.

Nel mio, da genitore, memore di quante ne abbia prese e del male che mi hanno fatto tutte quelle sberle, non sono mai riuscito ad alzare le mani od alzare la voce nei confronti di mio figlio e invece ho sempre cercato di praticare l’arma della persuasione.

Oggi mi domando se lui, al contrario, da me si aspettasse qualche sberla e oggi mi biasima per non averlo fatto.

Come mio padre – e come tutti i padri prima e dopo di lui -  se ho sbagliato, l’ho fatto pensando di fare del bene. Un “classico” insomma.

Alla fine, rileggendo un adagio secondo cui “l’estrema risposta ad una stronzata è anch’essa una stronzata” mi sono detto che i genitori di ogni epoca sono attesi dallo stesso destino: possono cambiare i metodi, restano errori ed inadeguatezze per ciò di cui invece hanno bisogno i figli, che nascono e crescono in un altro tempo.

Chiudo svelando il perché del titolo, per dimostrare quanto mio padre fosse convinto dell’utilità delle Sberle.

L’ultima me la tirò in pieno volto una sera di agosto dell’anno domini 1984, quando avevo già compiuto 18 anni da qualche mese: appena varcata la soglia di casa, puntuale per la cena, tutto contento, lui senza dire nulla, mi sferrò il ceffone prima ancora che potessi dirgli “ciao”.

Perché?

Perché suo papà – mio nonno – gli aveva riferito, accusandolo di non essere stato in grado di “crescere bene” un figlio, di avermi visto andare a fare la comunione in duomo indossando una canottiera gialla.

Era tutto vero, canottiera acquistata nello stesso pomeriggio in cui avevo concluso un mese da operaio in una verniciatura del manzanese – lavoro estivo “in nero” dopo la promozione scolastica con ottimi voti, utilizzando il guadagno di quell’occupazione che si svolgeva ben prima della vigenza della normativa sulla sicurezza sul lavoro.

Confesso che la vera vertigine è accorgersi che la propria infanzia e la propria giovinezza, rilette alla luce delle leggi odierne, si sarebbero svolte — in famiglia, al lavoro e nel tempo libero — tra infrazioni assortite del codice penale.

E pure aggravate e continuate.

lunedì 13 ottobre 2025

VIRTUS, NON VIRUS

Roma, ottobre. Le ottobrate coloravano la città di oro e polvere. I sampietrini riflettevano la luce come se custodissero storie di coraggio e mediocrità. Andrea camminava verso il bar con passo deciso, l’aria piena di convinzione.

Il professor Balestri sedeva al suo solito tavolino del solito bar di Via del Governo Vecchio. Caffè nero e anni di osservazioni, sorridendo con ironia. L’aveva conosciuto dieci anni prima, quando Andrea era ancora un ragazzo ossessionato dagli appunti perfetti e dalle citazioni giuste. Ricordava le lezioni dove lui di colpo interrompeva tutto per raccontare un aneddoto assurdo, e Andrea, pur esasperato, rideva sempre, un po’ vergognandosi.

«Professore, ho deciso. Me ne vado. In India.»

Balestri sollevò appena lo sguardo.
«India? Ottima scelta, dove i sogni hanno fuso orario diverso dal resto della vita. Stai attento però al caffè, smbra non lo facciano troppo buono.»

«Non scherzi. Io voglio purezza. Qui non si cambia niente. Tutto è compromesso dai mediocri e dai raccomandati. Voglio una vita pura, assoluta. Silenzio, disciplina, spiritualità. Io voglio cambiare il mondo, ma cambiare davvero, farne un posto migliore, e non lo si fa con le mezze misure.»

Il professore accennò un sorriso.
«Ah, il mondo. Quell’invenzione che sopravvive nonostante tutti noi. Tu pensi che fuggire sia l’alternativa nobile a un mondo ingiusto. Io ti dico che è lo stesso gioco, solo dall’altra parte della scacchiera.»

Andrea si fece serio, quasi impaziente.
«No, professore, non è lo stesso. Lei confonde la resa con la scelta. Io non scappo: mi sottraggo. È diverso. Voglio ritrovare una purezza che qui è impossibile. Qui tutto è compromesso: si deve fingere, sorridere, negoziare. Io non ci sto! Basta concorsi truccati, colloqui inutili, ipocrisie: non voglio essere più giudicato solo in base al cognome o dalle conoscenze.».»

Il professore sorrise appena, con quell’aria indulgente che può irritare più di mille parole.
«Il compromesso, caro Andrea, non è una resa. È la forma più umana della coesistenza. Lo so, suona poco eroico. Ma la storia non la fanno gli eroi che bruciano, la fanno gli uomini che restano. Quelli che ogni giorno tentano di capire l’altro senza rinunciare a se stessi.»

«Ascolti, professore. Guardi la storia: nel 1992, avessi avuto la sua età, sarei stato sempre con Di Pietro. Mai con Craxi. Mai con Andreotti. Mai con i compromessi dei Democristiani. Quelli non cambiano nulla. E voi cosa avete fatto invece? Tutti con Berlusconi! Slo i rivoluzionari, quelli che non hanno paura di perdere tutto per un ideale, possono cambiare la storia, solo puntando all’assoluto si può migliorare il mondo.»

Balestri ridacchiò, con ironia pungente.
«Ah, i giovani! Sempre convinti che il mondo cambi in fretta e che la purezza sia la via. Ma vedi, Andrea, anche Di Pietro, non solo i democristiani,  aveva dei compromessi, e persino i rivoluzionari devono ogni tanto mangiare, respirare, sopravvivere…»

Andrea alzò la voce, ma senza rabbia: convinzione pura.
«Non parlo di sopravvivere! Parlo di cambiare le regole, di rischiare tutto per un ideale! Non si tratta di vivere tranquilli. Si tratta di lasciare una traccia vera, di costruire qualcosa che resti!»

Il professore fece un gesto teatrale con la tazzina, come per dire “ascolta bene”.
«Ecco il tuo errore: credi che tutto debba essere bianco o nero. Roma stessa è un compromesso di secoli, eppure eccola qui. Se tutto fosse assoluto, probabilmente non sarebbe sopravvissuta.»

Andrea scosse la testa.
«Io non voglio la sopravvivenza tiepida. Voglio rivoluzione, purezza. Voglio l’assoluto.»

Balestri sorrise, ma con una punta di malinconia.
«Bravo, ragazzo. Solo che la rivoluzione senza respiro quotidiano è fanatismo. Il coraggio non è solo abbracciare l’estremo, ma anche vivere tra le contraddizioni, ascoltando e rispettando l'altro senza rinunciare a sé. Vedi, il mondo cambia grazie a chi resta, ogni giorno, fedele a piccoli gesti.»

Andrea guardò la piazza dorata dalle ottobrate.
«Io continuerò a puntare all’assoluto. Il compromesso mi sembra vigliaccheria. Qui non c’è spazio per chi lavora, studia, si impegna. Conta solo chi ha la spinta giusta, chi sa a chi sorridere. Io non voglio più far parte di questa farsa. »

Il professore accennò di nuovo un sorriso, ma questa volta era decisamente ironico, come chi ha già visto quella stessa scena recitata mille volte da altri giovani.

«Ti dirò una cosa che non ti piacerà: l’estremo opposto di una stronzata è anch’esso una stronzata.»

Andrea scosse la testa, contrariato.
«Lei riduce tutto a battute, come sempre. Ma ci sono momenti in cui bisogna scegliere da che parte stare.»

«E chi ti ha detto che non si possa stare nel mezzo senza essere vigliacchi?» ribatté Balestri.
«La via di mezzo è la più difficile. Richiede equilibrio, ascolto, disciplina. Gli estremi sono comodi: o tutto o niente, o si ama o si odia;  vivere invece tra il tutto e il niente… quello sì, è un lavoro da adulti. Faticoso, umile, incessante. E ti dirò -  continuò  Balestri - che vigliaccheria o coraggio, a volte la differenza la decide il tempo, e guardati bene in giro: Roma ti insegna che compromesso, se fatto con saggezza, può diventare una forma di eroismo.»

Il giovane restò in silenzio rabbioso, mentre la città respirava intorno a loro, tra luce dorata, foglie che cadevano e storia che non smetteva di esistere. L’assoluto di Andrea non era meno vivo, ma forse ora sembrava meno solo, sospeso tra idealismo e realtà, tra rivoluzione e vita quotidiana.

Dal vicolo arrivava l’eco di un violinista che suonava Yesterday. Roma respirava piano, col fiato lungo di chi non smette mai di recitare se stessa.

Il professore si alzò, lentamente.
«In medio stat virtus, Andrea. E bada bene: virtus, non virus. La mediazione non contagia, cura, se hai voglia di guarire; è una specie di medicina, brucia solo un po'.»

Andrea infine sorrise, ma il sorriso gli uscì amaro.
«Lei si accontenta.»
«No, io persisto. È diverso. Sai qual è la differenza tra un idealista e un uomo libero? L’idealista vuole cambiare il mondo mentre l’uomo libero vuole capirlo, e semmai, migliorarlo un poco, quando può.»

Nel mentre, non curante di tutto questo, Roma continuava ad essere città eterna, incanto di uomini e di dei, inno perpetuo di nobiltà e miseria.

venerdì 10 ottobre 2025

LA NOTTE IN CUI CIVIDALE DIVENNE PRAGA

La notizia della morte di Paolo Bonacelli, avvenuta a Roma lo scorso 8 ottobre, ha avuto l’effetto di far riemergere dalle profondità del cervello limbico il ricordo di una strepitosa – per il mio gusto estetico – serata “andata in scena” il 17 luglio 1999 a Cividale del Friuli, durante l’ottava edizione di Mittelfest, quella dedicata a La via dell’Ambra.

I più collegheranno il volto e la voce dell’attore scomparso – 88 anni – alle interpretazioni della sua lunga carriera, guidata dai più famosi e ispirati registi italiani: Ettore Scola, Michelangelo Antonioni, Pier Paolo Pasolini, Nanni Loy, Roberto Rossellini, solo per citarne alcuni. Oppure, i più giovani e “meno impegnati” lo ricorderanno nei panni dell’avvocato D’Agata, al fianco di Roberto Benigni, nel fortunatissimo Johnny Stecchino.

Perché tutta questa “memoria” mi è arrivata dopo rispetto a quanto scritto in apertura?
Perché la voce di Paolo Bonacelli dava il via all’evento-spettacolo itinerante Praga Magica, ideato da Giorgio Pressburger e Mimma Gallina come apertura di Mittelfest 1999. Nei miei ricordi fu il momento più riuscito di tutta la storia del festival cividalese – opinione assolutamente personale, beninteso, visto che la critica del tempo non fu altrettanto entusiasta nei confronti dell’opera, dopo aver invece celebrato Danubio, altro evento itinerante pensato sempre da Pressburger per far vivere il libro di Claudio Magris, utilizzando “il fiume” di spettatori che si muoveva nei vari siti della città ducale.

Ancor oggi, ogni notte, alle cinque, Franz Kafka ritorna a via Celetná (Zeltnergasse), a casa sua, con bombetta, vestito di nero. Ancor oggi, ogni notte, Jaroslav Hašek, in qualche taverna, proclama ai compagni di gozzoviglia che il radicalismo è dannoso e che il sano progresso si può raggiungere solo nell’obbedienza. Praga vive ancora nel segno di questi due scrittori, che meglio di altri hanno espresso la sua condanna senza rimedio, e perciò il suo malessere, il suo malumore, i ripieghi della sua astuzia, la sua finzione, la sua ironia carceraria…”

Molti avranno riconosciuto l’incipit del libro Praga Magica di Angelo Maria Ripellino, che Giorgio Pressburger aveva cercato di far vivere a Cividale, trasformando la città ducale nella Praga descritta dallo scrittore palermitano.
Quelle parole scritte dall'autore attraverso la voce di Paolo Bonacelli, accompagnata dalle note della Vltava di Smetana, giunsero agli spettatori che si accalcavano, al buio, a testa in su sul Ponte del Diavolo – divenuto per una notte il Ponte Carlo della capitale boema – mentre un funambolo lo attraversava su una fune tesa tra Borgo di Ponte e Piazza Duomo.

Vi posso assicurare che fu un momento davvero magico, anche per chi – come il sottoscritto – ebbe la ventura di essere al tempo assessore alla Cultura e membro del Consiglio di amministrazione dell’Associazione Mittelfest, e per questo a conoscenza di quante e quali richieste tecnico-organizzative, costi economici e responsabilità amministrative si nascondessero “dietro le quinte” di quell’evento.

Ne valse la pena.

Voglio “regalare” al lettore un solo aneddoto, per far intuire cosa significasse lavorare con Giorgio Pressburger. Lo spettacolo, nella “testa” del suo ideatore, doveva concludersi con la rievocazione dell’arrivo dei carri armati russi a Praga la notte del 20 agosto 1968, giunti a stroncare la famosa “primavera”. Giorgio voleva a tutti i costi far sfilare un carro armato vero su Largo Boiani fino a Piazza Duomo, e non c’era verso di fargli capire che la cosa era “troppo difficile”. Neppure il fatto che il Comando di Corpo d’Armata di Padova fosse stato interpellato – con esito chiaramente negativo – riusciva a placare la sua idea che “gli si volessero mettere i bastoni tra le ruote”, e che senza quella scena lo spettacolo non si sarebbe potuto chiudere degnamente.

La “salvezza” arrivò dalla scoperta che un tipo di Lubiana partecipava come stuntman in diverse produzioni, con la caratteristica di trasformarsi in torcia umana. La mente di Pressburger lo trasformò allora nel tragico rogo di Jan Palach, che nel gennaio 1969 si diede fuoco in piazza Venceslao per protestare contro l’occupazione sovietica.
Lo stuntman sloveno arse davanti al Duomo mentre un pallone-mongolfiera, rappresentante una luna benevola, si innalzava in Piazza Duomo portando con sé un’attrice vestita di bianco. Così, verso le due del mattino, lo spettacolo terminò: la magia si esaurì e Cividale si tolse i panni della capitale boema che aveva rivestito per una notte.

Gli eventi itineranti ideati da Giorgio Pressburger per far vivere pagine importanti della letteratura mitteleuropea furono, in quegli anni, il tratto distintivo di Mittelfest. Col tempo vennero abbandonati, perché i costi – e soprattutto le normative in tema di sicurezza – ne rendevano praticamente impossibile la realizzazione.
E mettiamoci pure Giove Pluvio, mai troppo benevolo con le estati cividalesi e il festival in particolare: esporre il budget importante di un evento non replicabile al rischio di annullamento al debutto o durante le prove non era più accettabile.

Peccato.

Chiudo lasciando la scheda dell’evento, tratta dal sito ufficiale dell’Associazione Mittelfest, per far immaginare al lettore cosa fu Praga Magica.


Praga Magica

Ispirato all’opera di Angelo Maria Ripellino
Un progetto itinerante di Mimma Gallina e Giorgio Pressburger
Coordinamento registico: Giorgio Pressburger e Sabrina Morena
Elementi scenografici di Andrea Stanisci
Narratore: Paolo Bonacelli
Coproduzione Mittelfest, Teatro Verdi di Trieste
ITALIA – TEATRO
Centro storico, spettacolo itinerante

Con gli interventi straordinari:

  • Ancora oggi, ogni notte alle cinque – a cura di Monica e Nanì Maimone (Piccola Cooperativa Kant), Piazzetta Zorutti

  • Al principe di Breslav. Il pellegrino – a cura di Gianfranco Evangelista (Moravske Divadlo Olomouc), Caffè San Marco

  • Osteria dei veleni. Švejk – a cura di Guido De Monticelli, Osteria ai Tre Re

  • Ai Due Agnelli. Kafka – a cura di Guido De Monticelli, Trattoria Alla Speranza

  • La vecchia signora. Voskovec & Werich – a cura di Ferruccio Cainero e Giovanni De Lucia (Teatro dell’Ingenuo), Arco Medievale

  • La maledizione della Montagna Bianca – a cura di Sabrina Morena, con Luciano Virgilio e Ester Galazzi, Piazza San Francesco

  • Rodolfo II – con Massimo Popolizio, Piazza Dante

  • Praga natura morta I e II – a cura di Jan Kratochvíl (Evropské Centrum Pantomimy Neslysicich Brno), Stretta della Giudaica

  • 20 agosto 1968 – con Rok Cvetkov e la Piccola Cooperativa Kant, Piazza Duomo

venerdì 3 ottobre 2025

ANONIMO RUSSO VS EUCLIDE 15-0

Il pomeriggio scivolava lento nella biblioteca della Sorbona, e la sessione autunnale di esami si avvicinava sempre più per Sophie Hubelle, ventunenne parigina studentessa di lingua e letteratura russa e Alexandre Dubois, ventiduenne di Nantes, al secondo anno di Ingegneria gestionale. Intorno a loro, libri e appunti erano sparsi sui tavoli, assieme a tanti altri giovani studenti e qualche professore dai capelli grigi.

Sophie, capelli castani raccolti in una treccia disordinata, sfogliava un’antologia di poeti russi dell’Ottocento, e i suoi occhi brillavano di passione e curiosità; di fronte, Alexandre, seduto rigido, era concentrato su uno studio di funzioni trigonometriche. Improvvisamente, la ragazza, a bassa voce, interruppe il compagno:

"Alexandre, senti qua! Lascia perdere quella roba astratta, senti la vita vera che pulsa!" ed iniziò a declamare, prima in russo e poi in francese:

Русский текст:

Теперь я знаю, что такое Жизнь.
Теперь я знаю, что такое Смерть.
И теперь что я знаю?

Теперь, когда я знаю,
слово потеряно.
Остаётся перо.

А потом?
Чёрное. Чёрное. Чёрное.
Как это чернило,
в котором я хочу утонуть.

Аноним, Белгород (?), 1891 (?)

Traduction

Maintenant je sais ce qu’est la Vie. (Adesso so cos’è la Vita.)
Maintenant je sais ce qu’est la Mort. (Ora so cos’è la Morte.)
Et maintenant, que sais-je? (E ora che so?)

Maintenant que je sais, (Adesso che so)
le mot est perdu. (la parola è perduta.)
Il reste la plume. (Rimane la penna.)

Et ensuite? (E poi?)
Noir. Noir. Noir. (Nero. Nero. Nero.)
Comme cet encre (Come questo inchiostro)
dans laquelle je veux me noyer. (in cui voglio annegare.)

Anonyme, Belgorod (?), 1891 (?)

Sophie, emozionata, chiuse lentamente il libro mentre il cuore le batteva forte.

"Che versi stupendi: le mot est perdu, ma resta la plume...  Non è disperazione, è resistenza. È un gesto eroico, di speranza, silenzioso, che sfida la morte."

Alexandre scrollò le spalle, il volto contratto, quasi infastidito:

"C’est une connerie totale! Tutto questo è una baggianata, un'illusione, il solito oppio per i sentimentali! La vita non si misura con l’inchiostro, la vita si vive, si affronta, si rischia, non si racconta. La scrittura non è vita, è rifugio, è comoda fuga dalle responsabilità."

"Vedi…" replicò Sophie, calma ma emozionata, "La parola è perduta, ma resta la penna. È resilienza. Chiunque l’abbia scritto, uomo, donna, giovane o vecchio, è un Eroe! La scrittura rende eterno ciò che siamo, quello che proviamo, ciò che ci sta intorno."

"Héroïsme? Ma per carità! No," replicò lui, la voce dura. "È fuga, ti ripeto. Questo autore o autrice dimostra solo di saper nascondersi nell’inchiostro, evita il confronto con la vita. Noir. Noir. Noir… questo affonda. Altro che Eroe! Ma per piacere..."

Non capisce… pensò Sophie, e volle insistere: "Non tutti i dolori si sanano con l’azione. La vita reale non può contenere tutto ciò che proviamo; la scrittura è il nostro spazio, l’unico luogo dove ciò che conta può sopravvivere."

Alexandre si appoggiò al tavolo, la fronte corrugata. "Persistance? Rester en vie? Sopravvivere? Forma? La vita è confronto, rischio, azione! Odori, profumi, sapori, suoni...esperienze sensoriali! Tout le reste, c’est du pipeau! Tutto il resto è aria fritta!"

"Du pipau?" ribatté Sophie, con voce vibrante. "È la forma più alta e nobile della resistenza! La scrittura mantiene vivo ciò che è morto, fissa un’assenza o una presenza, una gioia! Non è fuga, è vita che non si spegne!"

Da un tavolo vicino, Jean-Luc, uno studente di filosofia dai capelli arruffati e segretamente innamorato di Sophie - che aveva origliato tutto - sbuffò e si rivolse a Dubois con tono canzonatorio:

"Alexandre, Anonimo Russo-Euclide 15-0, battuta regolare! La vittoria dura poco: solo la sconfitta è per sempre! Point barre. Fin de l’histoire."

Alexandre lo fissò, irritato e sorpreso, mentre Sophie a fatica tratteneva un sorriso.

Fu allora che la voce calma e misurata del professor Henri Leclerc, seduto a parte con un libro di diritto penale, si fece sentire:

"Écoutez-moi un peu... Vedete, ragazzi, non avete ragione del tutto, né torto completamente. L’autore o autrice non è né solo vittima, né solo eroe. La scrittura è si rifugio, ma anche resistenza. Trasforma il dolore in forma, la perdita in memoria. Senza la scrittura, ciò che è vissuto svanirebbe; senza l’azione, però, la vita sarebbe vuota. Qui c’è chi sopravvive e chi trionfa sul tempo e sulla morte. La vita è sintesi di estremi: fuga e eroismo, dolore e creazione, assenza e memoria. Camminare sul filo degli opposti è ciò che la rende piena. Et voilà, c’est tout."

Sophie annuì, illuminata dalla comprensione. Alexandre serrò le labbra, pensieroso, accettando con scarsa convinzione e a malincuore la complessità della realtà, e si ributtò con più determinazione sullo studio delle funzioni trigonometriche, mentre Jean-Luc sorrise soddisfatto.

La poesia non era più solo un testo da analizzare: era diventata un incontro con un’anima sospesa tra sofferenza e creazione. In quel frammento di inchiostro noir, ciascuno di loro aveva trovato, a modo proprio, una scintilla di vita, una lezione sull’infinita oscillazione tra Vita e Morte.

Proprio come le oscillazioni di una funzione y= sen(x)

E mentre il sole calava, i tre studenti e il professore rimasero sospesi, consapevoli che la vita è sempre più complessa dei versi, eppure ogni parola scritta, ogni azione vissuta, lascia traccia nell’inchiostro e nel cuore.

O, almeno, di chi vuole e sa ascoltarlo.

Ça va sans dire.

martedì 30 settembre 2025

GREY LEGACY


Patrick ha sessant’anni. Fa ancora il poliziotto, e gli mancano pochi anni alla pensione. Oggi è il suo turno di riposo. Cammina sulla spiaggia di Keansale, in Irlanda, e il vento freddo gli sferza il volto, come un richiamo costante: “non sei più giovane, ma sei ancora qui”. Le onde si frangono lente sulla sabbia scura, e lui avanza, passo dopo passo, misurato, come se la spiaggia stessa fosse un registro del tempo, un archivio del passato che solo i capelli grigi possono leggere.

C’era un tempo in cui i capelli grigi erano considerati un sigillo di autorevolezza. Non sempre meritato, beninteso, ma sufficiente a conferire un rispetto tacito. Oggi, invece, quei capelli sembrano soltanto un certificato di obsolescenza, un bollino invisibile che recita: legacy umano. Nessuno ti aggiorna, nessuno ti corregge, nessuno ti chiede permesso: sei semplicemente un residuo di qualcosa che ormai non serve più.

Per lungo tempo, quando lui era giovane, c’era una gara silenziosa a carpire i segreti di quelli con i capelli grigi. Non per vanità, non per invidia, ma per correre più veloce. Chi li possedeva sapeva scorciatoie invisibili, anticipava ostacoli, conosceva il mondo prima ancora di affrontarlo. La memoria, la lentezza ponderata, il pensiero riflessivo: strumenti indispensabili. Senza di essi, correre significava inciampare.

Oggi quelli dei capelli grigi, come lui, sono un ingombro. Troppo lenti nell’universo digitale. Il loro sapere è diventato un intralcio, la loro memoria una perdita di tempo. La memoria non fa like. Non produce flussi, non alimenta feed, non aggiorna il cloud. Serve solo chi sa postare, creare contenuti in grado di dilatare un eterno presente, aggiornare continuamente, perchè altrimenti diventa obsoleto in 5 minuti. Tutto il resto è legacy. Bug permanente. Peso inutile.

Patrick osserva i giovani correre. Li compatisce ma senza rancore. Non li giudica. È sempre stato così: i giovani guardano avanti, e sempre lo faranno. La differenza è che oggi non hanno bisogno di ciò che lui sa. Vogliono velocità. Connessione. Dati in movimento. E non importa quanto tu ricordi: non rallenti solo loro, sei inutile per la corsa digitale.

Racconti qualcosa del passato?
Fastidio.
“Ah sì… bello… ma possiamo correre adesso?”
Correre? Non vogliono memoria.
Non vogliono storia.
Non vogliono sapere cosa è successo prima di questa app.
Vogliono solo velocità.

Suggerisci un consiglio?
“Oh, ok… ma puoi correre più veloce?”
Racconti un’esperienza?
“Interessante, ma è inutile: così si rallenta.”


Un tempo parlava, e i ragazzi ascoltavano perchè avevano fretta d'imparare mentre adesso pare abbiano desiderio solo di dimenticare, di andare oltre, il suo sapere non è più funzionale.

"Prima eri saggio; oggi sei l’unico in sala che non ha l’app per votare il menu."

Eppure li guarda, e sorride. Così convinti, così impazienti, così certi che ciò che non è nel cloud non esista. Non sanno cos’è la conoscenza vera. Non sanno cosa significhi ricordare senza digitare nulla, senza aggiornare, senza connessione.

E lui resta lì. Patrick, capelli grigi, lento, pieno di ricordi inutili per la corsa di oggi. Ma felice. Felice della sua lentezza. Felice della sua memoria offline, come quella acquisita dai vecchi colleghi: “Non farti vedere, ma osserva tutto – gli aveva detto il sergente McGovern durante un pedinamento – Impara il ritmo della vita delle persone. Solo chi conosce i tempi può anticipare le azioni.” Patrick ricorda il suono dei passi nel vicolo bagnato, l’odore della pioggia mista a quello del fango e del legno umido, e come il sospetto, ignaro, arrivò al punto giusto. Grazie a quell’insegnamento, la situazione fu risolta senza che nessuno si facesse male, e il collega più giovane imparò da quella calma misurata. Nessun GPS, nessun feed, nessuna app avrebbe potuto dare quell’intuizione: solo l’esperienza, la memoria e la pazienza offline.

Ed era felice di sapersi emozionare per cose che il cloud non potrà mai dare. Può osservare, ridere un po’ delle loro app, dei feed, della loro fretta digitale… e sentirsi ancora intero.

Correre sempre non è vivere sempre. Essere costantemente connessi non è sapere. E sapere tutto, senza cercarlo nel cloud, è un privilegio che nessuno potrà mai portargli via.

Il vento lo colpisce di nuovo, le onde ritornano e si ritirano. Il cloud si aggiorna senza sosta. Lui osserva. Il tempo si muove più lentamente sulla sabbia. E va bene così.

domenica 28 settembre 2025

A RESIUTTA RIVIVE UN PEZZO DI CUORE CIVIDALESE

Chapeau a chi ha avuto l’idea ed ha saputo realizzarla: dal 2019 la mitica littorina ADn800 operativa dal 1959 al 2005 sulla Udine-Cividale è stata trasformata in bar-ristorante a servizio della stazione di Resiutta sulla ciclabile Alpe-Adria, che ha sostituito la vecchia ferrovia.

Entrare e sedersi sui seggioloni verdi è stato peggio che entrare in una macchina del tempo, ripensando a quanti viaggi sono iniziati e terminati lì dentro, a quanti sogni, speranze, timori, gioie, dolori si sono consumati negl’anni sentendo lo sferragliare della mitica littorina.

Un vero e proprio microcosmo in movimento nei 20 minuti del tragitto tra Udine e Cividale, che ha visto nascere amori, amicizie e progetti professionali e imprenditoriali.

Mio santolo, ad esempio, fu un macchinista della linea: non era un parente ma aveva conosciuto mio padre in treno, quando il babbo da pendolare, ogni mattina si recava, giovane garzone, a lavorare nel negozio udinese della catena  "Morassutti" in riva Bartolini (oggi sede della Biblioteca Civica).

Peccato che a suo tempo nessuno dei miei concittadini abbia pensato di farla riposare, ridandole nuova vita, nella sua sede naturale, dove, tra le altre cose, tanta gioventù italiana in età di leva ci ha lasciato un bel po’ di lacrime e sorrisi, trasportata da quei sedili verdi. Dal 1959 al 2005.

Insomma, un bel pezzo di cuore cividalese - e oltre - rivive sulla pontebbana.

martedì 23 settembre 2025

MIDNIGHT IN LITTLE ROCK

La notte era umida, carica di un odore di terra bagnata che sembrava contenere, insieme all’umidità stessa, il peso di tutte le attese mai realizzate, i sogni mai osati e i ricordi che non erano mai stati.
Samuel camminava lungo la strada sterrata, con una valigia il cui peso non era solo fisico ma quasi morale, come se dentro ci fosse concentrata la gravità di ciò che avrebbe potuto fare e non aveva ancora fatto, mentre dietro di lui brillavano le luci tremolanti delle fattorie dell’Arkansas.
Luci in lontananza, fragili e oscure, come se fossero sospese tra ciò che resta e ciò che si lascia andare, continuavano a luccicare come piccole promesse che lui stava, in qualche modo, tradendo, mentre davanti si stendeva la highway lucida di pioggia che lo avrebbe condotto verso Little Rock e, oltre ancora, verso New York.
La Big Apple, la città mai vista, eppure così abitata nei suoi sogni da sembrare reale, promessa e minaccia insieme, spazio dove il desiderio e l’incertezza si mescolano in un nodo così intricato che pensare al futuro provoca vertigini tali da confondersi con il corpo stesso, con la respirazione, con la terra sotto i piedi.

Nella tasca interna del giubbotto portava la lettera dell’Actors Studio, già stropicciata dalle mani che l’avevano letta e riletta, come se ogni piega fosse un segno tangibile della tensione fra ciò che desiderava e ciò che temeva; non era un invito, non era una porta aperta, solo una fessura che prometteva qualcosa e nello stesso tempo minacciava il vuoto, e le parole che Nathan gli aveva detto, lo seguivano come un’ombra permanente, non lasciandolo solo un istante:

«Uno su mille ce la fa, è risaputo: e senza qualcuno che ti spalanchi la porta, che ti sponsorizzi, Samuel, sarai solo uno dei novecentonovantanove che tornano qui, più vecchi e più arrabbiati, magari tossico e con le pezze al culo.»

E così, forse più per la necessità di nominare quella paura che per vera convinzione, Samuel si diresse dal sig. Carter, il vecchio ufficiale dell'anagrafe in pensione, cercando qualcuno che sapesse dare un volto al terrore del fallimento, che potesse insegnargli, con la sola presenza e senza fretta, a riconoscere il senso di ciò che lo paralizzava.

La casa di Carter non era costruita; sembrava sedimentata nel tempo, un accumulo di anni e di attese non compiute, un edificio che respirava lentamente e che raccontava storie di compromessi e di desideri traditi attraverso le assi scricchiolanti e le persiane che il vento sollevava e lasciava ricadere.
Sulla veranda, una sedia a dondolo oscillava, lenta e regolare, sospesa tra il movimento dell’aria e quello dei pensieri del proprietario, che sedeva avvolto in una coperta, lo sguardo perso nella campagna notturna e nello stesso tempo dentro se stesso, come chi porta addosso una vita intera di strade parallele consumate, una vita in cui ciò che si amava di più veniva rimandato o sacrificato, sempre, per la ragionevolezza, per la sicurezza, per il dovere, per il compromesso. 
Ogni vecchio ha un odore, e Carter aveva quello della carta, dei faldoni, delle stanze d’ufficio e dell’illusione che la vita possa essere domata con firme e timbri.

Samuel esitò.

«Mr. Carter… non so che fare. Se resto qui, frequento l’università locale, entro nell’azienda di famiglia: vita sicura, prevedibile, protetta… senza sorprese né umiliazioni. Ma se parto per New York, inseguo il sogno di diventare attore… e se fallisco, torno indietro con niente. Uno dei novecentonovantanove, come dice Nathan.»

Il silenzio cadde tra loro come una coperta pesante eppure fragile, e solo il dondolio della sedia rompeva la quiete, come un battito di cuore esterno, lento e insistente, mentre la notte sembrava sospendere il tempo, trattenere i secondi in attesa di una risposta che non era solo per Samuel ma per chiunque si fosse trovato di fronte a un bivio della vita senza sapere quale strada scegliere.

Carter si schiarì la voce e cominciò a parlare, lentamente, come se avesse tutta la vita per spiegare, come se le parole stesse non potessero mai contenere pienamente ciò che voleva dire:

«In ogni caso saresti in buona compagnia, Samuel; non ti cruciare troppo» 

esordì Mr. Carter, con un mezzo sorriso fissando il giovane bonariamente, quasi a voler alleggerire il peso che insisteva sul ragazzo; ma poi si fece più serio e, spostando lo sguardo verso l'orizzonte  proseguì: 

 «Quando avevo vent’anni, Samuel, ero come te: avevo molti talenti, alcune cose le facevo così bene da intuire già allora che la vita avrebbe potuto chiedermi di dare il meglio di me. Ma non è andata così. Ho sempre saputo cosa non volevo fare, più che ciò che volevo, e così mi affidai al compromesso: accettare temporaneamente ciò che detestavo, convincendomi che nel frattempo avrei costruito una strada parallela, una via segreta, che mi avrebbe portato finalmente a ciò che desideravo davvero. Ma le strade parallele non resistono, Samuel. Si consumano. Si dissolvono. E io rimasi solo sulla strada che temevo e che avevo giurato di non percorrere.» 

Mr Carter interruppe per un attimo il suo dicorso per estrarre dalla tasca un pacchetto di sigari cubani e dopo averne acceso uno e riempito dell'aroma di tabacco tutto l'ambiente, con uno sbuffo, proseguì. 

«Ho passato la vita a fare ciò che detestavo, e per di più lo facevo male, mentre tutte le mie capacità migliori restavano inutilizzate, intrappolate in una società che, al di sotto delle frasi fatte di circostanza, non vuole riconoscere il merito, non è interessata valorizzare ciò che un uomo sa fare meglio, perché l’obiettivo non è la crescita ma la conservazione del potere. E raramente un uomo di valore, che per essere tale deve essere un campione del libero pensiero e navigare lontano dal mare dei pregiudizi, può essere strumentale a chi comanda. Un uomo libero non si fa manipolare, e se non sei manipolabile o ricattabile diventi un pericolo e, perciò, chi è al potere trova il modo di metterti fuori gioco, con le buone o con le cattive; sia che tu viva in una democrazia o in una dittatura. Variano solo i metodi, non la sostanza. »

Fece un'altra pausa. Respirò. «Mentre tu disegni la tua strada con i sogni, Samuel, la Vita ne disegna un’altra con strumenti diversi. Raramente coincidono.»

Alzò gli occhi al cielo e poi, inspirando profondamente sorrise appena, come se scherzasse con se stesso e si rivolse di nuovo a Samuel:

«Ma la vita… la vita ha un modo tutto suo di insegnarti che, qualunque strada tu scelga, anche quella apparentemente giusta, col tempo, tende a diventare ordinaria. Tutto ciò che ora ti sembra straordinario — i successi, le possibilità, perfino i tuoi sogni — finirà per diventare acquisito, scontato. Ti concentrerai sempre su ciò che non funziona, su ciò che manca, e dimenticherai quanto hai avuto.»

Mr. Carter, abbassò il capo per un istante, quasi avesse vergogna per quanto aveva detto, ma poi riprese senza tentennamenti ciò che stava per diventare una confessione.

«Io, con i miei compromessi… ho visto svanire molte possibilità di dare il meglio di me. Probabilmente molte più di quante ne avrei potuto cogliere, ma mi hanno anche portato fin qui, a un’età in cui posso osservare i ragazzi come te, parlare della vita senza ansia, senza fretta… a fare il mentore. E in questo, credimi, c’è una forma di pace. Una pace che non vale meno dei sogni, solo perché arriva con i capelli grigi e meno strada da percorrere in avanti.»

Poi abbassò lo sguardo sulle mani, più a se stesso che a Samuel.

«La natura umana è così: sempre pronta a desiderare ciò che non ha, a rimpiangere o mitizzare ciò che ha perso, a trascurare le conquiste che invece ha ottenuto. Fa parte del gioco, ma comprenderlo significa uscirne vincitori, perchè solo così puoi imparare a scegliere senza essere schiacciato dalla paura del futuro e, soprattutto, a godere nel presente di ciò che hai saputo comunque costruire.»

Il vecchio ufficiale dell'anagrafe di Little Rock continuava a sbuffare tabacco come il camino di una locomotiva lanciata a tutta velocità verso il capolinea di un viaggio nel selvaggio West.  

« E c’è un’altra verità che devi sapere. Forse, arrivando a New York, scoprirai che ciò che inseguivi non era la tua vera vocazione. Forse ami solo l’idea di essere un attore, mentre il mondo reale del cinema, delle audizioni, dei rifiuti continui, non è affatto quello che avevi immaginato e potrebbe richiederti compromessi ben più grandi con la tua coscienza. Oppure la tua vocazione è autentica, ma per qualcosa che al mondo non interessa, qualcosa che non ha spazio, e che nessuno sarà disposto a coltivare. E questo non è una condanna: è solo un modo della vita per ricordarti che i sogni spesso esistono al di là della realtà, e che affrontare questa distanza è parte del prezzo che si paga per vivere.»

Samuel abbassò lo sguardo, le mani strette attorno alla valigia.

«Ho paura, Mr. Carter. Paura di fallire, paura di scoprire che non sono abbastanza, paura di buttare via anni preziosi.»

Carter lo guardò a lungo, e la sua voce si fece calma e tagliente al tempo stesso:

«La paura non è il tuo nemico, Samuel. È un messaggero. Ti segnala che c’è un pericolo, ma non ti dice quale, quello lo lascia scoprire a te. E il vero dramma, il vero fallimento, non è seguire la paura: è non scegliere, illudersi che non scegliere conservi intatta la possibilità di un sogno senza pagare il prezzo del rischio, senza sopportare il peso della paura. È pensare che potrai comunque un giorno raggiungere le stelle, semplicemente guardandole dal basso. È il rischio di ritrovarti, a cinquant’anni, a osservare il cielo notturno con il cuore fermo, sapendo che quelle stelle non si possono mai raggiungere,  consolandoti solo con il fatto che almeno esistono ancora, sospese, lassù, da contemplare.»

E fece una pausa, lasciando che le parole scendessero lente come pioggia sul terreno della mente del ragazzo:

«Quando ascolti la paura, chiedile: ‘Da che cosa stai cercando di proteggermi?’ Non sempre il pericolo che percepisci è reale. Solo comprendendolo puoi scegliere davvero.»

L’alba cominciava a tingere il cielo di rosa e arancio, e la luce scivolava tra i campi come una promessa che nessuno aveva chiesto. Samuel prese la valigia. Davanti a lui, la strada si divideva:
a sinistra, la stazione degli autobus per New York;
a destra, l’università e l’azienda di famiglia, la sicurezza che sarebbe stata insieme consolazione e prigione.

Mr. Carter rimase sulla veranda, senza chiamarlo. Solo il dondolio della sedia rompeva il silenzio, mentre il vecchio osservava il ragazzo allontanarsi tra le luci dell’alba. Mr. Carter si rivolse da lontano, un'ultima volta, a Samuel. 

«Ricorda: ogni scelta vera comporta un cambiamento drastico del contesto in cui ci si muove. Non esiste percorso senza imprevisti, senza ostacoli imposti dagli altri o dalla natura stessa, e quando li affronterai scoprirai risorse che neanche sospettavi di avere. Abbi fiducia, Samuel! Ogni bivio è un rischio, ma anche un’occasione di meravigliarti per ciò di cui sei davvero capace.»

Poi mormorò, come parlando a se stesso:

«Ogni volta che un talento si spegne, la società perde una parte di sé, ma la ferita più grande è di chi scopre che non ha mai davvero scelto la sua strada.»

E il vento portò via le sue parole, mentre Samuel camminava verso ciò che ancora non sapeva essere il suo destino, con le stelle sospese sopra di lui, splendenti e irrangiungibili, come tutte le verità della vita, mentre ogni passo, ogni scelta, ogni paura e ogni rischio cominciavano a delineare la forma di ciò che avrebbe potuto essere la sua esistenza.

lunedì 22 settembre 2025

DOGE 3.0 - ULTIMA POESIA A VENEZIA

La porta si aprì con un lieve sibilo e una voce metallica disse:

“Accesso confermato. Utente: Marco Loredan. Tempo di permanenza autorizzato: sei ore e trentadue minuti.”

Marco entrò in casa scalciando via le scarpe umide mentre l’acqua salmastra gli colava ancora dai capelli . Era stata una giornata lunga nella Zona Nova Laguna, il quartiere che si affacciava sul vecchio bacino di San Marco. Il sensore d’ingresso gli proiettò davanti agli occhi un piccolo ologramma personale, con il riepilogo della giornata e un avviso lampeggiante:

«La tua frequenza cardiaca è oltre la soglia. Rilassati. Riposo consigliato: due ore.»

Venezia, nel 2125, era una città sospesa tra mito e rovina.
Diecimila anime appena, concentrate in pochi isolotti artificiali collegati da ponti di vetro e titanio, mentre l’antico centro storico, restaurato a tratti e continuamente sorvegliato, era accessibile solo a giorni alterni, e solo pagando la tassa d’ingresso di 5.000 euro. Un lusso che Marco non poteva permettersi, se non come guida virtuale per i turisti degli Emirati Arabi.

La sua ragazza lo aspettava sul divano, con un visore olografico abbassato sulla fronte. Era immersa nella sua sessione di lavoro remoto, obbligatoria per chi aveva un punteggio sociale medio-basso.

«Sei in ritardo,» disse Elena senza voltarsi, la voce velata da un leggero rancore.
«Lo so, ma… ho una buona scusa.» Marco si lasciò cadere accanto a lei, ansimante, le gocce di pioggia che evaporavano rapidamente sul tessuto autoasciugante del divano. «Non crederai a quello che ho trovato oggi nel vecchio archivio di nonno nella soffitta della sua casa abbandonata. Il Doge mi ha avvisato che c'era una potenziale infiltrazione nel tetto e mi ha "consigliato" di riparare il danno quanto prima. E così, ribaltando una vecchia cassa nel buio, ho trovato questo.»

Elena si tolse il visore, rivelando i suoi occhi grandi, curiosi e stanchi. «Un’altra cianfrusaglia pre-digitale? Un chip rotto? Una moneta arrugginita?»
Marco scosse la testa e le porse un foglio ingiallito, custodito in una busta di plastica trasparente.
«No. Questa volta è… diverso. È carta. Vera. E sopra c’è qualcosa scritto a mano. e una data: luglio 2003, la firma è del bisnonno.»

Elena lo prese con delicatezza, come se avesse paura che si disintegrasse. La calligrafia era incerta, ma leggibile. Lesse a voce alta:

Corpi in caduta.
Menti disciolte.
Pensieri alla deriva.

Come un naviglio senza
possibilità di approdo.

Come una cloaca senza sfogo.

Prego Milord,
digiti pure qui
il suo codice segreto.

Ci fu un silenzio lungo, rotto solo dal ronzio basso del sistema di climatizzazione.

«È… inquietante,» mormorò Elena. «Sembra un messaggio in codice.»
«Non ne sono sicuro. Il bisnonno scriveva poesie, a quanto ci raccontava papà, ma non ne avevo mai lette. Questa mi ha colpito perché sembra parlare di noi, non del mondo dei nonni.» Marco indicò l’ultima strofa con il dito. «Guarda: “digiti pure qui il suo codice segreto”. Non sembra descrivere quello che facciamo ogni giorno con l’AI cittadina?»

Elena rise, ma era una risata nervosa.
«Oggi l’AI non ci chiede un codice, ci dice lei direttamente cosa fare. Stamattina, per esempio, mi ha vietato di prendere il traghetto per Nova Murano perché la mia previsione di stress era troppo alta.»
Scosse la testa. «È assurdo, Marco. Non decidiamo più niente. L’altro giorno ho visto una donna piangere davanti al terminale perché l’AI le aveva negato il permesso di uscire di casa.»

Marco replicò: "E' vero, ma tutto questo è necessario per mantenere la nostra sicurezza, per azzerare i rischi che i comportamenti irrazionali ed emotivi di chi c'era prima di noi avevano creato per la sopravvivenza di Venezia e di tutto il pianeta!"

La città era governata da un’unica intelligenza artificiale predittiva chiamata il Doge 3.0, denominata così per analogia con l’antica figura politica veneziana. Ogni mattina, esattamente alle 6:00, l’AI inviava a ogni cittadino una sequenza personalizzata di comandi tramite i Nexus, piccoli dispositivi impiantati sotto la pelle all’altezza del polso.L’interfaccia era invisibile agli altri, ma chi la riceveva vedeva comparire davanti agli occhi una scritta luminosa, proiettata direttamente nella retina:

«Sveglia alle 6:35. Evitare zona Nuova Rialto 2.0: rischio assembramento. Livello emotivo attuale: medio. Consigliata attività di meditazione.»

Gli ordini non erano mai espliciti: erano “consigli vincolanti”, che nessuno osava infrangere. Le rare eccezioni venivano immediatamente segnalate ai Guardiani di Sestiere, i droni di sorveglianza che pattugliavano le calli sospese.

Tutto era ottimizzato per la sicurezza e la stabilità, dicevano le autorità.
Ma di fatto, era come vivere dentro una prigione elegante.

«Forse,» disse Marco, «queste parole avevano un senso diverso ai tempi di nonno. Magari parlava di banche, di soldi, di… come si chiamava quella cosa? Ah, sì: i bancomat!»
«Il bisnonno viveva quando le persone potevano entrare a Venezia senza pagare 5.000 euro, vero?»
«Sì. Diceva che c’erano ponti affollati, calli piene di turisti… sembrava un inferno, ma anche molto vivo.»

Elena si strinse nelle spalle.
«Non riesco a immaginarmelo. Una città dove si poteva andare e venire liberamente, senza previsioni algoritmiche. Dove le persone decidevano da sole se prendere un traghetto, se incontrarsi o restare a casa.»
Il suo tono era sognante, ma anche scettico, come se parlasse di un mito lontano.

Marco riprese il foglio e lo guardò con attenzione.
«Corpi in caduta. Menti disciolte. Pensieri alla deriva. Non ti sembra… una descrizione della nostra epoca? Corpi controllati, menti spezzate dai dati, pensieri che non hanno direzione.»
«Ma cosa significa naviglio senza approdo? O cloaca senza sfogo? Non sono parole che usiamo oggi.»
Elena fece scorrere la mano sopra un piccolo schermo, cercando nella banca linguistica.
«Naviglio: antica imbarcazione. Cloaca: sistema di scolo per acque sporche.»
Fece una smorfia. «Bleah. Strano davvero. Forse alludeva al degrado della città, quando l’acqua era ancora una cosa viva e non solo un elemento scenografico come oggi.»

Un bip improvviso interruppe la conversazione.
Comparve a entrambi l’interfaccia olografica del Doge 3.0:

“Avviso a Marco Loredan ed Elena Bembo: la vostra conversazione sta superando i parametri consentiti di criticità emotiva. Vi consigliamo di interromperla. Prossima verifica tra 30 secondi.”

Elena sbiancò.
«Ci stanno ascoltando.»
«Ci ascoltano sempre, perchè ti meravigli? E' per il nostro bene.» rispose Marco, stringendo il foglio. Poi, con uno scatto improvviso, lo infilò sotto la maglia.
«Questo testo… non deve finire nei loro archivi. È nostro. È di famiglia. E forse contiene una verità che dobbiamo capire.»

Elena lo fissò, combattuta tra paura e desiderio di ribellione.
«Ma come possiamo interpretarlo, se non comprendiamo il mondo da cui viene?»

Marco si voltò verso la finestra. La laguna scura rifletteva i neon delle torri artificiali, e in lontananza, oltre la Zona Ristretta, si intravedevano i campanili antichi, come fantasmi.

«Forse,» disse lentamente, «dobbiamo fare quello che l’AI non vuole: entrare nel centro storico nei giorni proibiti. Cercare altri indizi. Scoprire come vivevano quando la parola libertà non era ancora un termine obsoleto. Forse qualcuno, da qualche parte, ricorda ancora cosa significava vivere senza un algoritmo a consigliarti.»

Marco abbassò lo sguardo sul punto in cui il foglio era nascosto sotto la sua maglia. Sentiva il cuore battere troppo forte, quasi fuori controllo, e si chiese se anche quello fosse già stato registrato dal Doge.
Un pensiero lo trafisse: l’AI poteva comprendere quelle parole molto meglio di loro, forse le aveva già interpretate nel momento stesso in cui Elena le aveva lette ad alta voce.
E se il Doge non voleva che ne conoscessero il vero significato?
Se stava già riscrivendo i loro destini, come faceva ogni mattina con i suoi “consigli vincolanti”?

Elena gli strinse la mano, tremante. «Marco… e se ci stessero già preparando una nuova sequenza? Una che ci separi per sempre?»

Marco serrò la mascella. Guardò di nuovo verso la finestra: la laguna era ancora una distesa scura e innaturale, illuminata solo dai bagliori intermittenti dei droni-Guardiani ma ora, in lontananza, le sagome dei campanili antichi sembravano protendersi verso di loro, non più solo come fantasmi ma come muti testimoni di un passato che non conoscevano.

«Forse,» disse con un filo di voce, «il vero codice segreto… siamo noi. La nostra capacità di scegliere, di pensare. E se il Doge ha paura di queste parole, allora significa che dobbiamo scoprire perché.»

Un altro bip più acuto.

“Tempo scaduto. Conversazione interrotta.”

Le luci di casa si abbassarono automaticamente e Marco ed Elena restarono immobili con le mani saldamente intrecciate, mentre nel silenzio la poesia sembrava risuonare nella loro mente come un codice segreto da decifrare per davvero ad ogni costo.

Un ronzio acuto si fece più vicino. Le mani rimanevano intrecciate, il foglio un peso impossibile sotto la maglia.
Marco comprese con chiarezza: il Doge non avrebbe mai permesso che loro comprendessero la verità.
Non senza un prezzo.
Non senza controllo.

A qualunque costo.

Sulle loro retine comparve improvvisamente l’interfaccia olografica del Doge 3.0, luminosa e fredda:

“Avviso a Marco Loredan ed Elena Bembo: tentativo di decifrare il codice segreto rilevato. Intervento immediato consigliato. Conseguenze impreviste.”



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