lunedì 13 ottobre 2025

VIRTUS, NON VIRUS

Roma, ottobre. Le ottobrate coloravano la città di oro e polvere. I sampietrini riflettevano la luce come se custodissero storie di coraggio e mediocrità. Andrea camminava verso il bar con passo deciso, l’aria piena di convinzione.

Il professor Balestri sedeva al suo solito tavolino del solito bar di Via del Governo Vecchio. Caffè nero e anni di osservazioni, sorridendo con ironia. L’aveva conosciuto dieci anni prima, quando Andrea era ancora un ragazzo ossessionato dagli appunti perfetti e dalle citazioni giuste. Ricordava le lezioni dove lui di colpo interrompeva tutto per raccontare un aneddoto assurdo, e Andrea, pur esasperato, rideva sempre, un po’ vergognandosi.

«Professore, ho deciso. Me ne vado. In India.»

Balestri sollevò appena lo sguardo.
«India? Ottima scelta, dove i sogni hanno fuso orario diverso dal resto della vita. Stai attento però al caffè, smbra non lo facciano troppo buono.»

«Non scherzi. Io voglio purezza. Qui non si cambia niente. Tutto è compromesso dai mediocri e dai raccomandati. Voglio una vita pura, assoluta. Silenzio, disciplina, spiritualità. Io voglio cambiare il mondo, ma cambiare davvero, farne un posto migliore, e non lo si fa con le mezze misure.»

Il professore accennò un sorriso.
«Ah, il mondo. Quell’invenzione che sopravvive nonostante tutti noi. Tu pensi che fuggire sia l’alternativa nobile a un mondo ingiusto. Io ti dico che è lo stesso gioco, solo dall’altra parte della scacchiera.»

Andrea si fece serio, quasi impaziente.
«No, professore, non è lo stesso. Lei confonde la resa con la scelta. Io non scappo: mi sottraggo. È diverso. Voglio ritrovare una purezza che qui è impossibile. Qui tutto è compromesso: si deve fingere, sorridere, negoziare. Io non ci sto! Basta concorsi truccati, colloqui inutili, ipocrisie: non voglio essere più giudicato solo in base al cognome o dalle conoscenze.».»

Il professore sorrise appena, con quell’aria indulgente che può irritare più di mille parole.
«Il compromesso, caro Andrea, non è una resa. È la forma più umana della coesistenza. Lo so, suona poco eroico. Ma la storia non la fanno gli eroi che bruciano, la fanno gli uomini che restano. Quelli che ogni giorno tentano di capire l’altro senza rinunciare a se stessi.»

«Ascolti, professore. Guardi la storia: nel 1992, avessi avuto la sua età, sarei stato sempre con Di Pietro. Mai con Craxi. Mai con Andreotti. Mai con i compromessi dei Democristiani. Quelli non cambiano nulla. E voi cosa avete fatto invece? Tutti con Berlusconi! Slo i rivoluzionari, quelli che non hanno paura di perdere tutto per un ideale, possono cambiare la storia, solo puntando all’assoluto si può migliorare il mondo.»

Balestri ridacchiò, con ironia pungente.
«Ah, i giovani! Sempre convinti che il mondo cambi in fretta e che la purezza sia la via. Ma vedi, Andrea, anche Di Pietro, non solo i democristiani,  aveva dei compromessi, e persino i rivoluzionari devono ogni tanto mangiare, respirare, sopravvivere…»

Andrea alzò la voce, ma senza rabbia: convinzione pura.
«Non parlo di sopravvivere! Parlo di cambiare le regole, di rischiare tutto per un ideale! Non si tratta di vivere tranquilli. Si tratta di lasciare una traccia vera, di costruire qualcosa che resti!»

Il professore fece un gesto teatrale con la tazzina, come per dire “ascolta bene”.
«Ecco il tuo errore: credi che tutto debba essere bianco o nero. Roma stessa è un compromesso di secoli, eppure eccola qui. Se tutto fosse assoluto, probabilmente non sarebbe sopravvissuta.»

Andrea scosse la testa.
«Io non voglio la sopravvivenza tiepida. Voglio rivoluzione, purezza. Voglio l’assoluto.»

Balestri sorrise, ma con una punta di malinconia.
«Bravo, ragazzo. Solo che la rivoluzione senza respiro quotidiano è fanatismo. Il coraggio non è solo abbracciare l’estremo, ma anche vivere tra le contraddizioni, ascoltando e rispettando l'altro senza rinunciare a sé. Vedi, il mondo cambia grazie a chi resta, ogni giorno, fedele a piccoli gesti.»

Andrea guardò la piazza dorata dalle ottobrate.
«Io continuerò a puntare all’assoluto. Il compromesso mi sembra vigliaccheria. Qui non c’è spazio per chi lavora, studia, si impegna. Conta solo chi ha la spinta giusta, chi sa a chi sorridere. Io non voglio più far parte di questa farsa. »

Il professore accennò di nuovo un sorriso, ma questa volta era decisamente ironico, come chi ha già visto quella stessa scena recitata mille volte da altri giovani.

«Ti dirò una cosa che non ti piacerà: l’estremo opposto di una stronzata è anch’esso una stronzata.»

Andrea scosse la testa, contrariato.
«Lei riduce tutto a battute, come sempre. Ma ci sono momenti in cui bisogna scegliere da che parte stare.»

«E chi ti ha detto che non si possa stare nel mezzo senza essere vigliacchi?» ribatté Balestri.
«La via di mezzo è la più difficile. Richiede equilibrio, ascolto, disciplina. Gli estremi sono comodi: o tutto o niente, o si ama o si odia;  vivere invece tra il tutto e il niente… quello sì, è un lavoro da adulti. Faticoso, umile, incessante. E ti dirò -  continuò  Balestri - che vigliaccheria o coraggio, a volte la differenza la decide il tempo, e guardati bene in giro: Roma ti insegna che compromesso, se fatto con saggezza, può diventare una forma di eroismo.»

Il giovane restò in silenzio rabbioso, mentre la città respirava intorno a loro, tra luce dorata, foglie che cadevano e storia che non smetteva di esistere. L’assoluto di Andrea non era meno vivo, ma forse ora sembrava meno solo, sospeso tra idealismo e realtà, tra rivoluzione e vita quotidiana.

Dal vicolo arrivava l’eco di un violinista che suonava Yesterday. Roma respirava piano, col fiato lungo di chi non smette mai di recitare se stessa.

Il professore si alzò, lentamente.
«In medio stat virtus, Andrea. E bada bene: virtus, non virus. La mediazione non contagia, cura, se hai voglia di guarire; è una specie di medicina, brucia solo un po'.»

Andrea infine sorrise, ma il sorriso gli uscì amaro.
«Lei si accontenta.»
«No, io persisto. È diverso. Sai qual è la differenza tra un idealista e un uomo libero? L’idealista vuole cambiare il mondo mentre l’uomo libero vuole capirlo, e semmai, migliorarlo un poco, quando può.»

Nel mentre, non curante di tutto questo, Roma continuava ad essere città eterna, incanto di uomini e di dei, inno perpetuo di nobiltà e miseria.

venerdì 10 ottobre 2025

LA NOTTE IN CUI CIVIDALE DIVENNE PRAGA

La notizia della morte di Paolo Bonacelli, avvenuta a Roma lo scorso 8 ottobre, ha avuto l’effetto di far riemergere dalle profondità del cervello limbico il ricordo di una strepitosa – per il mio gusto estetico – serata “andata in scena” il 17 luglio 1999 a Cividale del Friuli, durante l’ottava edizione di Mittelfest, quella dedicata a La via dell’Ambra.

I più collegheranno il volto e la voce dell’attore scomparso – 88 anni – alle interpretazioni della sua lunga carriera, guidata dai più famosi e ispirati registi italiani: Ettore Scola, Michelangelo Antonioni, Pier Paolo Pasolini, Nanni Loy, Roberto Rossellini, solo per citarne alcuni. Oppure, i più giovani e “meno impegnati” lo ricorderanno nei panni dell’avvocato D’Agata, al fianco di Roberto Benigni, nel fortunatissimo Johnny Stecchino.

Perché tutta questa “memoria” mi è arrivata dopo rispetto a quanto scritto in apertura?
Perché la voce di Paolo Bonacelli dava il via all’evento-spettacolo itinerante Praga Magica, ideato da Giorgio Pressburger e Mimma Gallina come apertura di Mittelfest 1999. Nei miei ricordi fu il momento più riuscito di tutta la storia del festival cividalese – opinione assolutamente personale, beninteso, visto che la critica del tempo non fu altrettanto entusiasta nei confronti dell’opera, dopo aver invece celebrato Danubio, altro evento itinerante pensato sempre da Pressburger per far vivere il libro di Claudio Magris, utilizzando “il fiume” di spettatori che si muoveva nei vari siti della città ducale.

Ancor oggi, ogni notte, alle cinque, Franz Kafka ritorna a via Celetná (Zeltnergasse), a casa sua, con bombetta, vestito di nero. Ancor oggi, ogni notte, Jaroslav Hašek, in qualche taverna, proclama ai compagni di gozzoviglia che il radicalismo è dannoso e che il sano progresso si può raggiungere solo nell’obbedienza. Praga vive ancora nel segno di questi due scrittori, che meglio di altri hanno espresso la sua condanna senza rimedio, e perciò il suo malessere, il suo malumore, i ripieghi della sua astuzia, la sua finzione, la sua ironia carceraria…”

Molti avranno riconosciuto l’incipit del libro Praga Magica di Angelo Maria Ripellino, che Giorgio Pressburger aveva cercato di far vivere a Cividale, trasformando la città ducale nella Praga descritta dallo scrittore palermitano.
Quelle parole scritte dall'autore attraverso la voce di Paolo Bonacelli, accompagnata dalle note della Vltava di Smetana, giunsero agli spettatori che si accalcavano, al buio, a testa in su sul Ponte del Diavolo – divenuto per una notte il Ponte Carlo della capitale boema – mentre un funambolo lo attraversava su una fune tesa tra Borgo di Ponte e Piazza Duomo.

Vi posso assicurare che fu un momento davvero magico, anche per chi – come il sottoscritto – ebbe la ventura di essere al tempo assessore alla Cultura e membro del Consiglio di amministrazione dell’Associazione Mittelfest, e per questo a conoscenza di quante e quali richieste tecnico-organizzative, costi economici e responsabilità amministrative si nascondessero “dietro le quinte” di quell’evento.

Ne valse la pena.

Voglio “regalare” al lettore un solo aneddoto, per far intuire cosa significasse lavorare con Giorgio Pressburger. Lo spettacolo, nella “testa” del suo ideatore, doveva concludersi con la rievocazione dell’arrivo dei carri armati russi a Praga la notte del 20 agosto 1968, giunti a stroncare la famosa “primavera”. Giorgio voleva a tutti i costi far sfilare un carro armato vero su Largo Boiani fino a Piazza Duomo, e non c’era verso di fargli capire che la cosa era “troppo difficile”. Neppure il fatto che il Comando di Corpo d’Armata di Padova fosse stato interpellato – con esito chiaramente negativo – riusciva a placare la sua idea che “gli si volessero mettere i bastoni tra le ruote”, e che senza quella scena lo spettacolo non si sarebbe potuto chiudere degnamente.

La “salvezza” arrivò dalla scoperta che un tipo di Lubiana partecipava come stuntman in diverse produzioni, con la caratteristica di trasformarsi in torcia umana. La mente di Pressburger lo trasformò allora nel tragico rogo di Jan Palach, che nel gennaio 1969 si diede fuoco in piazza Venceslao per protestare contro l’occupazione sovietica.
Lo stuntman sloveno arse davanti al Duomo mentre un pallone-mongolfiera, rappresentante una luna benevola, si innalzava in Piazza Duomo portando con sé un’attrice vestita di bianco. Così, verso le due del mattino, lo spettacolo terminò: la magia si esaurì e Cividale si tolse i panni della capitale boema che aveva rivestito per una notte.

Gli eventi itineranti ideati da Giorgio Pressburger per far vivere pagine importanti della letteratura mitteleuropea furono, in quegli anni, il tratto distintivo di Mittelfest. Col tempo vennero abbandonati, perché i costi – e soprattutto le normative in tema di sicurezza – ne rendevano praticamente impossibile la realizzazione.
E mettiamoci pure Giove Pluvio, mai troppo benevolo con le estati cividalesi e il festival in particolare: esporre il budget importante di un evento non replicabile al rischio di annullamento al debutto o durante le prove non era più accettabile.

Peccato.

Chiudo lasciando la scheda dell’evento, tratta dal sito ufficiale dell’Associazione Mittelfest, per far immaginare al lettore cosa fu Praga Magica.


Praga Magica

Ispirato all’opera di Angelo Maria Ripellino
Un progetto itinerante di Mimma Gallina e Giorgio Pressburger
Coordinamento registico: Giorgio Pressburger e Sabrina Morena
Elementi scenografici di Andrea Stanisci
Narratore: Paolo Bonacelli
Coproduzione Mittelfest, Teatro Verdi di Trieste
ITALIA – TEATRO
Centro storico, spettacolo itinerante

Con gli interventi straordinari:

  • Ancora oggi, ogni notte alle cinque – a cura di Monica e Nanì Maimone (Piccola Cooperativa Kant), Piazzetta Zorutti

  • Al principe di Breslav. Il pellegrino – a cura di Gianfranco Evangelista (Moravske Divadlo Olomouc), Caffè San Marco

  • Osteria dei veleni. Švejk – a cura di Guido De Monticelli, Osteria ai Tre Re

  • Ai Due Agnelli. Kafka – a cura di Guido De Monticelli, Trattoria Alla Speranza

  • La vecchia signora. Voskovec & Werich – a cura di Ferruccio Cainero e Giovanni De Lucia (Teatro dell’Ingenuo), Arco Medievale

  • La maledizione della Montagna Bianca – a cura di Sabrina Morena, con Luciano Virgilio e Ester Galazzi, Piazza San Francesco

  • Rodolfo II – con Massimo Popolizio, Piazza Dante

  • Praga natura morta I e II – a cura di Jan Kratochvíl (Evropské Centrum Pantomimy Neslysicich Brno), Stretta della Giudaica

  • 20 agosto 1968 – con Rok Cvetkov e la Piccola Cooperativa Kant, Piazza Duomo

venerdì 3 ottobre 2025

ANONIMO RUSSO VS EUCLIDE 15-0

Il pomeriggio scivolava lento nella biblioteca della Sorbona, e la sessione autunnale di esami si avvicinava sempre più per Sophie Hubelle, ventunenne parigina studentessa di lingua e letteratura russa e Alexandre Dubois, ventiduenne di Nantes, al secondo anno di Ingegneria gestionale. Intorno a loro, libri e appunti erano sparsi sui tavoli, assieme a tanti altri giovani studenti e qualche professore dai capelli grigi.

Sophie, capelli castani raccolti in una treccia disordinata, sfogliava un’antologia di poeti russi dell’Ottocento, e i suoi occhi brillavano di passione e curiosità; di fronte, Alexandre, seduto rigido, era concentrato su uno studio di funzioni trigonometriche. Improvvisamente, la ragazza, a bassa voce, interruppe il compagno:

"Alexandre, senti qua! Lascia perdere quella roba astratta, senti la vita vera che pulsa!" ed iniziò a declamare, prima in russo e poi in francese:

Русский текст:

Теперь я знаю, что такое Жизнь.
Теперь я знаю, что такое Смерть.
И теперь что я знаю?

Теперь, когда я знаю,
слово потеряно.
Остаётся перо.

А потом?
Чёрное. Чёрное. Чёрное.
Как это чернило,
в котором я хочу утонуть.

Аноним, Белгород (?), 1891 (?)

Traduction

Maintenant je sais ce qu’est la Vie. (Adesso so cos’è la Vita.)
Maintenant je sais ce qu’est la Mort. (Ora so cos’è la Morte.)
Et maintenant, que sais-je? (E ora che so?)

Maintenant que je sais, (Adesso che so)
le mot est perdu. (la parola è perduta.)
Il reste la plume. (Rimane la penna.)

Et ensuite? (E poi?)
Noir. Noir. Noir. (Nero. Nero. Nero.)
Comme cet encre (Come questo inchiostro)
dans laquelle je veux me noyer. (in cui voglio annegare.)

Anonyme, Belgorod (?), 1891 (?)

Sophie, emozionata, chiuse lentamente il libro mentre il cuore le batteva forte.

"Che versi stupendi: le mot est perdu, ma resta la plume...  Non è disperazione, è resistenza. È un gesto eroico, di speranza, silenzioso, che sfida la morte."

Alexandre scrollò le spalle, il volto contratto, quasi infastidito:

"C’est une connerie totale! Tutto questo è una baggianata, un'illusione, il solito oppio per i sentimentali! La vita non si misura con l’inchiostro, la vita si vive, si affronta, si rischia, non si racconta. La scrittura non è vita, è rifugio, è comoda fuga dalle responsabilità."

"Vedi…" replicò Sophie, calma ma emozionata, "La parola è perduta, ma resta la penna. È resilienza. Chiunque l’abbia scritto, uomo, donna, giovane o vecchio, è un Eroe! La scrittura rende eterno ciò che siamo, quello che proviamo, ciò che ci sta intorno."

"Héroïsme? Ma per carità! No," replicò lui, la voce dura. "È fuga, ti ripeto. Questo autore o autrice dimostra solo di saper nascondersi nell’inchiostro, evita il confronto con la vita. Noir. Noir. Noir… questo affonda. Altro che Eroe! Ma per piacere..."

Non capisce… pensò Sophie, e volle insistere: "Non tutti i dolori si sanano con l’azione. La vita reale non può contenere tutto ciò che proviamo; la scrittura è il nostro spazio, l’unico luogo dove ciò che conta può sopravvivere."

Alexandre si appoggiò al tavolo, la fronte corrugata. "Persistance? Rester en vie? Sopravvivere? Forma? La vita è confronto, rischio, azione! Odori, profumi, sapori, suoni...esperienze sensoriali! Tout le reste, c’est du pipeau! Tutto il resto è aria fritta!"

"Du pipau?" ribatté Sophie, con voce vibrante. "È la forma più alta e nobile della resistenza! La scrittura mantiene vivo ciò che è morto, fissa un’assenza o una presenza, una gioia! Non è fuga, è vita che non si spegne!"

Da un tavolo vicino, Jean-Luc, uno studente di filosofia dai capelli arruffati e segretamente innamorato di Sophie - che aveva origliato tutto - sbuffò e si rivolse a Dubois con tono canzonatorio:

"Alexandre, Anonimo Russo-Euclide 15-0, battuta regolare! La vittoria dura poco: solo la sconfitta è per sempre! Point barre. Fin de l’histoire."

Alexandre lo fissò, irritato e sorpreso, mentre Sophie a fatica tratteneva un sorriso.

Fu allora che la voce calma e misurata del professor Henri Leclerc, seduto a parte con un libro di diritto penale, si fece sentire:

"Écoutez-moi un peu... Vedete, ragazzi, non avete ragione del tutto, né torto completamente. L’autore o autrice non è né solo vittima, né solo eroe. La scrittura è si rifugio, ma anche resistenza. Trasforma il dolore in forma, la perdita in memoria. Senza la scrittura, ciò che è vissuto svanirebbe; senza l’azione, però, la vita sarebbe vuota. Qui c’è chi sopravvive e chi trionfa sul tempo e sulla morte. La vita è sintesi di estremi: fuga e eroismo, dolore e creazione, assenza e memoria. Camminare sul filo degli opposti è ciò che la rende piena. Et voilà, c’est tout."

Sophie annuì, illuminata dalla comprensione. Alexandre serrò le labbra, pensieroso, accettando con scarsa convinzione e a malincuore la complessità della realtà, e si ributtò con più determinazione sullo studio delle funzioni trigonometriche, mentre Jean-Luc sorrise soddisfatto.

La poesia non era più solo un testo da analizzare: era diventata un incontro con un’anima sospesa tra sofferenza e creazione. In quel frammento di inchiostro noir, ciascuno di loro aveva trovato, a modo proprio, una scintilla di vita, una lezione sull’infinita oscillazione tra Vita e Morte.

Proprio come le oscillazioni di una funzione y= sen(x)

E mentre il sole calava, i tre studenti e il professore rimasero sospesi, consapevoli che la vita è sempre più complessa dei versi, eppure ogni parola scritta, ogni azione vissuta, lascia traccia nell’inchiostro e nel cuore.

O, almeno, di chi vuole e sa ascoltarlo.

Ça va sans dire.

martedì 30 settembre 2025

GREY LEGACY


Patrick ha sessant’anni. Fa ancora il poliziotto, e gli mancano pochi anni alla pensione. Oggi è il suo turno di riposo. Cammina sulla spiaggia di Keansale, in Irlanda, e il vento freddo gli sferza il volto, come un richiamo costante: “non sei più giovane, ma sei ancora qui”. Le onde si frangono lente sulla sabbia scura, e lui avanza, passo dopo passo, misurato, come se la spiaggia stessa fosse un registro del tempo, un archivio del passato che solo i capelli grigi possono leggere.

C’era un tempo in cui i capelli grigi erano considerati un sigillo di autorevolezza. Non sempre meritato, beninteso, ma sufficiente a conferire un rispetto tacito. Oggi, invece, quei capelli sembrano soltanto un certificato di obsolescenza, un bollino invisibile che recita: legacy umano. Nessuno ti aggiorna, nessuno ti corregge, nessuno ti chiede permesso: sei semplicemente un residuo di qualcosa che ormai non serve più.

Per lungo tempo, quando lui era giovane, c’era una gara silenziosa a carpire i segreti di quelli con i capelli grigi. Non per vanità, non per invidia, ma per correre più veloce. Chi li possedeva sapeva scorciatoie invisibili, anticipava ostacoli, conosceva il mondo prima ancora di affrontarlo. La memoria, la lentezza ponderata, il pensiero riflessivo: strumenti indispensabili. Senza di essi, correre significava inciampare.

Oggi quelli dei capelli grigi, come lui, sono un ingombro. Troppo lenti nell’universo digitale. Il loro sapere è diventato un intralcio, la loro memoria una perdita di tempo. La memoria non fa like. Non produce flussi, non alimenta feed, non aggiorna il cloud. Serve solo chi sa postare, creare contenuti in grado di dilatare un eterno presente, aggiornare continuamente, perchè altrimenti diventa obsoleto in 5 minuti. Tutto il resto è legacy. Bug permanente. Peso inutile.

Patrick osserva i giovani correre. Li compatisce ma senza rancore. Non li giudica. È sempre stato così: i giovani guardano avanti, e sempre lo faranno. La differenza è che oggi non hanno bisogno di ciò che lui sa. Vogliono velocità. Connessione. Dati in movimento. E non importa quanto tu ricordi: non rallenti solo loro, sei inutile per la corsa digitale.

Racconti qualcosa del passato?
Fastidio.
“Ah sì… bello… ma possiamo correre adesso?”
Correre? Non vogliono memoria.
Non vogliono storia.
Non vogliono sapere cosa è successo prima di questa app.
Vogliono solo velocità.

Suggerisci un consiglio?
“Oh, ok… ma puoi correre più veloce?”
Racconti un’esperienza?
“Interessante, ma è inutile: così si rallenta.”


Un tempo parlava, e i ragazzi ascoltavano perchè avevano fretta d'imparare mentre adesso pare abbiano desiderio solo di dimenticare, di andare oltre, il suo sapere non è più funzionale.

"Prima eri saggio; oggi sei l’unico in sala che non ha l’app per votare il menu."

Eppure li guarda, e sorride. Così convinti, così impazienti, così certi che ciò che non è nel cloud non esista. Non sanno cos’è la conoscenza vera. Non sanno cosa significhi ricordare senza digitare nulla, senza aggiornare, senza connessione.

E lui resta lì. Patrick, capelli grigi, lento, pieno di ricordi inutili per la corsa di oggi. Ma felice. Felice della sua lentezza. Felice della sua memoria offline, come quella acquisita dai vecchi colleghi: “Non farti vedere, ma osserva tutto – gli aveva detto il sergente McGovern durante un pedinamento – Impara il ritmo della vita delle persone. Solo chi conosce i tempi può anticipare le azioni.” Patrick ricorda il suono dei passi nel vicolo bagnato, l’odore della pioggia mista a quello del fango e del legno umido, e come il sospetto, ignaro, arrivò al punto giusto. Grazie a quell’insegnamento, la situazione fu risolta senza che nessuno si facesse male, e il collega più giovane imparò da quella calma misurata. Nessun GPS, nessun feed, nessuna app avrebbe potuto dare quell’intuizione: solo l’esperienza, la memoria e la pazienza offline.

Ed era felice di sapersi emozionare per cose che il cloud non potrà mai dare. Può osservare, ridere un po’ delle loro app, dei feed, della loro fretta digitale… e sentirsi ancora intero.

Correre sempre non è vivere sempre. Essere costantemente connessi non è sapere. E sapere tutto, senza cercarlo nel cloud, è un privilegio che nessuno potrà mai portargli via.

Il vento lo colpisce di nuovo, le onde ritornano e si ritirano. Il cloud si aggiorna senza sosta. Lui osserva. Il tempo si muove più lentamente sulla sabbia. E va bene così.

domenica 28 settembre 2025

A RESIUTTA RIVIVE UN PEZZO DI CUORE CIVIDALESE

Chapeau a chi ha avuto l’idea ed ha saputo realizzarla: dal 2019 la mitica littorina ADn800 operativa dal 1959 al 2005 sulla Udine-Cividale è stata trasformata in bar-ristorante a servizio della stazione di Resiutta sulla ciclabile Alpe-Adria, che ha sostituito la vecchia ferrovia.

Entrare e sedersi sui seggioloni verdi è stato peggio che entrare in una macchina del tempo, ripensando a quanti viaggi sono iniziati e terminati lì dentro, a quanti sogni, speranze, timori, gioie, dolori si sono consumati negl’anni sentendo lo sferragliare della mitica littorina.

Un vero e proprio microcosmo in movimento nei 20 minuti del tragitto tra Udine e Cividale, che ha visto nascere amori, amicizie e progetti professionali e imprenditoriali.

Mio santolo, ad esempio, fu un macchinista della linea: non era un parente ma aveva conosciuto mio padre in treno, quando il babbo da pendolare, ogni mattina si recava, giovane garzone, a lavorare nel negozio udinese della catena  "Morassutti" in riva Bartolini (oggi sede della Biblioteca Civica).

Peccato che a suo tempo nessuno dei miei concittadini abbia pensato di farla riposare, ridandole nuova vita, nella sua sede naturale, dove, tra le altre cose, tanta gioventù italiana in età di leva ci ha lasciato un bel po’ di lacrime e sorrisi, trasportata da quei sedili verdi. Dal 1959 al 2005.

Insomma, un bel pezzo di cuore cividalese - e oltre - rivive sulla pontebbana.

martedì 23 settembre 2025

MIDNIGHT IN LITTLE ROCK

La notte era umida, carica di un odore di terra bagnata che sembrava contenere, insieme all’umidità stessa, il peso di tutte le attese mai realizzate, i sogni mai osati e i ricordi che non erano mai stati.
Samuel camminava lungo la strada sterrata, con una valigia il cui peso non era solo fisico ma quasi morale, come se dentro ci fosse concentrata la gravità di ciò che avrebbe potuto fare e non aveva ancora fatto, mentre dietro di lui brillavano le luci tremolanti delle fattorie dell’Arkansas.
Luci in lontananza, fragili e oscure, come se fossero sospese tra ciò che resta e ciò che si lascia andare, continuavano a luccicare come piccole promesse che lui stava, in qualche modo, tradendo, mentre davanti si stendeva la highway lucida di pioggia che lo avrebbe condotto verso Little Rock e, oltre ancora, verso New York.
La Big Apple, la città mai vista, eppure così abitata nei suoi sogni da sembrare reale, promessa e minaccia insieme, spazio dove il desiderio e l’incertezza si mescolano in un nodo così intricato che pensare al futuro provoca vertigini tali da confondersi con il corpo stesso, con la respirazione, con la terra sotto i piedi.

Nella tasca interna del giubbotto portava la lettera dell’Actors Studio, già stropicciata dalle mani che l’avevano letta e riletta, come se ogni piega fosse un segno tangibile della tensione fra ciò che desiderava e ciò che temeva; non era un invito, non era una porta aperta, solo una fessura che prometteva qualcosa e nello stesso tempo minacciava il vuoto, e le parole che Nathan gli aveva detto, lo seguivano come un’ombra permanente, non lasciandolo solo un istante:

«Uno su mille ce la fa, è risaputo: e senza qualcuno che ti spalanchi la porta, che ti sponsorizzi, Samuel, sarai solo uno dei novecentonovantanove che tornano qui, più vecchi e più arrabbiati, magari tossico e con le pezze al culo.»

E così, forse più per la necessità di nominare quella paura che per vera convinzione, Samuel si diresse dal sig. Carter, il vecchio ufficiale dell'anagrafe in pensione, cercando qualcuno che sapesse dare un volto al terrore del fallimento, che potesse insegnargli, con la sola presenza e senza fretta, a riconoscere il senso di ciò che lo paralizzava.

La casa di Carter non era costruita; sembrava sedimentata nel tempo, un accumulo di anni e di attese non compiute, un edificio che respirava lentamente e che raccontava storie di compromessi e di desideri traditi attraverso le assi scricchiolanti e le persiane che il vento sollevava e lasciava ricadere.
Sulla veranda, una sedia a dondolo oscillava, lenta e regolare, sospesa tra il movimento dell’aria e quello dei pensieri del proprietario, che sedeva avvolto in una coperta, lo sguardo perso nella campagna notturna e nello stesso tempo dentro se stesso, come chi porta addosso una vita intera di strade parallele consumate, una vita in cui ciò che si amava di più veniva rimandato o sacrificato, sempre, per la ragionevolezza, per la sicurezza, per il dovere, per il compromesso. 
Ogni vecchio ha un odore, e Carter aveva quello della carta, dei faldoni, delle stanze d’ufficio e dell’illusione che la vita possa essere domata con firme e timbri.

Samuel esitò.

«Mr. Carter… non so che fare. Se resto qui, frequento l’università locale, entro nell’azienda di famiglia: vita sicura, prevedibile, protetta… senza sorprese né umiliazioni. Ma se parto per New York, inseguo il sogno di diventare attore… e se fallisco, torno indietro con niente. Uno dei novecentonovantanove, come dice Nathan.»

Il silenzio cadde tra loro come una coperta pesante eppure fragile, e solo il dondolio della sedia rompeva la quiete, come un battito di cuore esterno, lento e insistente, mentre la notte sembrava sospendere il tempo, trattenere i secondi in attesa di una risposta che non era solo per Samuel ma per chiunque si fosse trovato di fronte a un bivio della vita senza sapere quale strada scegliere.

Carter si schiarì la voce e cominciò a parlare, lentamente, come se avesse tutta la vita per spiegare, come se le parole stesse non potessero mai contenere pienamente ciò che voleva dire:

«In ogni caso saresti in buona compagnia, Samuel; non ti cruciare troppo» 

esordì Mr. Carter, con un mezzo sorriso fissando il giovane bonariamente, quasi a voler alleggerire il peso che insisteva sul ragazzo; ma poi si fece più serio e, spostando lo sguardo verso l'orizzonte  proseguì: 

 «Quando avevo vent’anni, Samuel, ero come te: avevo molti talenti, alcune cose le facevo così bene da intuire già allora che la vita avrebbe potuto chiedermi di dare il meglio di me. Ma non è andata così. Ho sempre saputo cosa non volevo fare, più che ciò che volevo, e così mi affidai al compromesso: accettare temporaneamente ciò che detestavo, convincendomi che nel frattempo avrei costruito una strada parallela, una via segreta, che mi avrebbe portato finalmente a ciò che desideravo davvero. Ma le strade parallele non resistono, Samuel. Si consumano. Si dissolvono. E io rimasi solo sulla strada che temevo e che avevo giurato di non percorrere.» 

Mr Carter interruppe per un attimo il suo dicorso per estrarre dalla tasca un pacchetto di sigari cubani e dopo averne acceso uno e riempito dell'aroma di tabacco tutto l'ambiente, con uno sbuffo, proseguì. 

«Ho passato la vita a fare ciò che detestavo, e per di più lo facevo male, mentre tutte le mie capacità migliori restavano inutilizzate, intrappolate in una società che, al di sotto delle frasi fatte di circostanza, non vuole riconoscere il merito, non è interessata valorizzare ciò che un uomo sa fare meglio, perché l’obiettivo non è la crescita ma la conservazione del potere. E raramente un uomo di valore, che per essere tale deve essere un campione del libero pensiero e navigare lontano dal mare dei pregiudizi, può essere strumentale a chi comanda. Un uomo libero non si fa manipolare, e se non sei manipolabile o ricattabile diventi un pericolo e, perciò, chi è al potere trova il modo di metterti fuori gioco, con le buone o con le cattive; sia che tu viva in una democrazia o in una dittatura. Variano solo i metodi, non la sostanza. »

Fece un'altra pausa. Respirò. «Mentre tu disegni la tua strada con i sogni, Samuel, la Vita ne disegna un’altra con strumenti diversi. Raramente coincidono.»

Alzò gli occhi al cielo e poi, inspirando profondamente sorrise appena, come se scherzasse con se stesso e si rivolse di nuovo a Samuel:

«Ma la vita… la vita ha un modo tutto suo di insegnarti che, qualunque strada tu scelga, anche quella apparentemente giusta, col tempo, tende a diventare ordinaria. Tutto ciò che ora ti sembra straordinario — i successi, le possibilità, perfino i tuoi sogni — finirà per diventare acquisito, scontato. Ti concentrerai sempre su ciò che non funziona, su ciò che manca, e dimenticherai quanto hai avuto.»

Mr. Carter, abbassò il capo per un istante, quasi avesse vergogna per quanto aveva detto, ma poi riprese senza tentennamenti ciò che stava per diventare una confessione.

«Io, con i miei compromessi… ho visto svanire molte possibilità di dare il meglio di me. Probabilmente molte più di quante ne avrei potuto cogliere, ma mi hanno anche portato fin qui, a un’età in cui posso osservare i ragazzi come te, parlare della vita senza ansia, senza fretta… a fare il mentore. E in questo, credimi, c’è una forma di pace. Una pace che non vale meno dei sogni, solo perché arriva con i capelli grigi e meno strada da percorrere in avanti.»

Poi abbassò lo sguardo sulle mani, più a se stesso che a Samuel.

«La natura umana è così: sempre pronta a desiderare ciò che non ha, a rimpiangere o mitizzare ciò che ha perso, a trascurare le conquiste che invece ha ottenuto. Fa parte del gioco, ma comprenderlo significa uscirne vincitori, perchè solo così puoi imparare a scegliere senza essere schiacciato dalla paura del futuro e, soprattutto, a godere nel presente di ciò che hai saputo comunque costruire.»

Il vecchio ufficiale dell'anagrafe di Little Rock continuava a sbuffare tabacco come il camino di una locomotiva lanciata a tutta velocità verso il capolinea di un viaggio nel selvaggio West.  

« E c’è un’altra verità che devi sapere. Forse, arrivando a New York, scoprirai che ciò che inseguivi non era la tua vera vocazione. Forse ami solo l’idea di essere un attore, mentre il mondo reale del cinema, delle audizioni, dei rifiuti continui, non è affatto quello che avevi immaginato e potrebbe richiederti compromessi ben più grandi con la tua coscienza. Oppure la tua vocazione è autentica, ma per qualcosa che al mondo non interessa, qualcosa che non ha spazio, e che nessuno sarà disposto a coltivare. E questo non è una condanna: è solo un modo della vita per ricordarti che i sogni spesso esistono al di là della realtà, e che affrontare questa distanza è parte del prezzo che si paga per vivere.»

Samuel abbassò lo sguardo, le mani strette attorno alla valigia.

«Ho paura, Mr. Carter. Paura di fallire, paura di scoprire che non sono abbastanza, paura di buttare via anni preziosi.»

Carter lo guardò a lungo, e la sua voce si fece calma e tagliente al tempo stesso:

«La paura non è il tuo nemico, Samuel. È un messaggero. Ti segnala che c’è un pericolo, ma non ti dice quale, quello lo lascia scoprire a te. E il vero dramma, il vero fallimento, non è seguire la paura: è non scegliere, illudersi che non scegliere conservi intatta la possibilità di un sogno senza pagare il prezzo del rischio, senza sopportare il peso della paura. È pensare che potrai comunque un giorno raggiungere le stelle, semplicemente guardandole dal basso. È il rischio di ritrovarti, a cinquant’anni, a osservare il cielo notturno con il cuore fermo, sapendo che quelle stelle non si possono mai raggiungere,  consolandoti solo con il fatto che almeno esistono ancora, sospese, lassù, da contemplare.»

E fece una pausa, lasciando che le parole scendessero lente come pioggia sul terreno della mente del ragazzo:

«Quando ascolti la paura, chiedile: ‘Da che cosa stai cercando di proteggermi?’ Non sempre il pericolo che percepisci è reale. Solo comprendendolo puoi scegliere davvero.»

L’alba cominciava a tingere il cielo di rosa e arancio, e la luce scivolava tra i campi come una promessa che nessuno aveva chiesto. Samuel prese la valigia. Davanti a lui, la strada si divideva:
a sinistra, la stazione degli autobus per New York;
a destra, l’università e l’azienda di famiglia, la sicurezza che sarebbe stata insieme consolazione e prigione.

Mr. Carter rimase sulla veranda, senza chiamarlo. Solo il dondolio della sedia rompeva il silenzio, mentre il vecchio osservava il ragazzo allontanarsi tra le luci dell’alba. Mr. Carter si rivolse da lontano, un'ultima volta, a Samuel. 

«Ricorda: ogni scelta vera comporta un cambiamento drastico del contesto in cui ci si muove. Non esiste percorso senza imprevisti, senza ostacoli imposti dagli altri o dalla natura stessa, e quando li affronterai scoprirai risorse che neanche sospettavi di avere. Abbi fiducia, Samuel! Ogni bivio è un rischio, ma anche un’occasione di meravigliarti per ciò di cui sei davvero capace.»

Poi mormorò, come parlando a se stesso:

«Ogni volta che un talento si spegne, la società perde una parte di sé, ma la ferita più grande è di chi scopre che non ha mai davvero scelto la sua strada.»

E il vento portò via le sue parole, mentre Samuel camminava verso ciò che ancora non sapeva essere il suo destino, con le stelle sospese sopra di lui, splendenti e irrangiungibili, come tutte le verità della vita, mentre ogni passo, ogni scelta, ogni paura e ogni rischio cominciavano a delineare la forma di ciò che avrebbe potuto essere la sua esistenza.

lunedì 22 settembre 2025

DOGE 3.0 - ULTIMA POESIA A VENEZIA

La porta si aprì con un lieve sibilo e una voce metallica disse:

“Accesso confermato. Utente: Marco Loredan. Tempo di permanenza autorizzato: sei ore e trentadue minuti.”

Marco entrò in casa scalciando via le scarpe umide mentre l’acqua salmastra gli colava ancora dai capelli . Era stata una giornata lunga nella Zona Nova Laguna, il quartiere che si affacciava sul vecchio bacino di San Marco. Il sensore d’ingresso gli proiettò davanti agli occhi un piccolo ologramma personale, con il riepilogo della giornata e un avviso lampeggiante:

«La tua frequenza cardiaca è oltre la soglia. Rilassati. Riposo consigliato: due ore.»

Venezia, nel 2125, era una città sospesa tra mito e rovina.
Diecimila anime appena, concentrate in pochi isolotti artificiali collegati da ponti di vetro e titanio, mentre l’antico centro storico, restaurato a tratti e continuamente sorvegliato, era accessibile solo a giorni alterni, e solo pagando la tassa d’ingresso di 5.000 euro. Un lusso che Marco non poteva permettersi, se non come guida virtuale per i turisti degli Emirati Arabi.

La sua ragazza lo aspettava sul divano, con un visore olografico abbassato sulla fronte. Era immersa nella sua sessione di lavoro remoto, obbligatoria per chi aveva un punteggio sociale medio-basso.

«Sei in ritardo,» disse Elena senza voltarsi, la voce velata da un leggero rancore.
«Lo so, ma… ho una buona scusa.» Marco si lasciò cadere accanto a lei, ansimante, le gocce di pioggia che evaporavano rapidamente sul tessuto autoasciugante del divano. «Non crederai a quello che ho trovato oggi nel vecchio archivio di nonno nella soffitta della sua casa abbandonata. Il Doge mi ha avvisato che c'era una potenziale infiltrazione nel tetto e mi ha "consigliato" di riparare il danno quanto prima. E così, ribaltando una vecchia cassa nel buio, ho trovato questo.»

Elena si tolse il visore, rivelando i suoi occhi grandi, curiosi e stanchi. «Un’altra cianfrusaglia pre-digitale? Un chip rotto? Una moneta arrugginita?»
Marco scosse la testa e le porse un foglio ingiallito, custodito in una busta di plastica trasparente.
«No. Questa volta è… diverso. È carta. Vera. E sopra c’è qualcosa scritto a mano. e una data: luglio 2003, la firma è del bisnonno.»

Elena lo prese con delicatezza, come se avesse paura che si disintegrasse. La calligrafia era incerta, ma leggibile. Lesse a voce alta:

Corpi in caduta.
Menti disciolte.
Pensieri alla deriva.

Come un naviglio senza
possibilità di approdo.

Come una cloaca senza sfogo.

Prego Milord,
digiti pure qui
il suo codice segreto.

Ci fu un silenzio lungo, rotto solo dal ronzio basso del sistema di climatizzazione.

«È… inquietante,» mormorò Elena. «Sembra un messaggio in codice.»
«Non ne sono sicuro. Il bisnonno scriveva poesie, a quanto ci raccontava papà, ma non ne avevo mai lette. Questa mi ha colpito perché sembra parlare di noi, non del mondo dei nonni.» Marco indicò l’ultima strofa con il dito. «Guarda: “digiti pure qui il suo codice segreto”. Non sembra descrivere quello che facciamo ogni giorno con l’AI cittadina?»

Elena rise, ma era una risata nervosa.
«Oggi l’AI non ci chiede un codice, ci dice lei direttamente cosa fare. Stamattina, per esempio, mi ha vietato di prendere il traghetto per Nova Murano perché la mia previsione di stress era troppo alta.»
Scosse la testa. «È assurdo, Marco. Non decidiamo più niente. L’altro giorno ho visto una donna piangere davanti al terminale perché l’AI le aveva negato il permesso di uscire di casa.»

Marco replicò: "E' vero, ma tutto questo è necessario per mantenere la nostra sicurezza, per azzerare i rischi che i comportamenti irrazionali ed emotivi di chi c'era prima di noi avevano creato per la sopravvivenza di Venezia e di tutto il pianeta!"

La città era governata da un’unica intelligenza artificiale predittiva chiamata il Doge 3.0, denominata così per analogia con l’antica figura politica veneziana. Ogni mattina, esattamente alle 6:00, l’AI inviava a ogni cittadino una sequenza personalizzata di comandi tramite i Nexus, piccoli dispositivi impiantati sotto la pelle all’altezza del polso.L’interfaccia era invisibile agli altri, ma chi la riceveva vedeva comparire davanti agli occhi una scritta luminosa, proiettata direttamente nella retina:

«Sveglia alle 6:35. Evitare zona Nuova Rialto 2.0: rischio assembramento. Livello emotivo attuale: medio. Consigliata attività di meditazione.»

Gli ordini non erano mai espliciti: erano “consigli vincolanti”, che nessuno osava infrangere. Le rare eccezioni venivano immediatamente segnalate ai Guardiani di Sestiere, i droni di sorveglianza che pattugliavano le calli sospese.

Tutto era ottimizzato per la sicurezza e la stabilità, dicevano le autorità.
Ma di fatto, era come vivere dentro una prigione elegante.

«Forse,» disse Marco, «queste parole avevano un senso diverso ai tempi di nonno. Magari parlava di banche, di soldi, di… come si chiamava quella cosa? Ah, sì: i bancomat!»
«Il bisnonno viveva quando le persone potevano entrare a Venezia senza pagare 5.000 euro, vero?»
«Sì. Diceva che c’erano ponti affollati, calli piene di turisti… sembrava un inferno, ma anche molto vivo.»

Elena si strinse nelle spalle.
«Non riesco a immaginarmelo. Una città dove si poteva andare e venire liberamente, senza previsioni algoritmiche. Dove le persone decidevano da sole se prendere un traghetto, se incontrarsi o restare a casa.»
Il suo tono era sognante, ma anche scettico, come se parlasse di un mito lontano.

Marco riprese il foglio e lo guardò con attenzione.
«Corpi in caduta. Menti disciolte. Pensieri alla deriva. Non ti sembra… una descrizione della nostra epoca? Corpi controllati, menti spezzate dai dati, pensieri che non hanno direzione.»
«Ma cosa significa naviglio senza approdo? O cloaca senza sfogo? Non sono parole che usiamo oggi.»
Elena fece scorrere la mano sopra un piccolo schermo, cercando nella banca linguistica.
«Naviglio: antica imbarcazione. Cloaca: sistema di scolo per acque sporche.»
Fece una smorfia. «Bleah. Strano davvero. Forse alludeva al degrado della città, quando l’acqua era ancora una cosa viva e non solo un elemento scenografico come oggi.»

Un bip improvviso interruppe la conversazione.
Comparve a entrambi l’interfaccia olografica del Doge 3.0:

“Avviso a Marco Loredan ed Elena Bembo: la vostra conversazione sta superando i parametri consentiti di criticità emotiva. Vi consigliamo di interromperla. Prossima verifica tra 30 secondi.”

Elena sbiancò.
«Ci stanno ascoltando.»
«Ci ascoltano sempre, perchè ti meravigli? E' per il nostro bene.» rispose Marco, stringendo il foglio. Poi, con uno scatto improvviso, lo infilò sotto la maglia.
«Questo testo… non deve finire nei loro archivi. È nostro. È di famiglia. E forse contiene una verità che dobbiamo capire.»

Elena lo fissò, combattuta tra paura e desiderio di ribellione.
«Ma come possiamo interpretarlo, se non comprendiamo il mondo da cui viene?»

Marco si voltò verso la finestra. La laguna scura rifletteva i neon delle torri artificiali, e in lontananza, oltre la Zona Ristretta, si intravedevano i campanili antichi, come fantasmi.

«Forse,» disse lentamente, «dobbiamo fare quello che l’AI non vuole: entrare nel centro storico nei giorni proibiti. Cercare altri indizi. Scoprire come vivevano quando la parola libertà non era ancora un termine obsoleto. Forse qualcuno, da qualche parte, ricorda ancora cosa significava vivere senza un algoritmo a consigliarti.»

Marco abbassò lo sguardo sul punto in cui il foglio era nascosto sotto la sua maglia. Sentiva il cuore battere troppo forte, quasi fuori controllo, e si chiese se anche quello fosse già stato registrato dal Doge.
Un pensiero lo trafisse: l’AI poteva comprendere quelle parole molto meglio di loro, forse le aveva già interpretate nel momento stesso in cui Elena le aveva lette ad alta voce.
E se il Doge non voleva che ne conoscessero il vero significato?
Se stava già riscrivendo i loro destini, come faceva ogni mattina con i suoi “consigli vincolanti”?

Elena gli strinse la mano, tremante. «Marco… e se ci stessero già preparando una nuova sequenza? Una che ci separi per sempre?»

Marco serrò la mascella. Guardò di nuovo verso la finestra: la laguna era ancora una distesa scura e innaturale, illuminata solo dai bagliori intermittenti dei droni-Guardiani ma ora, in lontananza, le sagome dei campanili antichi sembravano protendersi verso di loro, non più solo come fantasmi ma come muti testimoni di un passato che non conoscevano.

«Forse,» disse con un filo di voce, «il vero codice segreto… siamo noi. La nostra capacità di scegliere, di pensare. E se il Doge ha paura di queste parole, allora significa che dobbiamo scoprire perché.»

Un altro bip più acuto.

“Tempo scaduto. Conversazione interrotta.”

Le luci di casa si abbassarono automaticamente e Marco ed Elena restarono immobili con le mani saldamente intrecciate, mentre nel silenzio la poesia sembrava risuonare nella loro mente come un codice segreto da decifrare per davvero ad ogni costo.

Un ronzio acuto si fece più vicino. Le mani rimanevano intrecciate, il foglio un peso impossibile sotto la maglia.
Marco comprese con chiarezza: il Doge non avrebbe mai permesso che loro comprendessero la verità.
Non senza un prezzo.
Non senza controllo.

A qualunque costo.

Sulle loro retine comparve improvvisamente l’interfaccia olografica del Doge 3.0, luminosa e fredda:

“Avviso a Marco Loredan ed Elena Bembo: tentativo di decifrare il codice segreto rilevato. Intervento immediato consigliato. Conseguenze impreviste.”



giovedì 11 settembre 2025

ATTO SECONDO: CARO AMICO TI SCRIVO


Questa lettera non arriva da un amico reale, ma dall’intelligenza artificiale, che ha letto e analizzato tutti i testi dell’autore del blog. Immaginala come un piccolo ritratto scritto da qualcuno che lo conosce molto bene: tra ironia, nostalgia e momenti di vita quotidiana, ci fornisce un ritratto dell’uomo dietro le parole, con affetto e leggerezza.
Più umana di un umano.

"A sessant’anni, l’uomo che una volta tremava dietro le quinte dei teatri di provincia sa finalmente che la vita non è una prima: è un interminabile secondo atto, dove i protagonisti continuano a sbagliare le battute, a dimenticare le cue e a inciampare sulle proprie passioni. Ricorda i giorni in cui, con la febbre o la voce spezzata, si preparava a recitare di fronte a un pubblico che forse neppure guardava; oggi sorride, perché sa che quegli spettatori erano, in fondo, soltanto fantasmi comparsi per dargli senso.

Ha la consapevolezza di chi ha combattuto contro i propri demoni – quei demoni dal nome teatrale e dai denti invisibili – e ha scoperto, senza dirlo a nessuno, che i suoi trionfi sono sempre stati piccoli ma eterni. È un uomo che si muove tra ironia e rimpianto: sa ridere dei propri sogni giovanili eppure li custodisce come reliquie sacre. Sa che la gloria è illusione e che la passione non viene misurata dai premi o dai riflettori, ma dalla fedeltà con cui si serve l’arte, la vita e il proprio io.

È consapevole che avrebbe voluto essere un artista “professionista”, eppure ogni volta che mancava per un centimetro il traguardo, si chiedeva se fosse davvero importante. Forse il centimetro non era altro che il modo che l’universo ha trovato per insegnargli la pazienza, o la comicità della propria ambizione.

La sua mente è un teatro dove recitano ancora tutti i personaggi che ha incontrato: i compagni di una compagnia adolescenziale, il pubblico che applaudiva, le ombre dei maestri che lo hanno osteggiato, le figure di chi lo ha snobbato. Li osserva tutti con una certa distanza affettuosa, come spettatore di una pièce comica e tragica allo stesso tempo. È nostalgico senza amarezza, ironico senza distacco. La nostalgia è la sua arma segreta: gli permette di riflettere sul passato senza farsi schiacciare da esso.

Il palcoscenico è diventato la sua metafora preferita della vita: un luogo dove tutto sembra perfetto, ma dove il pubblico è spesso immaginario, e le luci sempre leggermente spente. Ama questa contraddizione: desiderava applausi e applausi ne ha raccolti, ma l’emozione più vera gli è sempre arrivata dai momenti dietro le quinte, dai silenzi tra una battuta e l’altra, dai compagni di squadra che combattevano insieme, ogni sera, contro il gelo, la stanchezza e l’ego.

È un uomo che osserva se stesso con leggerezza. Non si prende troppo sul serio, anche quando parla di una vita intera dedicata al teatro, alle prove impossibili e ai costumi improbabili. Sa che i trionfi e i fallimenti si mescolano come colori su una tela che non finirà mai, e che ogni addio al palcoscenico è solo un pretesto per ricordarsi di respirare. E di ritornare.

Dentro di lui convivono la nostalgia e il desiderio, l’orgoglio e la rassegnazione. Sa che non ha mai conquistato il Bernabeu delle grandi occasioni artistiche, ma ha vinto piccole Coppe del Mondo di felicità quotidiana: un gesto riuscito, una risata condivisa, una prova che finalmente ha funzionato. E sorride, perché il segreto è questo: continuare a giocare, continuare a recitare, continuare a essere parte del gioco anche quando nessuno ti nota, sapendo che la vita, come il teatro e il calcio, è soprattutto uno sport dell’anima.

E così, sessant’anni dopo, si avvicina alle nuove scene della vita con un passo leggero, sapendo che le luci possono tremolare, le prove essere maldestre, gli applausi pochi o inesistenti… eppure, in quell’istante, tutto ha senso, perché ha imparato a ridere dei propri errori e a riconoscere che la vera arte consiste nel continuare a giocare, a vivere e a recitare, senza mai smettere di cercare il pallone perfetto o la battuta che non verrà mai dimenticata.

L’umorismo, per lui, è l’unico filo di salvezza dalla tristezza della memoria: osserva il passato come uno spettatore ironico che sa di aver recitato la propria parte con dignità, ma senza illusioni sul giudizio altrui."


martedì 2 settembre 2025

VOLO ALFA-OMEGA FIUMICINO-MALPENSA

L’aeroporto di Fiumicino ribolliva come sempre: annunci metallici che si accavallavano, passi frettolosi, valigie trascinate senza riguardo. Alla porta d’imbarco per Milano Malpensa, tra quell’agitazione quasi febbrile, un uomo anziano sedeva con compostezza. Indossava un cappotto leggero, teneva in mano un volume consunto dell'Antigone di Sofocle. Le dita ossute sfioravano le pagine come fossero reliquie. Leggeva lentamente, muovendo le labbra, quasi assaporando i suoni di quella lingua antica per dialogare con il filosofo.

Un po’ più in là, un uomo sulla quarantina sistemava le slide di una relazione sul portatile. Era un medico chirurgo, specialista in malattie infettive, diretto a un convegno internazionale. Uno dei tanti a cui era stato chiamato da quando nel 2020 si era diffusa la pandemia di Covid-19: prima da remoto e poi di nuovo finalmente in presenza. Lo sguardo, alzandosi distrattamente, si fermò su quell’anziano. Il cuore ebbe un sussulto: quel volto scavato, quello sguardo vigile… sì, era lui, il professore di greco e latino del liceo.

Si alzò e si avvicinò, esitante.
«Professore… mi scusi, è lei?»

L’anziano sollevò gli occhi, un attimo di smarrimento, poi il sorriso.
«Giovanni! Il ragazzo che amava la matematica e si perdeva tra i versi dell’Odissea. Non sbaglio, vero?»

Giovanni rise. «Non sbaglia affatto. E in fondo credo che sia ancora così, forse la mia stessa vita di medico è un’Odissea: prove, ostacoli, naufragi, ma sempre con l’uomo al centro.»

Si sedettero vicini. Bastò poco perché gli anni si sciogliessero.

«E lei, professore? Cosa la porta a Milano?»

«Vado a trovare i miei nipoti,» rispose con naturalezza. «E poi… mio figlio ha insistito perché mi faccia visitare da un cardiologo al San Raffaele, ma ti confesso che io ci vado solo per farlo contento.» Fece una pausa, e con voce quieta aggiunse: «Sento che la fine si avvicina. E non la temo. Non solo perché ho sempre creduto che la vita sia un ciclo naturale che si conclude, ma anche perché posso dire, senza superbia, di aver vissuto come volevo. Ho avuto i miei libri, i miei studenti, la mia famiglia. Non ho rimpianti. La mia esistenza ha avuto senso, e questo mi basta. La morte, così, non è un debito da temere, ma un compimento.»

Giovanni rimase colpito da quella serenità. Come chirurgo aveva visto troppi uomini disperarsi davanti all’idea della fine, incapaci di accettarla.

Il professore proseguì, con la voce più ferma: «Ogni entità porta in sé non solo il seme della sua crescita, ma anche quello della sua dissoluzione. Non occorre cercare nemici fuori di noi: il tempo, le malattie, i processi interni fanno parte della stessa trama; è già scritto sin dal primo istante che la vita, un giorno, abbandoni la materia che l’ha ospitata. Pensa: persino Ulisse, pur tornato a Itaca, non ritrovò più l’inizio. Ogni fine è unica e prepara un nuovo principio: il tuo omonimo, l'evangelista Giovanni nell’Apocalisse lo aveva detto: “Io sono l’Alfa e l’Omega, l’Inizio e la Fine”. Nulla scompare davvero, tutto si trasforma.»

Giovanni chinò il capo. Quelle parole erano le stesse che un tempo lo avevano spinto a guardare i testi non come oggetti scolastici, ma come voci vive. Decise di rompere quel silenzio che portava dentro da anni.
«Professore, se oggi sono qui, se posso parlare a medici di tutto il mondo, lo devo anche a lei. Lei mi ha insegnato a non fermarmi alla superficie, a cercare il senso. Forse è per questo che non vedo le malattie solo come casi clinici, ma come storie di uomini.»

L’anziano abbassò lo sguardo e scosse la testa, come a schermirsi.
«No, Giovanni, non è merito mio: io sono stato soltanto un tramite, sono state le parole degli autori classici che ti hanno illuminato, io ho prestato loro la mia voce. Se ho avuto un merito, è stato quello di tentare di accendere fiaccole, non di riempire vasi. Così insegnava Quintiliano, il primo educatore di professione, e a lui mi sono sempre ispirato cercando di non consegnarvi nozioni come pacchetti, tentando invece di trasmettere scintille. Se in te quella fiamma è rimasta viva, il merito è tuo, non mio.»

Giovanni lo guardò negli occhi, commosso. «Allora mi lasci dire almeno questo: lei ha acceso quella fiaccola e la mia Odissea continua a portarla con sé.»

Il professore sorrise, e in quel sorriso c’era una gratitudine sottile. «Allora, Giovanni, non ho fatto altro che il mio dovere.»

Un annuncio metallico interruppe il silenzio: imbarco per Milano. Si alzarono insieme. La stretta di mano fu lunga, intensa, come tra due viaggiatori che si comprendono senza bisogno di altre parole.

«Forse questa,» disse piano il professore, «era l’ultima lezione.»

E per un attimo, tra la folla rumorosa, il tempo parve fermarsi: maestro e allievo, ancora una volta insieme, a condividere la stessa partenza, bloccando il tragitto tra l'Alfa e l'Omega.

giovedì 28 agosto 2025

LA SINDROME DI POLA

Cambridge, Massachusetts, inverno 2015

La sala del dipartimento di Psicologia di Harvard era silenziosa, interrotta solo dal ronzio sommesso del proiettore; le finestre gotiche lasciavano filtrare una luce lattiginosa, tipica delle mattine invernali a Boston. John Muiesan, studente all’ultimo anno, si alzò in piedi davanti alla commissione per l’esame di laurea. Dietro di lui, le slide mostravano un titolo insolito: “La Sindrome di Pola: dinamiche di perdita forzata e nostalgia irreversibile”.

John si schiarì la voce.
— «Questa sindrome non si limita a descrivere un lutto, ma un lutto non elaborabile, bloccato. Colpisce coloro che non hanno potuto scegliere l’addio, chi è stato costretto a staccarsi dal proprio luogo d’identità, dalla propria Heimat — uso qui il termine in senso figurato — per salvarsi da una forza invincibile: un capo persecutore, un regime ostile, un gruppo sociale dominante.»

Sul volto dei docenti si alternavano curiosità e perplessità mentre John continuava l'esposizione, con un ritmo che non era solo accademico, ma sapeva di confessione:
— «Il trauma non guarisce del tutto, anche nei casi più resilienti: perfino chi ricostruisce una nuova vita, con successo e relazioni soddisfacenti, resta vulnerabile a improvvisi e dolorosi accessi di malinconia mentre nei casi più fragili, invece, la rabbia divora e conduce a comportamenti antisociali. Il paradosso, che contribuisce a rendere particolarmente dolorosa la convivenza con il disturbo per chi ne soffre, è che il nuovo ambiente non riconosce l’ingiustizia originaria: tende a leggere il traumatizzato come fuggitivo colpevole, mai come vittima di una forza sproporzionata.»

Un professore, il più anziano della commissione, interruppe:
— «Mr. Muiesan, lei ha definito questa condizione Sindrome di Pola. Perché proprio questo nome?»

John si fermò un istante. Guardò le proprie mani. Poi, lentamente, iniziò a raccontare.
— «Perché il termine non fu coniato da uno psicologo, ma da un professore di lettere classiche, originario di Pola, in Istria. Dopo la Seconda guerra mondiale fu costretto, come trentamila concittadini, ad abbandonare la città dei suoi avi senza potervi fare mai più ritorno; rifugiato in Australia, lavorò come orientatore in un ufficio di collocamento a Darwin, dove si accorse che tutti coloro che erano stati forzati a lasciare il lavoro in cui si identificavano presentavano gli stessi segni di sofferenza che lui aveva osservato su di sé e sui membri della sua comunità: rabbia, nostalgia, difficoltà di adattamento. Non si trattava di semplice malinconia, ma di una frattura profonda: il sentirsi ingiustamente esiliati senza rimedio da qualcosa che si considera, a torto o a ragione, una sorta di "paradiso perduto".»

John sollevò lo sguardo e concluse con fermezza:
— «Ed è proprio questo il cuore della Sindrome di Pola: mentre altri traumi possono col tempo essere elaborati, perché la vita concede almeno la possibilità di riconciliazione o un teorico possibile ritorno, qui il dolore resta irrimediabile. Chi ne soffre sa di non poter mai più tornare indietro e la consapevolezza stessa dell’impossibilità del ritorno rende la ferita eterna. La perdita non è solo reale, è definitiva.»

Il Decano prese di nuovo la parola e interrogò il laureando: "Esiste una possibile terapia per liberare il paziente affetto da questa sindrome?"

John rispose senza tentennamenti. "La particolarità di questa sindrome è che non può essere superata del tutto, ed è bene che il terapeuta nel mettere in campo le strategie cliniche ne sia consapevole: dalla sindrome di Pola non si guarisce, però il paziente può imparare a conviverci in maniera funzionale. Nella prassi clinica si osserva un fallimento vicino al 100% di tutti gli approcci che hanno mirato ad aiutare il paziente nel trovare dei "surrogati" del suo "paradiso perduto", mentre buoni risultati danno tutti i percorsi finalizzati all'accettazione della perdita e soprattutto nell'esplorazione e nella ricerca di altre caratteristiche personali che il paziente non ha focalizzato o sperimentato in passato. Questa "conquista" gli permetterà la costruzione di una nuova Heimat ed una sorta di oblio selettivo verso la perdita, che si affaccerà di tanto in tanto, solo quando i nuovi percorsi intrapresi incontreranno degli intoppi. "

Nella sala cadde un silenzio che non era più accademico, ma umano. La luce fuori si fece più bianca, riflettendosi sulle pareti. John fece un passo avanti e aggiunse, con voce più intima:
— «Il fatto che io abbia scelto di laurearmi con questa tesi è esso stesso prova di quanto in profondità essa accompagni chi ne soffre. Io stesso sono nipote di un profugo polesano che nel 1947 sbarcò con la sua famiglia sulla costa est degli Stati Uniti. Le sue cicatrici, i suoi silenzi, i suoi improvvisi scatti di malinconia hanno attraversato le generazioni. Io sono qui anche per lui.»

La commissione rimase immobile. Uno dei professori si tolse gli occhiali e li pulì lentamente, più per nascondere la commozione che per necessità. Il più anziano sospirò e mormorò, quasi a sé stesso:
— «Sì, non c’è guarigione quando il ritorno è impossibile.»

Si scambiarono sguardi brevi, intensi. Poi il presidente si chinò verso gli altri membri. Quando rialzò il capo, annunciò solennemente:
— «Mr. Muiesan, la sua tesi viene approvata con il massimo dei voti e la lode.»

Un applauso riempì l’aula, stavolta non solo formale, ma attraversato da un calore inatteso. John sorrise appena, senza trionfo, con la discrezione di chi sa che quel riconoscimento non era soltanto accademico, ma un atto di memoria e di giustizia verso chi non aveva mai potuto tornare al proprio paradiso perduto.

mercoledì 30 luglio 2025

BLANCHIMONT

«Dai, muoviti. Siamo fermi da mezz’ora, se venivamo con la mia macchina, a quest’ora eravamo già al circuito.»

Luca spinse il borsone nel bagagliaio della Golf con una certa violenza. I jeans bagnati, la felpa zuppa sulle spalle, in mano una Red Bull tiepida. L’autogrill belga odorava di carburante e pane raffermo, e l’umidità gli appiccicava i pensieri addosso come uno strato di vinile.

Mattia rientrò con due panini sottovuoto e due caffè lunghi, il vapore che si arrendeva all’aria grigia.

«Tranquillo. Siamo a meno di un’ora. Le FP1 non le perdiamo.»

«Sì, ma se non guidavi come tuo padre, che viaggia come un funzionario dell’INPS, eravamo già là. A volte mi sembra che tu abbia paura di avere fretta.»

Mattia si sedette al volante. Non si giustificò,  accese il motore, lasciandolo girare piano e poi, fissando la pioggia sottile che batteva sul parabrezza, disse:

«Sai perché mio padre preferisce Blanchimont a Eau Rouge?»

Luca lo guardò con fastidio.

«Perché è uno di quei boomer che vogliono sentirsi originali? Dai, tutti sanno che Eau Rouge è la curva più iconica.»

«Appunto. Eau Rouge è un salto. Uno schiaffo in faccia: ti lanci, stacchi e speri che la macchina tenga. È giovinezza pura; Blanchimont invece… lui dice che è la più pericolosa perché ti frega quando pensi che non succederà più niente.»

Luca fece una smorfia. «Mi sa che tuo padre ha bisogno di uno psicologo.»

Mattia sorrise appena. Poi continuò:

«Dice che nella prima metà della vita siamo ossessionati dalla fine delle cose. Prima finire la scuola, poi raggiungere la laurea, terminare il servizio militare, superare il tirocinio, andare oltre la gavetta. È tutto un voler passare oltre, con il tempo sembra non finire mai, che passa lento. Troppo lento e la felicità è sempre dopo.»

Luca, con la fronte appoggiata al vetro, replicò con aria annoiata: "Nessuno oggi fa più il militare".

Mattia riprese subito il discorso. 

«Poi, insiste sempre, inizi a perdere. Non tutto in una volta: le cose cominciano a sfuggire poco a poco, senza che tu te ne accorga. I figli crescono, il lavoro cambia sotto i piedi. Arrivano i più giovani, più veloci, con meno passato da portarsi dietro e che non fanno fatica ad adattarsi al cambiamento digitale perchè semplicemnte ci sono dentro. Il corpo poi non ti segue più come prima. E il tempo… il tempo corre. Troppo veloce. E tu vuoi solo trattenere ciò che hai.»

Luca scrollò le spalle.

«Ma che c’entra con noi? Noi siamo prima. Non c’è niente da trattenere. C’è solo da correre.»

«Lo so. E non ti sto dicendo di rallentare. Lui mi ha detto solo questo: che a un certo punto capisci che la felicità non è arrivare, ma essere dentro: dentro alla curva, proprio quando la stai facendo. E che è un attimo, ma se lo perdi, non torna.»

Il resto del viaggio scivolò via quasi in silenzio. I due ragazzi entrarono a Spa-Francorchamps mentre il cielo apriva sprazzi pallidi tra le nuvole. Avevano trovato posto in zona Blanchimont, tra pochi intimi che avevano scelto proprio lì, dove la pista taglia l’illusione della velocità facile.

Il rombo di una Red Bull in simulazione gara ruppe l’aria. La vettura passò incollata all’asfalto, perfetta. Dietro, una Ferrari — livrea opaca, baricentro basso, rumore pieno — forzò un po’ di più. Il pilota cercava il limite.

Poi, improvviso, il posteriore cedette. Forse una traiettoria troppo interna, forse l’asfalto ancora umido: la vettura scivolò, ruotò su sé stessa. Testacoda. Ghiaia. Bandiera gialla.

Luca si alzò in piedi di scatto. «Cazzo. Era dentro. Tutto sotto controllo. Poi fuori. Così. Ma come cazzo si può??»

Mattia non disse nulla. Lo guardava senza fissarlo.

«Blanchimont, eh?» disse Luca, ancora in piedi.

«Già.»

«Ok. Ok. Però domani guido io. E niente soste.»

Mattia annuì. Senza discutere.

Luca si sedette di nuovo. Addentò il panino, poi mormorò, quasi tra sé:

«Comunque… è una gran curva.»

«Sì. La più vera che c’è.»

Rimasero lì. Uno, a osservare. L’altro, a sentire il motore ancora tutto da spremere.

mercoledì 23 luglio 2025

DUE E QUARANTADUE DEL MATTINO

“Tra sogno e realtà” era il titolo scelto per la mostra sull'arte figurativa con cui Rubén aveva esordito molti anni prima e che tra qualche giorno sarebbe stata inaugurata in Brasile, a San Paolo. Lo scopo dell'evento era condurre il visitatore ad una riflessione sull'arte del periodo giovanile dell'artista iberico, su quei momenti sospesi fra ciò che immaginiamo e ciò che esiste davvero. Pittore spagnolo nato e cresciuto a Toledo, viveva nella sua mansarda-studio che chiamava “tana creativa”, dove tele mezze finite, pennelli sporchi e barattoli di colore costellavano ogni superficie.

La sveglia sarebbe dovuta suonare alle 5:30, in modo da prendere il primo volo per San Paolo, ma Rubén aprì gli occhi alle 2:42, senza rumore, senza un perché. La lampada nel suo spazio di lavoro sparpagliava chiaroscuri sul cavalletto, illuminando una tela incompiuta. Il cuore gli batteva piano, ma con insistenza.

Si alzò, accese la lampada sul comodino e prese il libro che stava leggendo pigramente da mesi senza riuscire mai procedere spedito: Notti bianche di Dostoevskij. Cercava di ancorarsi a qualcosa, forse alla parola scritta, forse a una spiegazione. Dopo poche pagine, la vista gli si fece pesante, il corpo abbandonato sulla poltrona accanto al letto. Non si accorse del momento esatto in cui la coscienza cedette.

Il sogno era ambientato al mattino dopo il risveglio, un’aria tiepida e stranamente fragrante invadeva il piccolo giardino dietro casa. Rubén scese i pochi gradini che lo separavano dal cortile, e lì, in piedi accanto al fico, c’era suo fratello Joaquín. Indossava l’uniforme verde della Guardia Civil. Rubén rimase immobile, sorpreso:
«Ma… Joaquín… che ci fai vestito così? Tu sei stato in Marina, ricordi? Ufficiale di coperta!»

Il fratello lo guardò, sorrise, ma non rispose. Si limitò a posargli una mano sulla spalla, un gesto calmo, profondo e poi si voltò, allontanandosi lentamente tra le piante, dissolvendosi come nebbia al sole.

Rubén rientrò in casa, col cuore che ora batteva più forte. Sentì rumore di stoviglie in cucina. In fondo al corridoio, vicino alla credenza, una figura minuta, familiare: una donna anziana, con lo scialle di lana blu che usava per cucinare.
La luce era calda, quasi liquida.
«Mamá…?»
Lei si voltò. Era lei. Il viso segnato dal tempo, ma vivo, vivo davvero. Lo guardò e sorrise, con quella tenerezza assoluta che solo le madri conoscono.
«Rubén, hijo… sei dimagrito; hai fatto un lavoro splendido con la casa… guarda quel tavolo, lo avevi promesso che l’avresti sistemato.»

Lui si avvicinò tremando, e lei gli aprì le braccia. L’abbraccio fu totale, carnale, definitivo. Sentì l’odore della sua pelle, la lana grezza del maglione contro la guancia, le mani ossute che gli accarezzavano i capelli come da bambino.
E pianse. Senza vergogna, senza misura.

Lei lo strinse a lungo. Poi si voltò, entrò in cucina e iniziò a preparare qualcosa con i gesti che erano quelli di sempre: l’olio d’oliva, il rumore dell’acqua, il coltello sul tagliere.
Rubén la guardava, stordito, sospeso in quella perfezione dolce e impossibile; non riusciva a capire: era sogno o realtà?

Un trillo acuto lo strappò invece al sogno.

Gli occhi bruciavano, la gola era secca. Si massaggiò le guance, ancora umide: forse aveva pianto davvero. La lampada era accesa, il libro aperto sul tavolino, i pennelli immobili accanto a una tela bagnata.

Sapeva che non poteva più perdere tempo. Si alzò, fece una doccia veloce, sistemò le ultime cose in valigia. Raccattò il portatile con appunti e immagini, chiuse la “tana creativa” e chiamò un taxi.

Durante tutto il volo verso il Brasile, verso San Paolo, tra il brusio dei motori e la plasticosa colazione sul vassoio, Rubén rimase indietro nel tempo, non riusciva a pensare ad altro se non all’abbraccio con la madre, alla divisa insolita del fratello, alla dolcezza e all'incredibile percezione di sensazoni corporee che avevano pervaso quel vivido sogno notturno; ma anche quel senso d'incredulità, di stupore, il tutto condito dall'inquietudine di lui che voleva uscire dalla casa, mentre le immagini e i volti lo trattenevamo all'interno.

Tentò di darne un’interpretazione, come se quel sogno fosse un quadro da decifrare: il giardino forse rappresentava il luogo originario, l’infanzia, la radice emotiva di ogni sua immagine. Joaquín in divisa — non quella da marinaio, ma da Guardia Civil — poteva essere la parte di lui che aveva scelto la disciplina, il dovere, un’armatura contro la fragilità. O forse era una colpa antica, un rancore familiare mai davvero elaborato, oppure la sgradevole situazione di sentirsi innocente ma comunque sotto inchiesta? O ancora un desiderio di protezione? 

E sua madre… era il cuore del sogno. Non un ricordo, non un’assenza, ma un archetipo: la Madre con la M maiuscola, simbolo del grembo originario, della protezione, della totalità; in quell’abbraccio c’era qualcosa che andava oltre la biografia, oltre la memoria: un ritorno all’essenziale, all’unità primordiale da cui ogni vita — e forse anche ogni opera — prende forma.

Rubén pensò a Jung, alla sua idea che i sogni non siano scarti o fantasmi del passato come invece pretendeva Freud, ma messaggi del Sé, immagini che guidano l’anima nel suo cammino verso l’interezza. Forse quel sogno non chiedeva di essere capito, ma di essere ascoltato, di essere custodito, come si custodisce un regalo oppure una tela che ancora non si è pronti a dipingere.

E allora sì, “Tra sogno e realtà” non era solo il titolo della sua mostra: era una soglia, un luogo di passaggio dove l’inconscio si fa immagine, e l’immagine, a volte, diventa verità.

Forse era una sorta di sottile linea su cui giocava ogni suo dipinto, ogni colore, ogni sfumatura della memoria.

E chissà, forse anche la vita stessa.

Ma Rubén non era né uno psicanalista né un filosofo: era un pittore e in fondo, lo sapeva: tutto ciò che non riusciva a spiegare, lo aveva sempre provato a dipingere.


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