venerdì 27 giugno 2025

RISTORI, DUCALE, IMPERO: IL MULTISALA DEI CHIERICHETTI

Era una di quelle serate di inizio estate in cui il cielo sembra non volersi mai spegnere e, finalmente, l'aria fresca che arriva dalle valli del Natisone attraverso la forra del fiume, portava come di consueto un po' di refrigerio a Cividale. Andrea, tredici anni appena compiuti, trotterellava al fianco del padre lungo il Ponte del Diavolo godendosi quella pausa dopo la calura della giornata, diretto verso la gelateria preferita. Il padre, quasi sessantenne, camminava piano, con quella calma tipica di chi ha imparato a gustarsi le cose.

"Papà, ma quando eri ragazzo tu, cosa facevi la domenica pomeriggio?", chiese Andrea, mentre si leccava il primo strato del suo cono al gusto di gubana.

L'uomo sorrise, quasi commosso da quella domanda, e si prese qualche secondo per rispondere. "Beh, io assieme agli amici del borgo eravamo sempre in giro. Le partite di calcio al campetto del pattinaggio, soprattutto; quello che c’era dove da poco hanno coperto la pista oppure si giocava sul prato del Convitto Nazionale Paolo Diacono, o il cortile della scuola elementare Manzoni o dove trovavamo uno spiazzo libero; la cosa che mi piaceva di più, però, era andare al cinema."

"Al cinema? A Cividale c’era un multisala?!", fece Andrea stupito.

"Tre, in realtà, ma non erano multisala", rispose il papà, ridendo. "Dai, ti porto a fare un giro. Te li faccio vedere."

Si avviarono lungo il corso. "Negli anni '70, le sale cinematografiche erano ancora un importante luogo di ritrovo. Ma i veri anni d’oro furono i '50 e i '60, con tre cinema sempre pieni. Il primo era il Cinema-Teatro Ristori, proprio qui in via Ristori. Aveva circa 600 posti, ed era comunale, gestito dalla famiglia Cumini."

Si fermarono davanti all’edificio, dal 1986 ritornato, tra diversi restauri,  solo alla sua funzione originaria di teatro, benché privo dei palchi in legno di 100 anni fa; all'inizio era quello il cinema delle 'prime visioni', e dopo un po’ arrivavano solo i film che erano già passati a Udine."

"E gli altri due?"

"Il secondo era il Cinema Ducale annesso al Ricreatorio "Sacro Cuore", in piazza Picco. Di proprietà della Parrocchia, anche quello sempre pieno. Lì ci si andava con la famiglia, i film erano quelli adatti a tutti, un luogo davvero speciale."

"L'Impero, in Corso Mazzini, invece era un po’ diverso. Aveva solo 200 posti, ed era dedicato quasi esclusivamente ai film per adulti, tranne a Natale e Pasqua. 

"Il Ristori esponeva il manifesto della pellicola in programmazione su piazza Diaz, mentre il Ducale sul lato sinistro dell'Arsenale Veneto verso Borgo San Pietro e l'Impero, esclusivamente per le proiezioni natalizie e pasquali o quelle rare "per tutti", in Largo Boiani, di fronte alla farmacia Minisini - le proiezioni "ordinarie" erano invece "pudicamente" esposte solo sulla vetrata d'ingresso in Corso Mazzini.
Riuscire a procurarsi un manifesto gigante di quelli che reclamizzavano le pellicole era un'impresa impossibile: riusci ad avere quella di "Innamorato Pazzo" con Celentano e la Muti e quella di "1997 Fuga da New York" per appenderli orgogliosamente in camera solo quando il cinema "Ristori" chiuse i battenti e tormentai fino allo sfinimento, a forza d'insistere, il proprietario." 

Andrea lo ascoltava in silenzio, colpito. "E quando hanno chiuso?"

"Il Ducale fu il primo, nel 1979. Non ce la faceva più a coprire i costi. La Curia vendette l'area assieme al Ricreatorio alla ditta Vidussi, che demolì tutto nel 1990. Al suo posto, adesso ci sono negozi, una banca e il parcheggio a pagamento; il Ristori chiuse nel 1986 per essere ristrutturato come teatro, e ogni tentativo di riaprire le proiezioni è sempre fallito. L’Impero resistette fino all’inizio degli anni ’90, ma con la chiusura delle caserme, anche lui dovette arrendersi
Oggi resta la facciata, mentre all'interno c'è la profumeria Beauty Star."

Camminavano lentamente, e il padre si fermò davanti a un punto preciso di piazza Picco. "Sai, è qui che ho visto i miei primi film. Gli Aristogatti, Fantasia, Torna a casa Lessie, ma anche 2001 Odissea nello Spazio, La fuga di Logan, Il giorno più lungo, e tutti quelli di James Bond con Sean Connery e, ovviamente, tutte le scazzottate di Bud Spencer e Terence Hill."

Andrea lo guardava con occhi grandi. "Ma ti ricordi tutto?"

"Come potrei dimenticare? Avevamo i biglietti gratis se servivamo messa. Monsignor Corrado Puppa li dava a chi faceva il chierichetto alla funzione delle 10:30. Era una messa lunghissima, con molte parti in latino, ma per me e per diversi amici era un modo per guadagnarsi un pomeriggio al cinema."

Arrivati di nuovo in piazza, il papà concluse: "L’ultima volta che entrai al Ducale fu nel gennaio del 1979. Proiettarono 'Grease' con John Travolta e Olivia Newton John, e per l’occasione don Corrado fece uno stroppo alle regole: la sala era strapiena, forse c’erano tutti i ragazzi della città, pure quelli che non andavano a messa la domenica e probabilmente fu l'incasso che serviva per pagare un po' di conti in sospeso."

Si fermarono e si sedettero sulle panchine all'obra dell'area ove una volta c'era un distributore della Gulf; Andrea lo fissava, pensieroso. "È strano pensare che qui ci fosse tutto questo, che tanta gente si ritrovasse davvero per sognare insieme."

"Sì", disse il padre, fissando l'edificio dove un tempo sorgeva il cine ma Ducale. "Nessun home theater, nessun Dolby o schermo gigante potrà mai dare quelle stesse emozioni. Soprattutto quando la sala era piena e tutti respiravano lo stesso sogno."

mercoledì 25 giugno 2025

SELINUNTE.EXE - ERROR 404: HUMAN OUT OF SYSTEM


Il sole di giugno calava obliquo sulle rovine di Selinunte, tingendo d’ambra le colonne spezzate e i capitelli disseminati tra l’erba secca. L’antico Tempio di Hera si stagliava solenne sul profilo del mare, come un avvertimento pietrificato mentre il vento portava odore di sale e lentisco, e con esso un silenzio strano, che sembrava chiedere rispetto.

L’uomo era seduto su una pietra piatta, sotto il porticato di quello che un tempo era un altare. Sessant’anni, forse poco più. Canizie ordinata, volto scavato dal sole e da qualche rimorso antico. Osservava il proprio cellulare con lo stesso sguardo con cui un contadino guarda una zappa rotta. Sullo schermo lampeggiava un messaggio: “Errore: impossibile aprire il contenuto.”

«E va' a cagare, pure tu e ‘sto cazzo di QR Code!» sbottò, non alzando neppure il tono.

La voce attirò l’attenzione di un ragazzo poco distante. Occhiali tondi, maglietta con una scritta criptica in codice binario, zainetto minimal. Si avvicinò sorridendo.

«Problemi di connessione o di interpretazione?»

L’uomo sollevò lo sguardo. «Entrambi. Ma è la seconda che mi preoccupa di più.»

Il ragazzo si chinò, gentile. «Posso aiutare? Sono un informatico, se vuole posso farle accedere al contenuto in due secondi.»

«No, no… è il contenuto che mi infastidisce, non la fatica per accedervi.»

Il giovane rise, pensando fosse una battuta. Poi, nel notare lo sguardo serio dell’uomo, tacque.

«Questi cosi… QR code, AI, app che ti spiegano la storia, che ti suggeriscono le emozioni da provare… ma dov’è finito l’uomo in tutto questo? Il mistero? L’errore? La fatica del capire?»

Il ragazzo si sedette accanto a lui, incuriosito.

«Mah, io la vedo diversamente. La tecnologia ci aiuta. Ottimizza. Ordina. Aumenta la nostra possibilità di conoscere, esplorare, persino di amare. L’AI non ci sostituisce, ci espande.»

L’uomo scrollò il capo. «Ecco, è lì che inizia la mia preoccupazione. Questa fiducia cieca. Ogni volta che esprimo dubbi su cosa ci stiamo giocando delegando le nostre decisioni a delle macchine, tutti mi ridono in faccia. “Sei un conservatore”, dicono. Vintage, aggiungono. Come se fosse un insulto.»

Il ragazzo sembrava colto di sorpresa, ma non ancora convinto. «Ma l’uomo resterà sempre al centro. Saremo noi a dare regole, etica, direzione. L’AI esegue. È uno strumento.»

L’uomo si voltò a guardare il tempio spezzato. «Anche queste pietre un tempo erano strumenti. Architettura, potere, religione. Ma guarda ora. Il tempo, la natura, la violenza dell’uomo… tutto ha lasciato il segno. E oggi restano solo rovine. L’AI non sarà diversa. L’illusione del controllo è l’ultima trappola. Davvero pensi che sarà l’uomo a governarla?»

Fece una pausa, poi aggiunse:

«L’uomo… quella specie illuminata che ha inventato la Shoah, che fa guerre ogni trent’anni, che stermina i più deboli per profitto… pensi davvero che questa specie sia in grado di scrivere algoritmi “etici”?»

Il ragazzo non rispose subito. La brezza si infilava tra le colonne, come un sussurro millenario.

«Io penso che ci proviamo. Che almeno questa volta non siamo del tutto ciechi. Abbiamo imparato qualcosa, forse.»

L’uomo sorrise amaramente. «Mosè, Buddha, Gesù, Maometto, Confucio… tutti ci hanno provato. Ma l’uomo ha sempre trovato il modo di disattendere le loro promesse. E ora pensi che saranno due righe di codice a salvarci? Auguri.»

Restarono in silenzio. Dall’alto del tempio, il sole morente sembrava osservare la scena come un vecchio che ne ha viste troppe.

«L’unica consolazione che ho,» mormorò l’uomo, «è che ho poco tempo davanti. Forse non vedrò l’ultima sostituzione. Quella totale.»

Il ragazzo si voltò verso di lui. «Ma se l’intelligenza artificiale un giorno prenderà tutto il controllo… davvero potrà fare peggio di noi?»

L’uomo si alzò in piedi, e guardò per un lungo istante le rovine. «È proprio questa la domanda. E forse, nel profondo, la risposta ti è già arrivata.»

Ora ragazzo osservava l’uomo con più attenzione, qualcosa, nella sua voce, negli occhi fermi, gli impediva di liquidarlo come l’ennesimo nostalgico. Era stanco, sì, ma non arrendevole e soprattutto, parlava con la calma di chi ha già visto le onde alzarsi e abbassarsi più volte nella vita.

«Ha l’aria di uno che ha lottato con questi temi prima che diventassero moda», disse il giovane, in tono meno ironico.

L’uomo sorrise appena. «Moda... già. Prima erano solo preoccupazioni da vecchi professori o da filosofi pessimisti. Oggi sono diventati pitch da conferenza, titoli di libri, panel da festival. Ma la sostanza resta la stessa: l’uomo gioca con qualcosa che crede di controllare e lo fa con una leggerezza che, se non fosse tragica, sarebbe ridicola.»

Si chinò e raccolse un piccolo frammento di marmo. Lo rigirò tra le dita come fosse una reliquia.

«Conosci la hybris

Il ragazzo fece spallucce. «Greco antico, giusto? Una specie di peccato di orgoglio?»

«Non solo. È molto di più. È lo scavalcare il limite. L’uomo che si crede pari agli dei, che si dimentica della sua misura. Metron, la chiamavano. Ogni volta che l’uomo oltrepassa quel confine, il destino – l’Anánkē – lo richiama. E non con le buone.»

Indicò le colonne spezzate tutt’intorno. «Guarda. Questo era un tempio a Hera, sposa di Zeus, regina degli dei. Luogo di culto, di ordine. Eppure ora è polvere. Perché? Perché la civiltà che l’ha eretto ha creduto di poter durare per sempre, di poter dominare tutto: natura, uomini, dei, ma nulla invece resta in piedi quando si dimentica il proprio limite.»

Fece una pausa. Il vento gli muoveva lievemente i capelli.

«Oggi la nostra hybris ha il volto levigato dell’algoritmo. Parliamo di progresso, efficienza, ottimizzazione… ma sotto c’è lo stesso delirio di onnipotenza di allora. Solo che questa volta è meno visibile, più subdolo: ci promette di toglierci la fatica di essere umani.»

Il giovane fissava l’orizzonte. Aveva smesso di sorridere. Un fremito gli passò negli occhi, come se qualcosa stesse scalfendo la sua certezza.

«Però non è solo delirio. È anche speranza. Desiderio di superare i nostri limiti, di curare, di capire…»

«Lo so», rispose l’uomo. «E in questo c’è una bellezza autentica. Non disprezzo il desiderio umano di conoscenza, né la tecnologia in sé. Ma mi chiedo: a che prezzo? Ogni volta che deleghiamo qualcosa all’AI, ci togliamo una parte di responsabilità. E quando smetti di scegliere, quando una macchina decide per te, anche solo in piccolo… qualcosa dentro si spegne.»

Un silenzio colmò lo spazio tra i due. Dalle colonne, i raggi del sole filtravano come dita divine, l’aria vibrava di una quiete ancestrale.

Il ragazzo parlò piano. «Ha paura?»

L’uomo esitò. Poi annuì.

«Sì. Ma non di quello che l’AI farà: ho paura di quello che non faremo più noi; dimenticheremo la bellezza dell’incertezza, dell’errore, del tentativo, la capacità di fermarci, di sbagliare, di piangere per una decisione presa col cuore, e non con un algoritmo. E quando questo succederà… non saremo più umani: saremo divenuti una civiltà apparentemente perfetta, ma spenta. Una Selinunte digitale: bellissima, ma morta.»

Il ragazzo lo guardò a lungo. Poi tirò fuori il telefono, e per un momento, lo contemplò come se non lo riconoscesse più.

«Posso farle una domanda?» chiese infine.

«Certo.»

«Se potesse scegliere… riavvolgere tutto… fermare questo processo prima che esploda… lo farebbe?»

L’uomo restò immobile. Guardava il tramonto che stava spegnendo lentamente i templi.

«No», disse. «Non servirebbe. Il processo è avviato. Irrefrenabile. Ma almeno… almeno potremmo procedere con coscienza. Con umiltà. Ricordando che l’uomo che sogna di diventare Dio, prima o poi si sveglia… e scopre invece di essere solo polvere. E poi, tutto questo in fondo riguarda più te che me. Come rispondono sempre i tuoi sodali quando cerco di  spiegargli che bisognerebbe andarci più cauti nel rendere indispensabili le app e l'AI nella vita di ogni giorno, non si può rallentare il progresso per me e per quelli come me, dato che tra 20 anni o giù di lì saremo tutti morti. Di nuovo, auguri, ragazzo.»


martedì 24 giugno 2025

"DOBBIAMO PARLARE", OVVERO L'ARTE DI NON VOLER ASCOLTARE

Era ancora presto, ma la metropolitana di Napoli aveva già l’odore tipico dei giorni feriali: un misto di caffè forte, profumo di sfogliatelle appena sfornate e quella tensione compressa di una città che corre sempre, ma a modo suo.

Claudio, milanese di nascita, era salito a Toledo, come faceva ogni mattina da quasi vent’anni. Trench grigio, ventiquattrore in pelle un po’ consumata, lo sguardo perso nel vuoto, tipico di chi ha imparato a misurare il tempo e le parole con rigore. Sedette senza nemmeno guardare chi aveva davanti. Poi alzò gli occhi e lo vide. Lo riconobbe subito.

«Io e te dobbiamo parlare», disse, di getto, con un sorriso appena accennato.

L’uomo davanti a lui, nato a Sorrento, si voltò di scatto, sorpreso. Aveva quell’aria più distesa, quasi solare, e un modo di fare gentile che tradiva una certa naturalezza nel rapportarsi agli altri.

«Ehi! Quanto tempo! Sei proprio tu! Ma ti prego… dobbiamo parlare, proprio no! Mannaggia li muort!»

Scoppiarono a ridere insieme, una risata leggera, disarmata. Come il sollievo di ritrovare un complice di un tempo in cui tutto sembrava avere più senso, o almeno più energia.

«Scusa», disse Claudio. «Ma era troppo facile. Te la ricordi, vero? Quante volte l’abbiamo sentita in filiale?»

«Eh già», annuì l’altro, Gianluca, con un sorriso di traverso. Aveva già tolto la cravatta, come faceva sempre appena lasciava l’ufficio. «Il vice che ti prendeva da parte con la faccia grave: “Dobbiamo parlare”. E tu lì a pensare: ho sbagliato un bonifico? Ho approvato un mutuo sbagliato?»

Claudio annuì. «O quella volta che credevano fossi stato io a bucare il plafond del cliente della Ferrari. Mi chiamò il direttore con quella faccia lì. Tre giorni di ansia per poi scoprire che era stato suo figlio a fare casino con il suo tablet.»

«Sì! E tu che avevi già preparato la lettera di dimissioni!»

Risero di nuovo, ma stavolta con una nota di malinconia sotto. Perché il tempo aveva limato le vette, ma anche le illusioni.

«Comunque», riprese Claudio, «ci pensavo proprio stamattina: quante volte ce la siamo sentita dire quella frase, “Dobbiamo parlare”? Ma in realtà nessuno voleva parlare davvero.»

Gianluca lo guardò di lato. «Volevano solo mettere le cose in chiaro. Unilaterali. Tu ascolti, io ti comunico. Punto.»

«Parlare, oggi, è diventato questo. Aspettare il proprio turno. Quando va bene.»

«Quando va bene, sì. Di solito ti interrompono prima che tu abbia finito la frase.»

Claudio guardava il vetro davanti a sé, ma non vedeva il suo riflesso. Pensava a Sara, la figlia ormai adolescente, e a quanto spesso si accorgesse di non ascoltarla davvero. «Come a tennis», mormorò. «Solo che invece della racchetta usiamo le parole. E ci affanniamo a ribattere, mica a capire.»

Gianluca annuì, improvvisamente serio. «Ma sai perché? Perché ascoltare è faticoso. E la fatica oggi non va di moda.»

«Già. Se una cosa richiede tempo, se ti costringe a fermarti, allora è “vecchia”. È “out”.» aggiunse Claudio.

"Non è solo fatica. È che ascoltare davvero… non è solo sentire», continuò Gianluca, con voce più bassa. «È cercare di capire cosa significano le parole dell’altro non per noi, ma per lui. E questo, Claudio, è devastante.»
L’altro si voltò, curioso.
«Cioè?»
«Cioè che quando qualcuno ti parla, tu credi di aver capito perché hai colto le parole. Ma quelle parole passano attraverso i tuoi filtri, le tue esperienze, i tuoi valori. E allora finisci per interpretarle alla luce di te stesso. Invece no. Dovresti leggerle con le sue lenti, col suo vissuto. Capire non cosa diresti tu in quella situazione, ma perché lui lo dice così, con quel tono, in quel momento. È… un’impresa. Una scalata interiore.»
Claudio annuì lentamente. «Serve empatia. E tempo. E voglia di uscire da se stessi. E chi ce l'ha?»
«Appunto. Oggi chi ce l’ha, quella voglia? Siamo tutti occupati a esistere nella nostra bolla, a difendere il nostro punto di vista come se fosse una roccaforte. E più l’altro è distante, più lo riduciamo a una caricatura. Troppa fatica mettersi nei suoi panni, meglio giudicare e tirare dritto.»
Il treno continuava la sua corsa, ma all’interno sembrava essersi creato un silenzio diverso. Di quelli che non pesano.

Gianluca sistemò il giubbotto sul grembo. Aveva lasciato la banca da un paio d’anni. Ora lavorava in consulenza finanziaria, meno sicuro, ma più libero. «Io non ne potevo più di quella dinamica da cartellino e riunioni inutili. Si parlava per non dire, e nessuno ascoltava nessuno. Tutti sempre in vetrina.»

«E quando parli davvero? Quando cerchi un dialogo autentico, magari ti dicono che sei pesante.»

Claudio lo guardò, stavolta con un sorriso più caldo. «Sai che ti invidio? Hai avuto il coraggio di mollare. Io sono ancora lì. Ogni giorno più stanco. Più muto.»

Il treno frenò bruscamente. Una voce metallica annunciò: «Toledo». Fermata di interscambio.

«Scendi qui?», chiese Gianluca.

«No», rispose Claudio. «Ma sai che ti dico? Dopo questo incontro, forse cambio direzione. Almeno mentale.»

Si strinsero la mano, come vecchi compagni di trincea. Si scambiarono i numeri, ma soprattutto una promessa: un pranzo. Un vero pranzo. Con calma. Con ascolto.

Poi Gianluca si alzò. Prima di uscire dal vagone si voltò, con un mezzo sorriso:

«Oh, ma la prossima volta niente “dobbiamo parlare”, eh? Ti denuncio per crimini contro l’umanità.»

L’altro sorrise. «Buona giornata, filosofo.»

«Anche a te, maestro del tennis.»

venerdì 20 giugno 2025

LA PROFEZIA DI AMBROSINI: ADVENTURES OF A LIFETIME

New York City, aprile 2025


Il sole di primavera si rifletteva sui vetri dei grattacieli come un report trimestrale mandato in anticipo: brillante, inaspettato, vagamente sospetto.

Marco De Santis – contabile senior, ex giovane promessa della Bocconi, ormai “asset storico” di una multinazionale in cui nessuno ricordava più cosa facesse davvero – stava svuotando la sua scrivania per l’ultima volta.

L’ufficio era una teca del tempo.

Su una mensola in alto, una pianta grassa che aveva smesso di lottare nel 2019. Accanto, un mug sbeccato con il logo di una startup fintech morta al secondo round di finanziamento e appeso alla parete un calendario da tavolo del 2020 – mai sostituito, tanto i giorni erano diventati tutti uguali.

E, in fondo a un cassetto che si apriva solo con un colpo ben assestato, una cartelletta blu.

Sopra, scritto a penna: “Ambrosini, 1988 – Bocconi”

De Santis Sorrise.

Non un sorriso dolce. Di quelli amari, alla “lo sapevo, ma ho fatto finta di niente”.

Si sedette. Non con l’eleganza del manager in pensione, ma con la rassegnazione articolare di uno che ha passato quarantadue anni curvo sulle scadenze fiscali.

Fuori, il traffico di Lexington Avenue scorreva come un foglio Excel con troppi filtri: lento, pieno di errori e con qualcuno che continua a chiederti “ma perché non si aggiorna il grafico?”.

Nel 1988, al terzo anno di università, aveva seguito il corso di Economia e Management dell’Impresa Industriale.

Il Professor Ambrosini parlava come se stesse dettando il futuro. Un giorno, con la calma clinica di chi sapeva già tutto, aveva detto:

“I colletti bianchi subiranno la sorte che hanno avuto i lavoratori nelle fabbriche con l'arrivo delle macchine e del taylorismo: saranno gli operai meccanizzati ed alienati del prossimo futuro, scoprendo nuove e più sottili forme di alienazione.”

De Santis, che sognava riunioni a New York e stock option da piegare in quattro, lo aveva ascoltato con lo stesso scetticismo e la grattata di zebedei con cui si ascolta il croupier al Casinò che dice "il Banco vince sempre" e liquidato mentalmente con un “Menagramo! che esagerazione” e un panino al tonno nella mensa della Bocconi.

Lui ce l'aveva fatta, era riuscito davvero a sbarcare nella City dopo la Bocconi e ad avere la tempra per mettervi le radici e "fare famiglia" coronando il personalissimo sogno americano nella città dei sogni ma "a consuntivo" era andata esattamente come profetizzato da  Ambrosini, solo con meno poesia.

E a guardare, con occhi meno superficiali, più o meno come aveva anticipato abilmente Paolo Villaggio nel 1975 con il suo Fantozzi, celando dietro le "assurde" avventure dell'improbabile ragioniere, tutte le dinamiche presenti nel mondo del terziario, anche di quello "avanzato".  

E a guardare ancora più in profondità, Kafka, con la sua "Metamorfosi" lo aveva messo nero su bianco già nel 1915, ma lui di letteratura si era sempre disinteressato sin dai tempi del Liceo, quando l'aveva giudicata "qualcosa di cui si poteva occupare chi era già ricco e aveva tempo da perdere" ed era il classico studente da "mi basta 6".

De Santis aveva iniziato a registrare fatture con penna blu e fogli protocollo, poi erano arrivati  i floppy da 5¼, poi la "magia nera" di Lotus 1-2-3 che crashava se guardavi male la tastiera. Seguirono Excel 95 (era ora), SAP - l'infernale gestionale tedesco che in azienda avevano subito battezzato Sistema di Abilità Punitiva -  i server aziendali (“basta salvare tutto in G:\”),  poi il cloud che doveva essere la salvezza ma somigliava più ad un magazzino disordinato con un abbonamento mensile  (“non si sa dove va, ma ci va tutto”).

L’outsourcing lo aveva privato dei colleghi italiani mentre l’automazione gli aveva stravolto le mansioni, mortificando l'intelletto, mentre la pandemia aveva sancito il trionfo senza ritorno del "lavoro da remoto" e la vittoria dello smart working.

Quella cosa che l'addetto alla sicurezza ucraino della Tower della City dove De Sancits passava tutte le sue giornate, aveva battezzato "SMRT" working, spiegandogli che "SMRT" in tutte le lingue slave voleva dire "morte". 

L’intelligenza artificiale, alla fine, aveva reso il suo lavoro più "strategico"; tradotto: faceva tutto lei, tu controllavi che non avesse interpretato "costo del lavoro" come "licenzia tutti e compra un robot emotivo".

Negli ultimi cinque anni, il suo lavoro consisteva in tre operazioni:

1. Leggere report generati dall’IA e fingere che avessero un senso.

2. Correggere le “ottimizzazioni” dove l’algoritmo aveva deciso che 0 dipendenti = massimo margine operativo.

3. Sorridere in avvio di videochiamate mentre un software di riconoscimento facciale gli dava 6/10 in “employee engagement” e a seguire l'unico vero vivente collegato diventava il gatto di qualche collega in smart working.

Si era trasformato, senza accorgersene, in quello che Ambrosini aveva descritto con chirurgica crudeltà: un operaio da tastiera, schedato, tracciato, ottimizzato, e completamente inutile durante i blackout di sistema. Però ben pagato, anche nel 2008, quando la grande crisi dei mutui sub-prime sembrava potesse riportare Manhattan, Wall Street e tutta la finanza mondiale all'età della pietra.

Guardò la cartelletta.

Avrebbe voluto scrivere al professore e non per dirgli “aveva ragione” – quello lo sapeva già – ma per chiedergli se, oltre all’evoluzione del lavoro, avesse previsto anche la roulette del Bellagio di Las Vegas, dove in un weekend del 2003, Marco aveva lasciato in una notte quanto guadagnava in un trimestre. 

Sorrise di nuovo.

O forse era il bruciore di stomaco: la cena di ieri sera con i colleghi l'avevano fatta in un ristorante fusion in cui "innovativo" significava servire il risotto su di una pietra calda.

Chiuse lo zaino.

Infilò dentro due penne senza tappo, una graffetta arrugginita, e i resti simbolici di un’epoca in cui “digitale” era solo una marca di orologi Casio.

Scese nell’atrio.

Il receptionist – ventiquattro anni, laurea triennale in “Benessere Integrato e Creatività Transdisciplinare”, sneakers fluorescenti e sguardo zen – lo salutò:

«Happy retirement, Mr. De Santis!»

«Thank you, Son. Remember: quando un’app ti dice “vuoi accettare i nuovi termini?”, la risposta è sempre “no” – ma tanto accetta lo stesso.»

"What??" fu la risposta del receptionist preso in contropiede dall'uso dell'italiano, di cui non capiva una parola, prima di scuotere la testa e con un sorrisino ebete riprendere il suo solitario al terminale e pensare "Italians, crazy people".

Fuori, New York  accolse Mr. De Santis come aveva sempre fatto: rumorosa, indifferente, e piena di promesse non richieste.

E lui era tornato ad essere solo Marco, finalmente, non doveva più loggarsi, ma solo augurarsi che i "grandi" del pianeta, che parevano essere andati tutti fuori di senno da qualche anno, non avessero provocato una guerra atomica.

Libero.

Almeno finché qualche sistema legacy non avesse riesumato il suo nome per un audit del 2011.

Evento più temibile di un'esplosione nucleare.

E iniziò a comprendere suo figlio, che non ne aveva voluto sapere di studiare e lavorava come animatore sulle navi da crociera che facevano rotta tra le isole caraibiche, dove De Santis padre e i suoi colleghi meccanizzati cercavano di riconciliarsi con la vita durante le ferie comandate o la pensione, spendendo più dollari che potevano in ogni sorta attività di plastica che gli veniva venduta come "Adventures of a Lifetime".







giovedì 19 giugno 2025

MEXICO Y NUBES, ALL INCLUSIVE

La sabbia della Riviera Maya aveva un colore indeciso tra il latte e il sogno. Sembrava versata a mano da un dio in vena di gentilezze. L'acqua, più trasparente del curriculum di un influencer, accarezzava la spiaggia come una hostess svogliata, mentre il sole faceva del suo meglio per convincere anche le nubi più resistenti a starsene zitte.

All'interno del Yucatàn Blu Prestige Resort & Spa "dove il relax incontra l'anima", secondo il depliant pubblicitario patinato che aveva sfogliato in agenzia viaggi, il dottor Erik Nardini, 49 anni, consulente fiscale lombardo, orgoglioso possessore di due SUV e una moglie che gli parla solo tramite WhatsApp, stava sorseggiando un mojito in plastica compostabile. L'aveva chiesto "senza zucchero", per sentirsi sano.

Attorno a lui, un catalogo vivente di clichè: palme pettinate, iguane addestrate a sembrare esotiche ma non troppo, musica chill-out di flauto di pan, e gruppi di americani dalle camicie hawaiane esagerate e i portafogli ancora più esagerati.

Nella piscina a sfioro, una coppia russa si scattava selfie su uno dei gonfiabili a forma di fenicottero. Lui, torace depilato e tatuato con frasi di Bukowski mal tradotte e lei, completamente immobile, tranne che per le labbra a cuore gentilmente arricchite e modellate come altre parti del corpo. A pochi metri, una "life-coach del respiro", tedesca, di nome Luma, stava guidando un laboratorio chiamato "Riconnettiti con il tuo chakra turistico" sotto un gazebo profumato di palo santo.

«Apriamo il diaframma e ringraziamo l'universo per questa sabbia!»

«Figa! Ma io sono allergico alla sabbia» sussurrò, neanche tanto sommessamente, un milanese spaesato, prima di essere ignorato.

Erik si voltò infastidito. Era venuto là "per staccare", non per assistere a una recita "spirituale"; fu proprio in quel momento che vide di nuovo Raùl, l'addetto responsabile della sicurezza nel resort: alto, pelle color bronzo lucido, occhiali neri e un giubbotto antiproiettile che stonava comicamente con il contesto tropicale. Il badge diceva "Raùl", ma l'atteggiamento era da Clint Eastwood dei Tropici.

«¿Todo bien, señor?» (Tutto bene, signore?) chiese con voce profonda e cortese.

Erik annuì con malcelata sufficienza. «Tutto fantastico. Questo posto è un paradiso, penso che gli americani se lo siano inventato, ma voi messicani lo mantenete bene. Bravi.»

Raùl inclinò la testa, appena. «Gracias, señor. Pero, ¿sabe qué había aquí antes del resort?»
(Grazie, signore. Ma sa cosa c’era qui prima del resort?)

«La giungla, immagino. Zanzare, serpenti, roba da selvaggi.»

Raùl sorrise sottile. «Había pueblos. Había silencio. Luego llegaron los gringos y sus fondos de inversión: trajeron el progreso; ahora sonreímos y damos la bienvenida a cualquiera con una tarjeta Platinum.»
(C’erano villaggi. C’era silenzio. Poi sono arrivati i gringos e i loro fondi di investimento: hanno portato il progresso; ora sorridiamo e diamo il benvenuto a chiunque abbia una carta Platinum.)

Poi tirò fuori un vecchio Walkman. «Esto lo dejó un turista italiano en 1994. Lo reparamos, lo usamos, luego lo tiramos. Ahora es “vintage”: un coleccionista de Miami pagó 300 dólares.»
(Questo lo ha lasciato un turista italiano nel 1994. Lo abbiamo riparato, usato, poi buttato. Ora è “vintage”: un collezionista di Miami ha pagato 300 dollari.)

Erik sbatté le palpebre. «Sta scherzando.»

«Jamás en la vida. Nosotros los mexicanos somos excelentes recolectores de sueños caducados. Los limpiamos, los vendemos otra vez. Con una sonrisa. ¿Cuánto ha pagado usted por esta semana?»
(Mai nella vita. Noi messicani siamo ottimi raccoglitori di sogni scaduti. Li lucidiamo, li vendiamo di nuovo. Con un sorriso. Lei quanto ha pagato per questa settimana?)

«Tremila euro.»

Raùl alzò le sopracciglia. «¿Y por qué? Por una playa que era gratis, por un atardecer que pertenecía a todos, y por una botella de tequila que aquí cuesta menos que la leche. Pero relájese, señor. La ironía está incluida en el paquete.»
(E per cosa? Per una spiaggia che era gratis, per un tramonto che apparteneva a tutti, e per una bottiglia di tequila che qui costa meno del latte. Ma si rilassi, signore. L’ironia è inclusa nel pacchetto.)

Se ne andò lasciandolo solo con il mojito annacquato e un vago senso di ridicolo. Ma non era ancora finita.

Quella sera, durante la cena a buffet tematica: tradizioni maya rivisitate in chiave fusion. Erik decise di chiedere chiarimenti alla chef responsabile del guacamole al tartufo.

La trovò. Era Dolores, cuoca locale, occhiali grossi e un sarcasmo tagliente come un coltello da sushi.

«Dolores, ma queste sono davvero ricette tradizionali maya?»

Lei sorrise.
«Sí, si los mayas hubieran tenido nata agria y microondas. Pero ya sabe, la tradición vende. Como las máscaras aztecas que hacemos en China y los ponchos que cosemos en Turquía. El folclore es el opio del turista.»
(Sì, se i maya avessero avuto accesso alla panna acida e ai microonde. Ma sa com’è, la tradizione vende. Come le maschere azteche che facciamo in Cina e i poncho cuciti in Turchia. Il folclore è l’oppio del turista.)

Il mattino dopo, Erik fece il check-out. Al banco, Raúl era ancora là.

«¿Todo bien, señor? ¿Encontró su paz interior?»
(Tutto bene, signore? Ha trovato la sua pace interiore?)

Erik sorrise. «No. Ma ho trovato questo.» Tirò fuori dal borsone un vecchio lettore DVD portatile. «Lo lascio qui. Chissà, magari un giorno lo rivenderete al triplo a qualche idiota europeo.»

Raùl lo prese, lo guardò, e fece un sorriso enigmatico.
«Sí, señor. Lo haremos. Y probablemente será usted.»
(Sì, signore. Lo faremo. E probabilmente sarà lei.)


martedì 17 giugno 2025

GIF, MEME, PEC, TOGA E LIVORI ANCESTRALI

Venezia, Tribunale Penale Aula 4, metà mattina.

Il vociare sommesso dei legali si spegne mentre l’udienza viene aggiornata. Il giudice Dott. Gargiulo, uomo di sobria gentilezza e cravatte sempre storte, prende una cartellina, si alza. Ma non fa in tempo a raggiungere la porta che l’avv. Diego Pavan lo intercetta con passo calcolato.

« Mi scusi, Presidente, posso rubarle un minuto? »

Il giudice lo squadra con una certa stanchezza: ha già capito che non sarà un minuto, ma annuisce, indicando la finestra affacciata sul Rio dei Mendicanti.

« Dica pure, avvocato »

Il navigato penalista prende fiato; non come si fa prima di parlare, ma come si fa prima di una lunga immersione.

« Lei ha presente il caso Spolverin, quello delle liti condominiali diventate stalking? »

Il giudice annuisce: « Più che presente. Ho sognato la portinaia che mi citofonava di notte. »

« Ecco. Non è questo il punto. Il punto è: come possiamo, noi, oggi, trattare situazioni umanissime, fatte di istinti, paure, rivalse da cortile e gelosie primordiali usando codici concepiti per un mondo che non esiste più? »

Il giudice solleva un sopracciglio. L'avvocato Pavan prosegue, animandosi.

« Noi avvocati ci barcameniamo tra pulsioni arcaiche, reazioni limbiche, risposte di attacco-fuga degne dell’età della pietra e dobbiamo incasellarle in articoli scritti quando l’unità dell’Italia era appena fatta oppure c’era ancora il Duce? O peggio, dobbiamo applicare prassi nate con la macchina da scrivere! »

« Capisco la frustrazione »

« No, mi lasci finire. Nel frattempo, là fuori, la gente vive in una bolla digitale: comunicano con meme, si lasciano via chat, registrano gli sfoghi in video e poi li cancellano prima che la polizia li acquisisca. E noi? A litigare su chi deve notificare per primo, se in cartaceo o via PEC. »

Il giudice sospira ma non è un sospiro di fastidio: è il sospiro di chi ha vissuto la stessa sensazione, solo che non l’ha ancora detta ad alta voce.

Pavan affonda: « Noi interpretiamo emozioni del Paleolitico con regole ottocentesche, in un contesto tecnologico che evolve più in fretta delle cellule del nostro corpo. Ogni sei mesi cambia tutto, app e piattaforme comprese. Ma la legge? Resta là. Immobile. In toga.»

Un motoscafo della polizia passa nel canale e fa vibrare i vetri.

Il giudice si sporge appena verso l’acqua, poi torna serio. « E quindi, cosa propone, avvocato Pavan? Di riscrivere l’intero ordinamento? »

Il legale sorride, è un sorriso stanco, ma sincero.

« No. Ma almeno riconoscere che non possiamo far finta di nulla. Che la complessità dell’umano oggi va decifrata con strumenti nuovi. Perché se non lo facciamo noi, lo faranno gli algoritmi. E allora la giustizia non sarà più cieca: sarà automatica. »

Il giudice resta in silenzio per qualche secondo. Poi annuisce, lentamente.

« La sua è stata l’arringa più sensata che ho sentito oggi. Peccato che non fosse in aula... Venga avvocato le offro un caffè, se si accontenta delle cialde della macchinetta che ha sostituito il vecchio bar di una volta. Si figuri la pena per un vecchio napoletano come me, costretto a bere quella ciofeca, guardando un cassone di metallo invece che una bella cameriera. »

Facendosi a vicenda l’occhiolino con un mezzo sorriso, i due uomini di legge si stringono la mano e si avviano verso la macchinetta del caffè.


1985-2025: 40 ANNI DA NOTTI DI ESAMI, SIGARETTE GALEOTTE E TANTI "FAREMO".

 

16 giugno 1985

La prima notte prima degli esami era arrivata anche per me.

Avevo provato a dormire, ma nella testa c’era un caos difficile da spiegare: pensieri che si rincorrevano, ricordi che si accavallavano senza chiedere permesso. Una quantità di immagini così precisa e vivida che sembrava tutto accaduto il giorno prima.

Mi rigiravo nel letto da ore, come se cambiando posizione potessi anche cambiare la realtà. Nella testa c’era un indescrivibile vorticare di pensieri, un flusso continuo di immagini, ricordi, voci. Pensavo a quel che avevo fatto, a quel che non avevo fatto, a ciò che forse avrei dovuto fare. A come sarebbe stato l’indomani, e ai cinque anni passati. Pensavo a tutto. Forse troppo.

Alla fine mi alzai. Andai in cucina, mi versai un bicchiere d’acqua. Guardai fuori: tutto era silenzioso, come se anche fuori si sapesse che era la vigilia di qualcosa di grosso.

Mi accesi una sigaretta — lo so, pessima idea e se mio padre se ne fosse accorto mi avrebbe cambiato i connotati — e uscii sul balcone. L’aria era immobile, né calda né fredda. Una via di mezzo fastidiosa, come quelle situazioni in cui non sai se ridere o preoccuparti.

Vedevo Roma e sentivo la voce di Antonello, come una colonna sonora involontaria. Vedevo Tina su quel treno, fresca diplomata in ragioneria, che tra una risata e l’altra mi raccontava dei suoi esami. E io pensavo a questo anno scolastico strano, un po’ improvvisato con troppi professori improvvisati e anche un po’ universitario – e mi chiedevo se avessi fatto bene a mettere da parte i libri tutte quelle volte, con la solita frase rassicurante: “Faremo”.

Ce n’erano stati tanti, di quei momenti.

Ripensai alla gita a Monaco, e mi salì un groppo di nostalgia alla gola. Rividi Silvia, alla stazione di Venezia, in quella mattina di maggio: mi salutava dal treno per Milano. Da allora non l’avevo più vista. E poi mi vidi seduto con Livio sulla panchina davanti a casa sua, tutti e due a evitare accuratamente di nominare la parola “maturità”, mentre ci perdevamo a progettare con entusiasmo una vacanza in bici, post-esami. Una roba enorme, ovviamente.

E mai realizzata, altrettanto ovviamente.

Nel frattempo si avvicinava il momento della “scelta importante”: università o militare? E il futuro, che fino a poco prima sembrava una parola teorica, prendeva forma davanti a me, con tutta la sua aria dura, faticosa, piena di punti interrogativi.

Pensai che forse sì, se avessi potuto, sarei tornato indietro di cinque anni. Per rifare tutto. O almeno per sentirmi ancora così: dentro una stagione in cui, bene o male, sapevo sempre dove stare.

Gli esami che stavano per cominciare, in fondo, erano l’ultimo atto di un periodo in cui tutto sembrava avere un senso chiaro: la scuola, gli amici, le certezze costruite giorno dopo giorno. Il dopo, invece, era nebbia.

4 luglio 1985

Ultima notte.

L’indomani tutto sarebbe finito. L’esame orale era fissato: 5 luglio, ore 12. La fine ufficiale.

Ero agitato, ovviamente. Anche un po’ teso. Ma almeno non mi avevano cambiato la materia. Solo questo bastava a rasserenarmi. La sensazione dominante, però, era che fosse davvero finita. Sul serio. E quella consapevolezza, più che liberarmi, mi lasciava addosso una nostalgia strana.

Ripensai all’anno appena passato, e a tutto quello che stava per chiudersi. Alla classe, all’atmosfera, alle genuine cazzate, alle risate sincere, alla strana solidarietà che ci aveva tenuti insieme — ognuno a modo suo, ognuno col proprio stile, ma tutti a condividere lo stesso grande problema: l’esame.

E quella roba lì non l’avrei più vissuta.

Tornarono a galla episodi in ordine sparso. Le tante "marine": alla Bussola, da Narda, a Udine. Mattinate interminabili piene di risate, lazzi, battute. E poi quella frase che ci dicevamo sempre alla fine, ridendo: “Non potrà finire bene!”

Che suonava buffa allora, ma adesso aveva qualcosa di sinistramente vero.

Il giorno dopo, lo sapevo, tutti si aspettavano da me grandi cose. Io, più semplicemente, speravo di non mandare tutto all’aria proprio all’ultimo giro. Di non tradirmi sul traguardo.

Ripensai ancora ai miei errori, alle cose lasciate in sospeso, a ciò che non avevo avuto il coraggio di dire. Ai rapporti complicati, alle amicizie che erano finite senza un vero motivo, a quelle che invece, chissà come, erano rimaste in piedi.

Mi vennero di nuovo in mente mille immagini: le risate con il Trivino, Zippo, Carlo e Manzo nei corridoi, le battute stupide in classe, le discussioni con i prof, le corse in bicicletta per andare a scuola, le mattine in cui ci si addormentava sui banchi e quelle in cui si rideva fino a non riuscire a respirare. I pomeriggi a studiare insieme, o a fingere di farlo. Le versioni di tedesco copiate di corsa. Le giornate passate a parlare della vita, dell’amore, del futuro, come se ne sapessimo qualcosa.

Era tutto lì. Niente di epico, niente di tragico. Solo la fine di un percorso. E l’inizio di qualcosa che ancora non sapevo come chiamare.

lunedì 16 giugno 2025

APOCALYPSE FAGAGNA


A metà giugno 2023 morì un‘illusione, che il tempo potesse lasciare inalterato un comune sentire, la voglia di ricordare insieme.

Non fu un colpo secco, niente tragedie teatrali. Morì piano, come si spegne una sigaretta lasciata andare da sola, dimenticata sul bordo di una panchina.

Anche nel 1983 ci credevamo, certo. Da settimane non si parlava d’ altro: “Se vinciamo il zonale, poi il provinciale sarà nostro, è questione di mentalità, di fame” Parole grosse, buttate là - tra una birra, tra una gazzosa e un cornetto Algida. La verità? Nessuno sapeva davvero cosa stesse facendo. Correvi dietro a un pallone, ti gasavi per un titolo inventato e ti convincevi che contasse qualcosa.

Quella sera, su un campo che pareva un biliardo vicino a Fagagna, quel castello di illusioni, almeno per quanto mi riguarda, crollò. E non fu nemmeno un dramma. Fu una liberazione amara. Lo spareggio lo abbiamo perso. Punto. Loro più cattivi, più organizzati, più svegli. Noi ancora là - a pensare che bastasse volerlo davvero. Spoiler: non basta mai.

Due scene restano nella memoria, perché anche quando vuoi dimenticare, certe immagini ti si piantano nella testa.

La prima: il nostro portiere. Quello che si atteggiava a duro, che urlava per comandare la difesa. A fine partita era in mezzo al campo, da solo, al buio. Fumava, come un cinquantenne disilluso, e piangeva in silenzio. Uno spettacolo patetico e tenero allo stesso tempo. Non per la partita persa, ma perché, con il senno di poi, ho capito che certe cose non tornano. Che certe occasioni, una volta sfumate, ti restano addosso come un rimpianto stantio.

La seconda: noi quattro, fuori dagli spogliatoi di Cividale. Mezzi vestiti, mezzi disfatti, che ancora ci raccontavamo la partita come se potesse cambiare qualcosa. Il solito rituale di chi perde e vuole credere che con un rimpallo diverso, un fischio diverso, tutto sarebbe andato per il verso giusto. Sciocchezze.

Poi, dalle mura della caserma, arrivò il Silenzio. Quella tromba beffarda, che sembrava lì - apposta per dirci: è la Fine. Andate a casa. La giostra è finita.

La stagione della Cividalese Allievi 1982/83 finì così. Senza gloria, senza coppe, senza applausi.

Solo un gruppo di ragazzini che si erano forse presi troppo sul serio per qualche mese, convinti di essere protagonisti, quando in realtà non c’erano nemmeno i riflettori accesi.

Cosa resta?

Forse qualche amicizia vera, ma anche quelle col tempo si sfilacciano.

Resta la lezione, se vogliamo chiamarla così ¬: che si può dare tutto e non ottenere niente. Che si può perdere con dignità, ma si perde e basta.

E che certe illusioni fanno parte del gioco, ma prima o poi arriva il fischio finale. E il tabellone non mente.

Il sogno è morto l’8 giugno 1983, ma solo nel giugno 2023 ho compreso perchè non potevamo vincere quello spareggio.

Il resto - sorrisi, pacche sulle spalle, ricordi al bar - è solo rumore di fondo.

Forse era davvero meglio ricordarci così, come eravamo.

In fondo, ognuno per conto suo.

E ADESSO? MASSIMA ENTROPIA


Milano, un giovedì pomeriggio di febbraio. L’aria umida colava sui vetri come una seconda pelle, e la luce di Piazza Duomo filtrava appena, slavata, grigia, immobile. Dall’ottavo piano dello studio legale Marchetti, lo skyline della città sembrava distante, irreale. Dentro, lo spazio aveva il silenzio morbido dei luoghi che non devono giustificarsi: boiserie scura, scaffali precisi, due poltrone basse di pelle chiara e una scrivania ampia, lucida, con un ordine talmente perfetto da sembrare freddo. Giorgio Marchetti vi sedeva dietro, in camicia bianca e giacca grigio scuro, assorto nella lettura di un parere giuridico che riguardava più il potere che la giustizia.

Alle sue spalle, il Duomo affiorava dalle nebbie come una promessa gotica non mantenuta. Giorgio era abituato a quella vista: ogni giorno, da quasi vent’anni, lavorava con l’idea che la bellezza e la complessità dovessero restare fuori dai casi legali. Non ne aveva bisogno. Gli bastavano la logica, l’esperienza, il distacco. La sua fama di penalista era costruita sull’assenza di stupore.

La porta si aprì senza bussare.

Luca, ventidue anni, jeans ancora umidi, zaino nero sulle spalle, uno sguardo che oscillava tra la frustrazione e la voglia di essere ascoltato per davvero.

LUCA
Odessa è saltata.

Lo disse così, di colpo, quasi come si sputa qualcosa che non si riesce più a tenere in bocca. Il padre alzò appena lo sguardo, la penna ancora in mano.

LUCA
Hanno sospeso il programma, chiuso tutto. Gli aeroporti, il corso. Niente tirocinio, niente cliniche. La guerra. Già.
Mi ero illuso, sai? Dopo il casino del Covid, pensavo che fosse finita. Che tornassimo alla normalità. Come se la normalità fosse una cosa che si può prenotare.

PADRE (senza cambiare tono)
Odessa... la città dei sogni in fiamme. Strano come i luoghi tornino, con ciclicità. A volte come ricordi, a volte come avvertimenti.

Luca fece qualche passo nella stanza, lasciando delle orme leggere sul pavimento di legno. Non si era tolto il giubbotto. Si sentiva ancora dentro, non accolto. Non voleva pietà. Ma nemmeno indifferenza. Sapeva che suo padre non avrebbe risposto con compassione. Ma sperava almeno in una verità.

LUCA
Sai cosa mi spaventa? Non è solo aver perso un’opportunità. È che ogni volta che cerco di costruire qualcosa, il mondo cambia schema. Sempre all’ultimo. Mi sento... come se stessi provando a montare un puzzle mentre i pezzi cambiano forma da soli.

Il padre lo osservò in silenzio. Non con disprezzo. Con quella specie di lucidità asciutta che somiglia molto alla stanchezza.

PADRE
È esattamente così. Il mondo cambia schema.
Sempre.
Il punto non è quando. Il punto è se sei abbastanza attento da accorgertene prima che succeda.

LUCA
Ma è sempre stato così?

PADRE
No.
O meglio: non sempre ce ne accorgevamo. Prima la complessità era nascosta. Oggi è ovunque. È nel telefono, nei voli low-cost, nei tuoi esami. È nella tua idea di libertà.

Fece una pausa, poi aggiunse:

PADRE
Nel 1989 avevo diciannove anni. Ero a casa, davanti alla TV, e vidi il Muro crollare. Quella notte sembrava che tutto potesse cominciare da capo. Fine della Storia, dissero. L’Occidente aveva vinto.
Non era vero, ovviamente. Era solo l’inizio del disordine elegante.

LUCA
E tu ci credevi?

PADRE
Sì. Per qualche mese. Poi iniziarono a cambiare le cose. I mercati, le alleanze, le illusioni.
Nel 2001 ero a New York. Lavoravo su una fusione internazionale, uno di quei casi che poi finisce sui giornali solo se qualcosa esplode.
Quel giorno, qualcosa esplose davvero.
Uscivo da un edificio a Lower Manhattan. Sentii il primo boato, poi il secondo. E poi il fumo, la gente ferma, i telefoni muti. Ricordo quella domanda che aleggiava in tutte le facce:
“E adesso?”
La stessa che ci eravamo fatti a Berlino, ma con un tono molto diverso.

Luca lo fissava. Non aveva mai sentito quel racconto. Mai sentito il padre usare la parola “paura” nemmeno per sbaglio. E ora, in quelle parole, non c’era paura. C’era qualcosa di peggio: la consapevolezza.

PADRE
Da lì in poi, solo strati. Strati di protezione, di controllo, di sospetto.
Dopo l’11 settembre: i corpi. Scanner, check-in, impronte.
Dopo il 2008: i soldi. Tracciabilità, regole, blocchi.
Dopo il Covid: il respiro stesso. La temperatura, le distanze, il fiato.
Ogni crisi ha portato con sé una nuova forma di controllo. E tutti, più o meno, abbiamo accettato.

LUCA
E ci abituiamo?

PADRE
No.
Ma impariamo a ignorarlo. A fingere che sia normale. Che sia il prezzo da pagare per “vivere bene”. Ma vivere bene non è gratis.
Il benessere, quello vero, si alimenta di equilibrio. E l’equilibrio… consuma ordine. Consuma entropia.

LUCA (a bassa voce)
L’entropia… il disordine.

PADRE
No.
L’entropia è la tendenza naturale di ogni sistema complesso a disgregarsi. È la legge che ci dice che ogni struttura organizzata, per restare tale, deve spendere energia.
Più il mondo si connette, più consuma energia per restare unito. E prima o poi, qualcosa salta.
Non è un’anomalia. È il ritmo interno del sistema.

Luca si sedette. I muscoli delle spalle si erano rilassati, ma dentro la mente era una centrifuga. Forse era questo che voleva: non risposte, ma sapere che qualcun altro aveva imparato a convivere con l’incertezza.

LUCA
Allora tanto vale mollare tutto?

PADRE
No. Ma smettila di cercare soluzioni definitive.
Ci sono solo strategie temporanee.
Non esiste una mappa. Solo un certo allenamento alla complessità.

Il silenzio si allungò. Fuori, un tram passava sotto la pioggia. Luca guardò fuori: la piazza, la gente, la vita che proseguiva senza troppe domande. Poi sorrise, appena.

LUCA
Domani vado a Livigno. Con Martina e gli altri. Tre giorni di sci. Niente telegiornali, niente piani. Solo neve e ginocchia stanche.
Mi prendo una pausa dal mondo che cambia schema.
Tanto, quando torno… ci sarà un altro pezzo da ricollocare.

PADRE (sorridendo con lentezza)
Va’ a Livigno.
E se ti capita di guardare una montagna, pensa che nemmeno quella è immobile.
Solo che ha imparato a crollare lentamente

giovedì 12 giugno 2025

CONFINI, MIMETICHE, MOROSE E MARADONA IN CASERMA

Ultimi giorni di giugno 1988, gli europei in Germania (ovest) sono terminati da pochi giorni con la vittoria degli Orange guidati dal duo milanista Gullit-Van Basten sull'Unione Sovietica, nel mondo non si fa altro che parlare della Perestrojka di Gorbachev, nella vicina Jugoslavia stanno prendendo forma a nostra insaputa di vicini distratti le spinte che porteranno di lì a breve alla sua sanguinosa disintegrazione.

L'Europa è sull'orlo di un cambiamento epocale - il muro di Berlino sarebbe crollato di lì a un anno ma nel nostro piccolo mondo antico all'imbocco delle Valli del Natisone parlare di Nediske Doline è ancora tabù e nulla sembra in grado di modificare lo status quo cui i miei compari ed io eravamo abituati nei nostri primi 22 anni e dintorni.

Le caserme, i militari, il vicino confine con uno stato in cui ci si reca di corsa a fare benzina e comprare le sigarette per poi tornare altrettanto velocemente indietro, il mondo diviso nettamente tra i "buoni" (gli USA e i paesi NATO) e i "cattivi" (l'URSS e i paesi del patto di Varsavia) che si guardano in cagnesco zeppi di testate nucleari senza però mordersi mai direttamente, la DC con PSI, PLI, PRI, PSDI sempre al governo cambiando Presidente del Consiglio ogni anno e il PCI sempre all'opposizione, sono lo sfondo che fino a lì ci ha accompagnato e nelle nostre menti è destinato a farlo senza ritocchi significativi per tutte le nostre vite.

In quel mese e con quello scenario tutta la nostra attenzione e il nostro interesse (dei miei amici più prossimi e mio) non era certo rivolto alla situazione politica o internazionale, alla sessione di esami universitari in corso o agli impegni lavorativi del periodo ma bensì all'andamento del Torneo notturno di "Calcetto" - II Trofeo Città di Cividale che si disputava sulla pista illuminata di pattinaggio annessa al campo sportivo "Martiri della Libertà".

Dodici squadre suddivise in quattro gironi da tre che promuoveranno le prime due per dar vita alla fase ad eliminazione diretta partendo dai quarti di finale fino alle finali del terzo e quarto posto e per la vittoria del trofeo.

Si gioca in 5 più il portiere e cambi "volanti" con una rosa di 10 giocatori per squadra, tutti rigorosamente non tesserati alla FIGC, pena la squalifica; la definizione poi di calcetto può trarre in inganno, perchè in realtà le regole sono quelle del calcio a 11 traslate su di una superficie di cemento - contatto fisico e interventi in scivolata permessi - con la possibilità sulle fasce laterali di avvalersi delle sponde come nell'hockey su ghiaccio mentre la linea di fondo è delimitata con conseguenti calci d'angolo e rimesse in gioco del portiere.  

Un torneo assolutamente non ufficiale quindi e con arbitri inviati dalla Lega amatoriale del Friuli Collinare, ma che aveva calamitato un certo interesse anche al di fuori dalla ristretta cerchia cividalese; ai nastri di partenza infatti non solo i campioni uscenti del 1986 (i pallavolisti dell'ASFJR) squadre che facevano riferimento a frazioni (Rubignacco), a bar locali di riferimento (Tre Scalini) compagnie di amici locali come la nostra (Azzurri) ma anche le rappresentative di due Caserme - la Francescatto e la Lanfranco-Zucchi e quella di un gruppo di ragazzi udinesi (i REDS). 

La mia squadra, gli AZZURRI - solo per il colore delle maglie e non certo perchè potesse vantare convocazioni in nazionale - era composta dalla seguente rosa selezionata appositamente dal CT Moreno Mauri: portiere Fabrizio Vogrig detto Maier, difensori centrali Moreno Mauri, Francesco Bernardis, centrocampisti Maurizio Radi, l'italo-argentino Sergio Luis Marega, Giuseppe Passoni, Stefano Magarotto, prime punte Marco Lanzutti - Zippo, Carlo Nobile e Antonino - Tonino Bait. 

Una rosa completa in apparenza, in realtà una comica.

Maier dopo l'esordio vittorioso per 4-2 nel girone contro una squadra di universitari friul-triestini capitanata da Roberto - Bobo Corsano e Luciano Sandrini, ci aveva sollecitamente mollati per partecipare ad un torneo di calcetto vero a Ischia, rendendosi disponibile solo dall'eventuale semifinale, costringendo Zippo a lasciare il centro dell'attacco e mettersi in mezzo ai pali.

Maurizio Radi disertò tutte le chiamate, Tonino Bait partì per le ferie dicendosi disponibile dall’eventuale semifinale in avanti e Carlo Nobile, disponibile dai quarti tornò dalle ferie con una scottatura solare che lo mise out.

Insomma, sembravamo più un’armata Brancaleone: quando si dice costruire una squadra con oculatezza.

E così, ai quarti di finale contro i campioni uscenti dell'Asfjr, ci presentammo in campo con 6 uomini contati senza cambi che divennero 5, quando Bernardis dopo le prime fasi di gioco si provocò una grave distorsione alla caviglia che lo tenne lontano dai campi di gioco per mesi.    

La conquista della semifinale ebbe del miracoloso contro una squadra tostissima che schierava Beppo Mesaglio tra i pali, Livio Giacomelli, Diego Fontanini e Paolo Marseu in difesa, Angelo Correnti a tutto campo e Severino Petrucci mortifero finalizzatore.

In 5 contro 6, organizzammo delle vere e proprie barricate per  portare gli avversari prima ai tempi supplementari e poi a giocarci le chance ai calci di rigore; un piano che sembrò andare in fumo a metà dell'extratime, quando Severino Petrucci trovò dal centro dell'area il varco per infilare Zippo da distanza ravvicinata, dopo che il nostro improvvisato portiere non aveva fatto rimpiangere Maier, piazzando alcuni interventi prodigiosi e altri, diciamo pure, fortunati.

In una delle poche volte che riuscimmo a passare la metà campo fu invece Magarotto servito da un incursione di Mauri sulla fascia sinistra a trovare a pochi minuti dalla fine, un tocco fortunato che ingannò Beppo Mesaglio per passare lento tra le gambe dell'estremo difensore, darci l'insperato 1-1 e portarci ai calci di rigore.

La lotteria ci premiò, con tutti i 5 superstiti a segno e per l'ASFJR il solo errore di Diego Fontani a condannare i pallavolisti e a regalarci la semifinale.

Con il morale alle stelle ci presentammo quella sera ad incontrare il Brasile, con la viva speranza di ripetere il colpo riuscito 6 anni prima ai ragazzi di Bearzot in terra di Spagna, avendo recuperato Maier e potendo finalmente schierare Tonino Bait, ex Valnatisone e mostro sacro dei tornei estivi, in coppia con Zippo di nuovo schierato in attacco.

Ho scritto Brasile? si, perchè i nostri avversari erano la rappresentativa del 59° Btg Fanteria "Calabria" acquartierato nella caserma Lanfanco-Zucchi che, facendo le debite proporzioni, per quel torneo erano più forti del Brasile di Telè Santana. 

Erano arrivati alla semifinale strapazzando tutti gli avversari, con una rosa nella quale probabilmente giocavano calciatori semi-professionisti e di cui era impossibile verificare lo status federale: il loro punto di forza, un tal Carmine Germoglio, fante brevilineo, massiccio e dal baricentro basso di cui si narrava avesse addirittura giocato qualche partita in serie C nell'Ischia-Isolaverde.

Leggenda metropolitana o meno, quel campano con la palla tra i piedi era una specie di Maradona, su cui spesso era vano anche raddoppiare o triplicare la marcatura.

Fu una serata estiva fantastica, di quelle che ti fanno capire - con il senno di poi - che giocare al Bernabeu per la Coppa del Mondo o al campetto per la coppa del nonno, ti fa probabilmente provare le stesse emozioni.

Ad assistere alla partita c'erano almeno 500 persone sulle due tribune nei gradoni di cemento laterali accanto alla pista: su quella est erano assiepati i locali e in fronte, su quella ovest, esclusivamente i commilitoni del "Brasile", quasi tutti di origine campana che per tutto l'incontro fecero un tifo indiavolato, sfoderando persino qualche bandiera del Napoli maradoniano.

Uno spettacolo nello spettacolo, in campo partita durissima, giocata senza esclusione di colpi, che si concluse anche questa ai supplementari, dopo l' 1-1 dei tempi regolamentari fissato da un tiro maligno  dal limite di Germoglio che uccellò Maier e da un appoggio sottoporta di Zippo, ben servito solo in area dopo una serpentina vincente di Tonino Bait.

Un tiro di Zippo che fece la barba al palo nei minuti finali resterà per sempre il nostro grande rimpianto, perchè nell'over-time i "brasiliani" ci colpirono in contropiede e poi approfittarono degli spazi che fummo costretti a lasciargli per tentare di raggiungere la parità.

Finì 4-2, con un'altra rete di Zippo a limare nelle ultime battute un 4-1 che sarebbe stato troppo pesante, ma soprattutto con i nostri avversari in trionfo con tutta la tribuna ovest in piedi a cantare a squarciagola "Surdato nnamurato", mentre i locali che sfollavano, con qualche fischio, dalla est. 

Indimenticabile la verve di Zippo, che rivolto alla tribuna dei vincitori disse, ad un paio di militari che gli indirizzavano gesti non proprio simpatici: "Canta pure, io stasera vado via con la morosa, tu resti vestito di verde e vai a dormire in caserma!" 

Il classico lancio di benzina sul fuoco, il seguito lo lascio alla fantasia del lettore.

Per la cronaca, uscimmo talmente malconci e demoralizzati, da presentarci in due - io e Zippo - a disputare la finale per il terzo posto che perdemmo a tavolino contro i REDS, disputando la partita con l'aggiunta di alcuni spettatori per onorare la serata.

Il torneo lo vinse poi come immaginabile il 59° Fanteria "Brasile", piegando in finale per 2-0 una squadra composta da "mostri sacri" locali, tra cui Massimo Corsano, "Vipera" Miani, Paolo Badino e Giorgio Pajani. 

Formidabili quegl'anni, di un mondo in procinto di pigiare bruscamente sull'accelleratore e di cui noi, non avevamo alcun sospetto o consapevolezza.




   

  

venerdì 6 giugno 2025

POETI, CRITICI E RAGIONIERI

La piazza davanti al municipio di Saint-Malo era viva, ma non affollata e sotto il cielo bretone, grigio e statico come un pensiero rimasto a metà, le bandiere ufficiali sventolavano con la stessa flemma delle buone intenzioni istituzionali. Su una panchina di ferro battuto, proprio di fronte al portone d’ingresso del municipio, due uomini attendevano l’esito di una votazione comunale.

Uno era Étienne Moreau, settantotto anni, scrittore, ex professore, un passato da filosofo mancato e da sognatore disilluso mentre l'altro era Julien Delacourt, trentaquattro anni, avvocato rampante, laureato con lode, incarichi in crescita e capelli sempre perfetti, anche con l’umidità dell’oceano.

Julien era chino sul suo telefono, le dita rapide e nervose, Étienne sorseggiava un caffè preso da una macchinetta automatica, un liquido che avrebbe potuto citare in tribunale per diffamazione al concetto stesso di "bevanda calda".

«Professore Moreau! Ma guarda chi si vede!» esclamò Julien con un sorriso affilato. «Ancora fedele a questa panchina, vedo. Allora, professore… di nuovo qui: immortale come la burocrazia.»

Étienne alzò appena lo sguardo e lo squadrò con una smorfia ironica.

«E tu, Delacourt, come al solito elegante come un avviso di accertamento fiscale e ancora fedele a quel Rolex… e al correre da qualcosa che non ti inseguiva.»

Julien rise. «Sempre acuto.»

«Acuto? Ho solo imparato a tagliare il superfluo: alla mia età, anche le parole costano energia.»

Julien fece un cenno vago con il capo. «Beh, oggi è il grande giorno. Rinnovamento della giunta. Nuove cariche. Aria fresca.»

Étienne soffiò sul caffè, senza berlo. «Ah, la sacra ri-novazione. Un concetto così puro che ormai sa di deodorante da bagno pubblico.»

Julien lo osservò, tra il divertito e l’infastidito, c’era una linea sottile tra ironia e rassegnazione ed  Étienne aveva passato da tempo quella linea, ci camminava sopra come un funambolo ubriaco.

«Lei non ci crede più?»

«Io ci credo, caro il mio brillante avvocato in rampa di lancio, verso dove non si sa... ma credo anche che la parola “nuovo” venga usata come si usano le spezie nei ristoranti economici: per coprire il sapore del vecchio.»

Fece una pausa, poi proseguì con tono più morbido, quasi nostalgico.

«Sai, a vent’anni frequentavo la Sorbona. Non quella plastificata di oggi, ma la vera vecchia scuola, dove l’aria era densa di fumo e idee proibite; il professore di storia delle dottrine politiche aveva l’abitudine di farci discutere per ore, senza mai darci una risposta. “Il sapere è un labirinto,” diceva, “e chi crede di averne la chiave sta solo dormendo.”»

Étienne si appoggiò allo schienale.

«Era frustrante. Oggi lo chiamerebbero “metodo socratico”, ma all’epoca ero solo uno studente che voleva risposte e si ritrovava a fare più domande. All'esame m’interrogò su Kant, e io osai essere sincero, dire quello che pensavo, credendo che avrebbe premiato la mia onestà. “Professore, la ragion pratica è una bella idea, ma quando ti arriva la bolletta, le belle idee non pagano il riscaldamento.”»

Scosse il capo con un mezzo sorriso.

«Il professore, senza scomporsi, replicò: “Moreau, lei è bravissimo a sviare la domanda con l’umorismo, ma assai pessimo nel comprendere come dosarlo nel contesto in cui si trova.” E mi bocciò.»

Julien ascoltava in silenzio, affascinato.

«Rifeci l’esame tre mesi dopo. Il professore entrò, guardò tutti con un’espressione da inquisitore e disse: “Dimostrate di aver capito tutto, o tornate a casa a lavorare.” Io, impavido giovane filosofo, iniziai il mio discorso sull’importanza del dubbio e dell’ironia, stavolta senza divagazioni o battute. Dopo due minuti, mi interruppe: “Bravo, ma qui non vendiamo filosofia, vendiamo politica e certezze. E lei cerchi di non prendersi troppo sul serio.” Bocciato di nuovo.»

Fece una pausa teatrale, poi concluse.

«Alla terza volta, mi chiese di disegnare una retta alla lavagna. Pensava di cogliermi in fallo con una domanda completamente fuori programma, di provocarmi forse; io non mi scomposi e segnai il punto d’origine, tracciando la linea oltre la lavagna, sul muro, fino alla porta. Quando mi chiese dove stessi andando, risposi: “All’infinito.” Mi guardò, annuì e disse: “Ecco, adesso lei ha capito tutto.” E mi diede il massimo dei voti.»

Julien scosse il capo, divertito. «Questo spiega molto del suo scetticismo.»

Étienne annuì. «Da lì ho imparato che la sincerità a volte è una condanna, non un premio e che il potere ama chi parla chiaro… finché non diventa pericoloso. E, soprattutto,  detesta chi non è ricattabile.»

Poi, come se cambiasse registro, raccontò un altro episodio.

«Quando avevo diciassette anni, d’estate, aiutai a costruire un muro in campagna. Il muratore, un uomo con più rughe che espressioni, mi disse: “Non tutte le pietre sono uguali ragazzo: le grezze reggono, le lisce scivolano.” Da allora ho capito che per reggere un edificio — un partito, una comunità, una nazione, un'azienda — servono pietre diverse mentre noi vogliamo costruire tutto con blocchi prefabbricati.»

«Bello. Poetico, ma vintage.» Julien si sistemò la giacca. «Le decisioni oggi si prendono nei board, nei comitati, con metodi scientifici non con le metafore.»

Étienne rise. «Sì, come quella volta in cui una riunione del mio partito si bloccò per tre ore per decidere dove mettere una virgola. Tre ore. Risolse tutto una segretaria di sessantacinque anni: “Togliamola.” E nessuno fiatò.»

Julien rise di gusto. Étienne si limitò a sollevare le spalle.

«Pragmatica. I giovani fanno brainstorming, i vecchi fanno stormi veri: volano e atterrano.»

Un attimo di silenzio, poi Étienne aggiunse: «Il mio primo romanzo parlava di rivoluzione, giustizia, lotta sociale. La critica lo definì “utopico”, i lettori “troppo filosofico”. Vendette poco più delle copie che comprai io per mia madre.»

«Era in anticipo sui tempi, forse.»

«No. Era solo ingenuo e sinceramente pure un po’ noioso.»

Julien lo guardò con un misto di ammirazione e inquietudine. «Ma allora lei propone cosa? Equilibrio? Un governo fatto da poeti, critici e ragionieri?»

«Sì, ma messi nel giusto ordine e nel posto giusto, mi raccomando: il poeta sogna, il critico sconsiglia, il ragioniere paga le conseguenze. Se inverti l’ordine, ottieni solo debiti poetici e delusioni metodiche; ma se vuoi veder crollare tutto come un castello sabbia alla prima mareggiata scegli solo poeti, se vuoi rimanere immobile come una lapide in cimitero affidati ai critici e se invece desideri che i conti tornino mentre muori di noia va in cerca convinta di ragionieri.»

Poi, come se ricordasse qualcosa.

«Una volta, un giornalista mi chiese cosa servisse per cambiare davvero la società. Risposi: “Onestà, coraggio e un po’ di sana pazzia.” Sai cosa andarono in onda? Solo: “un po’ di sana pazzia.” Da allora ho smesso di credere nei media.»

«Censura selettiva?»

«No, editing creativo.»

Un ragazzino inciampò vicino alla panchina. Si rialzò senza lamentarsi e corse verso la madre, distratta dal cellulare. Julien lo seguì con lo sguardo.

«Forse il futuro è suo.»

Étienne annuì, con un mezzo sorriso. «Sì, di chi cade, si rialza… e specialmente se non scrive una petizione sulla caduta.»

Dal municipio iniziarono a uscire consiglieri e funzionari, alcuni con espressioni tese, altri annuendo a vuoto.

Julien scrollò il capo. «Hanno deciso. Tutto come previsto: i “nuovi” sono i vecchi con camicia diversa.»

«Ti sorprende?» ribatté Étienne. «È solo ri-novazione: ripetizione del nuovo su fondamenta vecchie, che però nessuno vuole davvero cambiare.»

Julien rimase in silenzio per un attimo. Poi chiese, quasi per scherzo: «Ha mai pensato di candidarsi?»

«Una volta. Ma poi mi resi conto che sapevo scrivere discorsi troppo onesti… e slogan troppo lunghi.»

Julien rise. Poi si alzò e strinse la mano al vecchio professore.

«Grazie. Anche se mi ha tolto qualche illusione.»

«Ne avevi troppe. Qualcuna devi perderla, altrimenti non vedi la strada. Le altre mantienile pure, altrimenti come fai?»

I due risero insieme e Julien si congedò con un "Touchè!", chinando il capo all'indirizzo del Professore.

Étienne restò seduto mentre il sole cominciava a calare e la sua ombra si allungava ai piedi della panchina, sottile e obliqua. Sorrise di nuovo  guardando l’orizzonte.

«L’edificio non sarà mai perfetto,» mormorò tra sé. «Ma se mettiamo insieme pietre diverse forse sarà meno instabile; altrimenti, prima o poi… crollerà addosso a tutti: poeti, critici e ragionieri che siano. »

giovedì 5 giugno 2025

IL TEOREMA DEL SILENZIO ASINTOTICO

Era un pomeriggio ventoso di inizio primavera a Cambridge, Massachusetts.

Le bandiere dell'università di Harvard sventolavano con orgoglio sulle guglie in pietra rossa di Harvard Yard. Gli studenti si affrettavano tra un dipartimento e l’altro con laptop sottobraccio, bicchieri di caffè riciclato in mano e una tensione elettrica tipica della settimana prima degli esami parziali.

Il Jefferson Hall, edificio storico delle scienze esatte, ospitava al secondo piano una delle lezioni più temute e insieme più discusse: Mathematical Structures and Limits, tenuta dal professor Elias Rutherford, una leggenda vivente del dipartimento di matematica teorica.
Uomo taciturno, conosciuto per il suo sarcasmo sottile e l'inquietante capacità di rendere la matematica... umana.

Temutissimo dagli studenti e glaciale.

L'aula era una platea a gradoni, gremita oltre la capienza. Alcuni studenti sedevano sulle scale, altri si accalcavano vicino alle finestre aperte. L'aria odorava di carta, stress e sapone disinfettante.

Alle 14:00 in punto, il professor Rutherford entrò. Alto, sottile, capelli d’argento tirati indietro con ordine maniacale, portava con sé una borsa di cuoio scuro e il silenzio con sé.
Non disse nulla. Non salutò. Andò dritto alla lavagna e scrisse con gesto lento e solenne:

How to graph

y = 1/x

Qualcuno alzò gli occhi al cielo. Altri tirarono fuori i tablet. Ma bastarono pochi secondi prima che una voce interrompesse il silenzio.

Professor Rutherford, con tutto il rispetto…, — disse Aisha, studentessa nigeriana con doppia laurea in filosofia e scienze cognitive — ma non le sembra... riduttivo? Cosa ci dice questa funzione su di noi, esseri umani complessi, emotivi, contraddittori?

— Sì, cioè… siamo qui per parlare della realtà, non per fare esercizi — aggiunse Jack, studente americano di sociologia, biondo e spavaldo, seduto in quarta fila — Le persone non vivono secondo equazioni. Il comportamento umano non è un algoritmo binario.

Altri risero. Lina, una studentessa siriana seduta vicino alla finestra, aggiunse in un tono più serio:

— Forse è questo il problema della matematica: troppo pulita per descrivere il caos del mondo.

Mormorii. Una piccola ovazione. Alcuni studenti batterono le mani, ironici.
Rutherford non si mosse. Aspettò che il chiacchiericcio si spegnesse da solo. Poi, con calma glaciale, scrisse sotto la formula:

“Se il numero di opinioni tende all’infinito, il valore di ciascuna tende a zero.”

Si voltò verso la platea. Gli occhiali leggeri gli riflettevano la luce della lavagna.

— Harvard. L'élite del pensiero globale. Eppure, appena si scrive una formula, scatta la resistenza. Perché? Perché il pensiero matematico non vi consola,  non vi accarezza l’Ego, lo disintegra.

Camminava ora lungo la pedana, lentamente.

— Volete parlare di realtà? Benissimo. Guardatevi: centocinquanta studenti, tutti con un'opinione, tutti con una voce, una protesta, un punto di vista, ognuno convinto di avere qualcosa da dire; ma quanti di voi ascoltano davvero?

Un silenzio teso. Rutherford continuò:

— Pensate che la matematica sia fredda, distante, inumana mentre invece è solo precisa e nella sua precisione svela un fatto scomodo: se tutti parlano contemporaneamente, nessuno vale nulla. È una legge, non un’opinione.

Jack sbuffò, ma Aisha incalzò con cortesia:

— Ma professore, davvero crede che una funzione come y=1/x  possa spiegare qualcosa di così vasto come il pensiero umano?

Rutherford si fermò, guardandola dritto negli occhi.

— No. Non tutto. Ma può spiegare ciò che succede quando il pensiero si moltiplica senza ascolto., quando ogni idea viene urlata nel vuoto.
Quando i social network — ah, eccoci al cuore del problema — diventano cimiteri di pensieri sepolti sotto valanghe di commenti, tweet, reazioni. Nessuna profondità, solo volume.
Tutti parlano, nessuno ascolta. Il valore? Zero.

Si voltò e scrisse a lettere chiare:

y = 1/x → valore dell’opinione individuale al crescere della folla.

— Questo non è cinismo, signori: è una diagnosi e i social sono un'ulteriore e potente conferma del mio teorema: più voci avete, meno valore ha ciascuna. L’informazione si trasforma in rumore bianco e quando tutto è rumore, il silenzio diventa l’unica cosa che ha un senso.

Lina, dalla finestra, sussurrò appena:

— Come la quiete dopo la tempesta.

— Esatto. O meglio: come la condizione che dà senso alla parola. Il silenzio non è debolezza, è selezione, è atto critico.

Rutherford tornò alla lavagna e scrisse lentamente:

Com’è bello restare in silenzio quando tutti fanno rumore.

L'intera aula tacque, ora il silenzio era diventato sacro.

Poi, senza che nessuno lo invitasse, Takeshi, uno studente giapponese di ingegneria e logica formale, si alzò in fondo all’aula. Camminò in avanti con rispetto, prese un pennarello e riscrisse tutto in forma di teorema, sotto gli occhi attenti di tutti.

POSTULATO

Sia xx il numero di opinioni espresse su un evento umano o naturale.
Sia il valore percepito di ciascuna opinione espresso dalla funzione y=1xy = \frac{1}{x} con xN,x>0x \in \mathbb{N}, x > 0

TESI 

limx1x=0\lim_{x \to \infty} \frac{1}{x} = 0

Al crescere del numero di opinioni espresse, il valore di ciascuna decresce fino a tendere a zero quando il numero di voci tende all’infinito.

COROLLARIO

Il silenzio ha valore se e solo se esiste rumore da cui distinguersi.
E tale valore cresce proporzionalmente al caos che lo circonda.

Riposò il pennarello. Tornò al suo posto.

Rutherford guardò la lavagna, poi la platea. Nessuno parlava. Non serviva.

— Ora, — disse  — possiamo iniziare.

Applausi.

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