giovedì 28 gennaio 2021

SCONGIURI, MAGIA BIANCA E NERA

In vista della gara di domenica è meglio iniziare subito a mettere in cantiere una buona dose di scongiuri, perché il rischio che Spezia - Udinese risulti indigesta per i tifosi friulani e mandi di traverso il pranzo domenicale è piuttosto alto, a giudicare dai precedenti tra le due squadre.

Nel complesso bianconeri friulani e liguri si sono sfidati 14 volte, con gli spezzini vincenti in 9 occasioni a fronte di 4 successi udinesi e un solo pareggio; se lo sguardo poi si sposta sulle 6 gare disputate all'Alberto Picco di La Spezia, il dato si fa ancora più preoccupante: ben 5 successi liguri contro uno solo dei friulani.  

Ed è proprio a quell'unico successo che voglio aggrappare le speranze "cabalistiche" da affiancare alla già menzionata dose di scongiuri per confidare in un risultato positivo dell'Udinese nella delicata ed importante sfida di domenica prossima in Liguria, facendo anche finta di dimenticare che negl'ultimi due incontri in ordine temporale, disputati entrambe sul terreno del Friuli gli spezzini ci hanno estromesso al primo turno della Coppa Italia (2-3) nell'agosto 2016 e battuti per  2-0 nella prima gara di questo campionato tra le "mura amiche".

Quell'unica vittoria friulana risale addirittura al 10 novembre 1940, sesta di andata del campionato di serie B 1940/41, in pieno periodo bellico, quando gli uomini del presidente Enea Caine e allenati da Pietro Piselli violarono lo stadio Alberto Picco di La Spezia con un rotondo 2-0, fissato dalla doppietta del bomber Walter D'Odorico.

Il campionato 2020/21 si svolge nel bel mezzo di una pandemia che, assieme ad una guerra mondiale, è sicuramente circostanza da annoverarsi tra le peggiori sciagure con cui l'umanità  si debba confrontare: altro elemento di contatto con quel lontano precedente su cui fondare il proprio ottimismo in vista di domenica.

Non ci resta che incrociare le dita - o qualsiasi altra forma di scongiuro ammesso dalla magia bianca e nera - e magari trovarci alla fine del pranzo domenicale con un altro 2-0 a favore dell'Udinese, magari con il  nuovo arrivato bomber Fernando Llorente ad esordire con una doppietta e a vestire quindi i panni che furono di Walter D'Odorico.

Troppa grazia? Forse si, ma se mettiamo limiti anche i sogni, cosa ci resta?

Per i curiosi, in quel campionato di serie B di ottant'anni fa, Udinese e Spezia, si piazzarono a braccetto a metà classifica, rispettivamente all'11mo e 12posto con 31 e 30 punti e proprio con quello scontro diretto a fare la differenza; il campionato, a 18 squadre, registrò al termine la promozione in serie A di Liguria e Modena e la retrocessione in C di Verona, Anconitana, Maceratese e Pro Vercelli.

     

martedì 26 gennaio 2021

IL ROMANZO DI ITALIA-ARGENTINA (1974-1990)









Nella storia della coppa del mondo una delle sfide più iconiche del torneo è senza dubbio Italia-Argentina, "scontro" che si è visto per ben 5 edizioni consecutive della manifestazione dal 1974 al 1990, prima di scomparire dal radar, complice il sorteggio prima e il declino italiano dal 2010 in avanti poi. Sfide quasi sempre senza esclusione di colpi, quelle fra gli azzurri e l'albiceleste, degne di un vero e proprio derby, considerato che dal 1871 al 1985 quasi 3 milioni di italiani hanno trovato nel paese sudamericano la loro patria di adozione durante la varie ondate migratorie dal nostro paese verso il resto del mondo, tanto da far dire allo scrittore Octavio Paz:  "Los argentinos son italianos que hablan español y se creen ingleses".

Se gli azzurri sono in vantaggio nel computo degli scontri diretti, essendo usciti sempre imbattuti durante i tempi regolamentari e supplementari, gli argentini in 4 edizioni su 5 sono riusciti a concludere davanti agli italiani nella classifica finale, vincendo addirittura per due volte la coppa del mondo.

Andiamo con ordine e riavvolgiamo il nastro della memoria.

Il primo incrocio avvenne durante il mondiale tedesco del 1974, al primo turno nella seconda partita di un girone che comprendeva anche Polonia e Haiti. L'Italia si presentava ai nastri di partenza quale vice-campione in carica, decisa a recitare il ruolo di protagonista con una rosa composta da tanti "messicani" e imbattuta da più due anni, mentre gli argentini erano considerati poco più che un possibile outsider, già paghi per essersi qualificati alla fase finale dopo l'assenza di quattro ani prima. L'incontro era lo snodo per la qualificazione al turno successivo, in quanto gli azzurri erano reduci da un faticoso 3-1 inflitto ai dilettanti di Haiti mentre i sudamericani dalla sconfitta per 3-2 all'esordio contro i sorprendenti polacchi; per gli italiani anche il pareggio era un risultato non disprezzabile, pensando di poter poi ottenere senza troppi patemi un altro pari con una Polonia già qualificata e quindi paga nella gara successiva e garantirsi così il passaggio matematico del turno. Il 19/06/1974 al Neckarstadion di Stoccarda, davanti ad un pubblico quasi esclusivamente tricolore, finì proprio 1-1 con vantaggio argentino di Houseman al 20' e fortunato pareggio azzurro grazie ad una rocambolesca autorete di Perfumo al 35'; fu una gara dominata dai sudamericani decisi a vincere ad ogni costo contro un'Italia spenta e che giocò per non perdere, con molti dei suoi uomini chiave fuori condizione e al capolinea della loro carriera in nazionale, come Gianni Rivera e Gigi Riva all'ultimo ballo con i colori azzurri. Ci si rammaricò per un gol sfiorato da Mazzola nel finale, rete che ci avrebbe dato la qualificazione e fatto vincere senza gran merito quel match. I calcoli al risparmio degli uomini di Valcareggi furono stravolti qualche giorno dopo sempre a Stoccarda, quando i già qualificati polacchi non ci fecero sconti e, castigandoci per 2-1 - 2-0 già alla fine del primo tempo - ci mandarono a casa permettendo agli argentini, vincenti per 4-1 sui malcapitati caraibici, di passare il turno al posto nostro e piazzarsi ultimi nel girone A di semifinale contro l'Olanda di Cruijff (0-4), il Brasile di Rivelino (1-2) e i tedeschi dell' Est, alla loro prima e ultima recita mondiale (1-1).

Musica assai diversa quattro anni dopo allo stadio Monumental di Buenos Aires, quando le due nazionali incrociarono di nuovo i guantoni al primo turno del mondiale organizzato in Argentina dal Governo dei "Generali" golpisti, in piena dittatura militare e con la tragedia dei "disaparecidos" ancora in corso. Questa volta le due squadre giocavano l'ultima partita del primo girone, a pari punti, avendo vinto entrambe le partite contro Francia e Ungheria e quindi già qualificate per il gruppo di semifinale, con gli italiani in vantaggio nella differenza reti e primi nel raggruppamento. Anche in questa circostanza il pareggio era un buon risultato solo per gli azzurri, che avrebbero conservato il primato e il diritto a disputare a Buenos Aires il girone di semifinale, costringendo i padroni di casa ad "emigrare" a Rosario. Fu un match vero, con Bearzot e Menotti che non diedero spazio alle seconde linee e non vollero rinunciare ai titolari per darsi battaglia, scontro che si concluse con la vittoria italiana grazie al gol a metà del secondo tempo messo a segno da Roberto Bettega dopo un assist di tacco di Pablito Rossi, rete poi votata dalla stampa internazionale come la  più bella di tutta la manifestazione. Il CT Menotti non accettò di buon grado la sconfitta, accusando gli italiani di gioco eccessivamente rude e il Bearzot di essere venuto meno ad un presunto patto che prevedeva l'impiego delle riserve in caso di ininfluenza del match per la classifica finale. Accuse tutte respinte al mittente da parte azzurra sia nella forma che nel merito. In ogni caso il successo, di sicuro prestigio internazionale e dall'alto valore sportivo, si rivelò una vittoria di Pirro: nel girone di semifinale l'Italia a Buenos Aires fu costretta ad affrontare la Germania Ovest e l'Olanda, le due finaliste di Monaco 1974 e costretta a cedere il passo proprio agli Orange per la finalissima, mentre i biancocelesti a Rosario si guadagnarono la finale infliggendo un sonoro - e addomesticato - 6-0 al già eliminato Perù nell'ultima gara in calendario. Finale che poi vide il trionfo dell'Argentina di Kempes e Passarella per 3-1 dopo i tempi supplementari e al termine di un match durissimo contro gli olandesi, talmente furiosi contro i rivali e contro l'arbitro italiano Gonnella reo di aver permesso ogni scorrettezza ai padroni di casa, da non presentarsi neppure alla cerimonia di premiazione. 

A Spagna 1982 il 29 giugno va in scena il terzo atto del romanzo in quel di Barcellona, nel piccolo stadio Sarrià, oggi divenuto un centro commerciale a seguito della sua demolizione. Prima gara del secondo turno di un girone che comprende anche il Brasile e che darà diritto ad accedere alla semifinale alla vincente del raggruppamento definito "il girone della muerte". Il pareggio serve a poco, conta vincere per contendere poi ai favoritissimi verdeoro la strada verso Madrid e, gli argentini campioni del mondo in carica e con il Pibe de Oro Diego Armando Maradona al suo primo mondiale, giungono nettamente favoriti contro una squadra azzurra che sembra capitata lì per caso, senza vincere neanche una partita, per un misero gol in più rispetto al Camerun nel primo turno e destinata per tutti a recitare il ruolo di "materasso" per i due squadroni sudamericani. Invece fu l'inizio della leggenda di Spagna per i colori italiani, che in una partita più simile ad una battaglia corpo a corpo che a un incontro di calcio, stordirono nella ripresa gli argentini e spezzarono i loro furiosi assalti alla porta di Zoff con due gol in contropiede di Tardelli e Cabrini a cui nulla valse una punizione vincente di Passarella a 9 minuti dalla fine. "El partido" finì ancora con le recriminazioni e le accuse di Menotti per la spietata marcatura a uomo di Gentile su Maradona e sulla presunta incapacità italica a creare gioco d'attacco e il riso sotto la pipa di Bearzot, pronto a fare spallucce e a spiccare il volo verso la gloria eterna grazie al nuovo "miracolo" contro il Brasile e alla conquista della coppa del Mondo.

Quarto atto in Messico, a Puebla il 5 giugno 1986, ancora una volta seconda partita del primo turno, questa volta con l'Italia di Bearzot ad avere i galloni di campione del mondo in carica e l'Argentina, guidata adesso da Carlos Bilardo, a recitare il ruolo di outsider. Il pari va bene a tutte e due le squadre, sia ai sudamericani vittoriosi all'esordio con i sudcoreani che agli azzurri, raggiunti sul pari nel finale dalla Bulgaria nella gara inaugurale. E pari fu, con un rigore realizzato da Altobelli al 6' e una rete di Maradona al 34', con l'asso argentino capace di beffare in velocità il capitano Scirea e un immobile Giovanni Galli. Partita noiosa e con pochi sussulti, a parte un palo di Bruno Conti del tutto casuale  in una ripresa giocata da entrambe le squadre per "non farsi" del male. Una vera e propria anomalia nel romanzo che stiamo raccontando, fatto di sfide "all'ultimo sangue", cariche di agonismo e di giocate spettacolari. In ogni caso fu l'unico punto perso per strada dall'Albiceleste sulla via che la porterà al trionfo per 3-2 sulla Germania Ovest nella finale dell'Azteca a Città del Messico, trascinata letteralmente dai colpi, leciti e meno leciti ma sempre straordinari, del Maradona più forte di sempre. Per gli azzurri invece, ancora una volta imbattuti, l'unico risultato di prestigio in una competizione che li vide abdicare in maniera anonima al ruolo di campioni in carica, eliminati senza fatica negli ottavi di finale per 2-0 dalla Francia di Le Roi Platini.

E così siamo arrivati all'epilogo, nella sfida sicuramente più dolorosa e sanguinosa per la nazionale italiana, la semifinale di Italia '90, disputata a Napoli il 3 luglio 1990. Gli azzurri arrivano con il vento in poppa, reduci da un percorso netto di 5 vittorie su 5 senza subire neanche un gol, esprimendo un gioco a tratti entusiasmante e nel motore il talento purissimo di un giovanissimo Roberto Baggio e l'incredibile stato di forma del semisconosciuto esordiente Salvatore Schillaci, capace di trasformare in rete anche mezza occasione. Gli argentini, campioni in carica, hanno invece perso la partita d'esordio con il Camerun, hanno passato il primo turno grazie a favori arbitrali e come terzi ripescati, hanno eliminato il Brasile agli ottavi con un unico tiro in porta in una partita dominata dai verdeoro fermati per ben tre volte dai legni e arrivano alla semifinale dopo aver superato ai quarti la Jugoslavia ai calci di rigore ed essere stati sull'orlo dell'abisso a seguito dall'errore dal dischetto proprio di Maradona. Sembra non ci debba essere partita, nonostante i tentativi della vigilia del Pibe de Oro di dividere il tifo napoletano e le scelte cervellotiche del CT Vicini di schierare all'inizio uno spaesato Vialli invece di Roberto Baggio. Il primo tempo ci vede chiudere in vantaggio grazie all'ennesimo gol di Schillaci, ma nella seconda frazione gli azzurri denunciano il "braccino corto" e forse il peso di un mondiale casalingo da vincere a tutti i costi mentre i biancocelesti, maestri quando si tratta di far saltare nervi tesi, riescono a "cojonarci" prima a metà ripresa con un golletto di Caniggia, favorito da un'improvvida uscita a vuoto di Zenga, poi portandoci ai tempi supplementari spezzando continuamente il gioco con ogni genere di astuzia lecita e meno, ed infine trasformando il loro secondo portiere Goycochea in una saracinesca capace di chiudere la porta ai tiri di Donadoni e Serena e spedirci a Bari per la finalina di consolazione. Per noi italiani una beffa atroce, una ferita mai rimarginata che volemmo subito vendicare fischiando beceramente l'inno argentino nella finale di Roma e schierando tutto il nostro tifo a favore della Germania, che riuscì a piegare il grande orgoglio argentino solo grazie ad un dubbio su calcio di rigore a pochi minuti dalla fine.

Da allora 3 amichevoli e la Supercoppa FIFA tra la vincente dell'Europeo e della Coppa America nel 2022, vinte sempre nettamente dai nostri "cugini" sudamericani. 

Chiudo con un dubbio "atroce": riprenderà mai il romanzo, quello vero, di Italia-Argentina?

         

 

   

  

 


    

venerdì 22 gennaio 2021

ITALIA '90: LA FIERA DELLE OCCASIONI MANCATE

 Se per i colori azzurri Spagna '82 è stato l'avverarsi di un sogno che nessuno osava sognare, Italia '90 è passata alla storia come una favola che cambia il lieto fine già scritto, mutandolo nel peggiore dei finali possibili, proprio a ridosso dell'ultimo capitolo.

Il Mondiale delle "Notti Magiche" disputato nel nostro paese dall'8 giugno all'8 luglio 1990 rimarrà per sempre nella memoria collettiva nazionale come quello delle grandi occasioni perdute. Certamente sul piano sportivo, ma purtroppo e  - soprattutto - anche sul versante economico e sociale.  

Dal punto di vista sportivo la delusione fu tremenda, d'accordo: peggio di una doccia gelata a tradimento  o un pugno nello stomaco a freddo;  fermarsi in semifinale battuti a Napoli ai calci di rigore da una "scassatissima" Argentina - benché campione del mondo in carica - dopo aver chiuso il primo tempo in vantaggio e aver vinto tutte le 5 partite precedenti senza prendere neanche un gol fino alla fatale "papera" di Zenga su Caniggia "grida ancora vendetta". Queste però sono circostanze che possono capitare, fa parte della normale "alea" di una competizione, come un Mondiale, in cui il fattore "C" gioca un ruolo importante, ma oggettivamente la nazionale azzurra agli ordini di Azeglio Vicini onorò al meglio il torneo casalingo con una squadra capace di entusiasmare nelle serate romane - le famose notti magiche appunto - e di mettere in mostra sia un collettivo di assoluto valore internazionale e individualità di livello mondiale come Roberto Baggio e Franco Baresi, per citarne gli esempi più luminosi. E poi la favola di Totò Schillaci, "il ragazzo del sud" semi-sconosciuto che a sorpresa stupì il mondo e che quasi riuscì a seguire fino in fondo le orme di Pablito Rossi, Re di Spagna.

Sul piano più squisitamente tecnico fu, in generale, una competizione mediocre priva di match e giocate davvero memorabili, ricca di errori arbitrali e di molte partite noiose, disputata in un momento di grande fermento sociale e sull'orlo di stravolgimenti geo-politici epocali, pochi mesi dopo la caduta del muro di Berlino del novembre 1989. Fu l'ultimo mondiale in cui parteciparono le maglie rosse con il celeberrimo CCCP e quelle blu della Jugoslavia e con la Germania, campione finale, ancora solo OVEST benché prossima alla riunificazione del 3 ottobre di quell'anno. Il mondo del secondo dopoguerra volgeva al termine e nessuno immaginava cosa potesse riservare il futuro, ma si respirava un'atmosfera di grande fiducia, di ostentato ottimismo. Il futuro, quello vero, di lì a poco presentò invece conti molto salati e tragici da pagare con la dissoluzione dell'impero moscovita che fece da innesco alle guerre nei balcani, in medio-oriente e nelle stesse repubbliche ex-sovietiche.

La vera occasione persa per il nostro paese fu quello di utilizzare in maniera sana l'enorme mole di finanziamento pubblico destinato all'evento che doveva dare al mondo l'immagine di un'Italia efficiente e all'avanguardia nel panorama internazionale. Purtroppo l'evento fu preparato nella seconda metà degli anni'80, quelli in cui il sistema politico della "Milano da bere" era all'apice e stava dando il meglio - ovvero il peggio di sé.

Quella pioggia di miliardi di lire si disperse in mille rivoli "grazie" alla corruzione su cui si fondava il sistema politico-economico nazionale del periodo - e che nel 1992 l'inchiesta del pool "Mani Pulite" portò alla luce nella sua cruda precisione -  mentre la parte che poi venne effettivamente impiegata per il suo scopo originario fu anche spesa decisamente male.

Opere pubbliche faraoniche terminate all'ultimo minuto, impiegate per un mese e poi abbandonate per anni prima di una difficile e parziale riconversione. Stadi enormi costruiti ex novo ma completamente inadeguati come il San Nicola di Bari - oggi cattedrale nel deserto e in avanzato stato di decomposizione - o il "Delle Alpi" di Torino, addirittura demolito vent'anni dopo per far sorgere il nuovo impianto della Juventus. Lo stadio Olimpico di Roma demolito per tre quarti e ricostruito con una spesa almeno tre volte maggiore rispetto all'edificazione di un vero impianto per il calcio.

Il fallimento pressoché totale di quell'investimento così massiccio di risorse pubbliche fu palese negli anni a venire, quando il nostro paese si "svegliò" scoprendo di essere diventato una sorta di terzo mondo sul versante dell'impiantistica sportiva rispetto agli altri paesi europei, con stadi del tutto inadeguati ad ospitare i tifosi nell'epoca delle pay-tv, era che iniziò solo qualche anno dopo la fine di Italia '90.

Un'altra occasione persa per il nostro paese fu quella di dare un esempio di correttezza sportiva, quando invece mostrammo il volto più becero il giorno della finale di Roma, coprendo di fischi l'inno argentino suonato dalla banda dell'Arma dei Carabinieri schierata al centro del terreno dell'Olimpico e poi fischiando e inveendo ogni volta che Diego Maradona toccava la palla.

Le note rese inascoltabili dal frastuono, i volti increduli e arrabbiati dei giocatori argentini e del CT Bilardo, Maradona furente che urla "Hijos de Puta"... tutte immagini trasmesse in diretta dalle telecamere in mondovisione e che testimonieranno per sempre una pagina tra le più brutte della storia dello sport. E non solo.

E' vero che Maradona, come sempre, ci aveva messo del suo qualche giorno prima della semifinale di Napoli contro l'Italia tentando di dividere il tifo per gli azzurri, dicendo maliziosamente il vero dichiarando che "L'Italia si ricorda di Napoli solo quando ha bisogno mentre in tutti gli altri giorni dell'anno considera i napoletani come terroni".  E' vero anche che la sconfitta degli azzurri ai rigori aveva creato una grande delusione. 

Ma è sicuramente vero che, fischiando l'inno di una nazione che ha dato una chance a tanti e tanti nostri connazionali là emigrati il secolo scorso, abbiamo perso l'occasione di dimostrare sportività e correttezza. Quella che invece ebbe il pubblico di Napoli quella "maledetta" sera della semifinale, cantando l'inno di Mameli, tifando Italia e astenendosi dal tifare contro Maradona e l'Argentina, mantenendo l'impegno esposto su di uno striscione in bella mostra nella curva B: "Maradona, Napoli ti ama ma l'Italia è la nostra patria."

Che poi, se avessimo giocato anche la semifinale a Roma invece che a Napoli, probabilmente avremmo vinto è tutta un'altra storia e resterà sempre e solo un pensiero consolatorio per tutti quelli che, l'epilogo quel mondiale non vinto, non l'hanno mai digerito.          

       

   

lunedì 18 gennaio 2021

DOPO L'ARMATA ROSSA NEL 1968, NEL 2000 L'ARMATA BIANCONERA INVASE PRAGA

 








Ancora oggi molti si ricordano del tentativo di Alexander Dubček di dare, nella primavera del 1968, un volto umano all’ortodossia socialista in Cecoslovacchia ma, soprattutto, di come finì l’esperimento: nella notte del 20 agosto di quell’anno, dal Cremlino Leonid Brežnev diede l’ordine di invadere il paese “fratello” e l’Armata Rossa con 6.000 carri armati e 400.000 uomini eseguì con zelo e precisione l’ordine. In particolare, Praga, fu occupata in modo capillare, riempendosi in ogni dove di soldati sovietici e con le strade presto ostruite da centinaia e centinaia di tanks e mezzi di trasporto truppa. Uno sfregio che i praghesi non dimenticarono e non vogliono dimenticare, anche se la loro città nel corso della sua storia ha spesso visto piombare per le vie eserciti stranieri con tutte le vettovaglie al seguito, come nel 1648 fecero le truppe svedesi del Re Gustavo Adolfo durante la guerra dei trent’anni oppure nel 1939 i soldati di Adolf Hitler per creare il Protettorato di Boemia e Moravia. 

O come il 28 e 29 febbraio 2000, quando nella capitale della Repubblica Ceca calarono le orde dell’Armata Bianconera; provenienti dal Friuli, prima con piccoli avamposti aviotrasportati e poi in massa con centinaia di auto private e autocorriere adibite al trasporto delle truppe, conversero sulla capitale boema per sostenere l’Udinese impegnata contro la Slavia Praga nella gara di andata degli ottavi di finale della Coppa U.E.F.A. edizione 1999/2000. Un’armata baldanzosa e agguerrita, convinta che gli “Eroi di Leverkusen” avrebbero avuto vita facile contro gli orgogliosi ma modesti cechi in maglia biancorossa, dopo che l’Udinese si era qualificata violando, con due reti del centravanti di riserva Massimo Margiotta e i miracoli del secondo portiere Morgan De Sanctis, nientemeno che la Bayer Arena, mandando a casa la capolista del campionato tedesco, forte dei vari Ballack, Emerson, Kirsten, Nowotny e Zè Roberto. Anche io fui arruolato in quell’Armata che, per due giorni “occupò” Praga in ogni angolo, con la stessa capillarità delle truppe del Patto di Varsavia nell’agosto del 1968. Non alla ricerca di dissidenti o di socialisti “dal volto umano” da reprimere o catturare, bensì ansiosi di partecipare ad un festoso happening collettivo, alla ricerca delle birrerie più famose e delle tante altre bellezze che è in grado di offrire la città cantata da Angelo Maria Ripellino. 

Il mio reparto di arruolamento fu l’Udinese Club Cividale del Friuli, allora presieduto dal compianto e ineguagliabile comm. Romano Blasigh che, per l’occasione, aveva “requisito” ben 3 autocorriere della SAF da adibirsi al trasporto della “soldataglia”. Al prezzo di 250.000 lire del 2000 – pari a 176,11 euro del 2020 – l’ordine di servizio prevedeva la partenza in pullman da Cividale alle ore 20,30 di domenica 27 febbraio, l’arrivo a Praga alle prime luci dell’alba di lunedì 28, la giornata libera a disposizione, il pernottamento con colazione all’Hotel Park Inn, quattro stelle, Svobodova 1, nel quartiere di Nové Město, a metà tra Vyšehrad e Podskalì, biglietto per la partita con fischio d’inizio alle ore 16:00 del 29 febbraio e rientro in pullman subito dopo la fine del match con arrivo a Cividale il 1 marzo, nel cuore della notte. Imperdibile. O meglio indimenticabile, perché di quello a cui stavamo andando incontro me ne resi subito conto quando, alle 20:30 in punto di domenica 27 febbraio, assieme al mio amico Dario, “c’imbarcammo” sul mezzo che ci doveva condurre verso la “gloria”. Prima di tutto non si trattava di un pullman gran turismo e l’interno riportava alla memoria le corriere che avevano evacuato gli sfollati dalle città bombardate durante il secondo conflitto mondiale: il mezzo era occupato da un’umanità composita e vociante, ansiosa di partire e infastidita dal nostro “ritardo”, stipata in ogni posto e in modo tale da non permetterci di scorgere se i nostri sedili fossero ancora disponibili o meno. Fu il commendatore a risolvere la questione, indicandoci due posti nascosti in fondo al pullman, subito prima dell’ultima riga di sedili, quella destinata come da copione ai più giovani, agitati e malandrini di ogni gita che si rispetti. Fu un vero e proprio “viaggio della speranza”: sbarcammo nella Hall dell’albergo a Praga dalle 8:30 del mattino seguente, dopo 13 ore di viaggio turbato dalla temperatura del riscaldamento interno al bus stile “crogiolo di un altoforno”, ripetute richieste inevase di soste per la minzione, canti che spaziavano dal repertorio delle villotte a quello meno romantico della curva nord dello stadio Friuli, odori umani vari, sapori e briciole di pane, prosciutto, salame, pancetta, speck, lattine di birra, bicchieri di vino e grappa “di fossâl”, nonché da innumerevoli tentativi, tutti vani, di prendere sonno. 

All’arrivo in albergo con gli occhi resi “acrilici” dalla nottata, io e Dario iniziammo a renderci conto delle dimensioni dell’invasione, osservando le decine di pullman targati UD, PN e GO che già stazionavano nel piazzale antistante e le frotte di “militi” bianconeri che sciamavano nella hall, tutti rigorosamente con la sciarpa commemorativa d’ordinanza attorno al collo; così decidemmo di dormire almeno un paio d’ore, per ricaricare un po’ le pile ed evitare di buttarci subito a “peso morto” nel centro di Praga, dove alto era il rischio di essere coinvolti in una vera e propria “via crucis” tra birrerie e negozi di souvenir. E così fu. Dalla collina di Hradčany alla piazza di Malastrana, dal Karlův Most alla piazza della Città Vecchia, dal cimitero ebraico a Piazza San Venceslao tutta la giornata fu costellata di incontri con gruppi di tifosi friulani di ogni genere, che spesso t’invitavano ad unirsi a loro in brindisi benauguranti. C’erano gruppi familiari con tanto di figli piccoli al seguito che parevano giapponesi in gita turistica, coppie di innamorati che si muovevano tra i vicoli del quartiere ebraico quasi fossero in viaggio di nozze, gruppi più numerosi di giovani e meno giovani che girovagavano alticci, senza meta cantando come coscritti dopo aver passato la visita di leva, capannelli di pensionati che venivano guidati dall’immancabile coetaneo che si era arrogato le funzioni di guida-capogruppo e si spostavano da un sito turistico all’altro come nelle gite del dopolavoro, industriali, politici e professionisti della “Udine Bene” che seduti ai tavolini dei locali più esclusivi del centro, sorseggiando becherovka sorridevano, guardando con malcelata superiorità e sufficienza gli altri “commilitoni” – salvo poi condividere disinvoltamente qualche ora più tardi, con meno superbia, i locali della Praga “a luci rosse” con i tifosi meno danarosi, attratti probabilmente anch’essi dalla fama “libertaria” della capitale boema, oltre che dalle prodezze di Fiore, Muzzi e del “Pampa” Sosa. Tutti comunque rigorosamente con la sciarpa bianconera d’ordinanza al collo. L’entità dell’Armata friulana che compose l’invasione non la potrà mai sapere nessuno con precisione, le cifre riportate dai giornali dell’epoca spaziano tra le 6.000 alle 7.500 persone; a mio avviso più credibile il secondo, considerato che le statistiche ufficiali dell’U.E.F.A. indicano in 13.149 il numero degli spettatori paganti sulle tribune del vecchio stadio Evžena Rošického sulla collina di Petřín e a solo occhio nudo era possibile vedere che ben più della metà erano tifosi bianconeri. Udine e il Friuli erano lì, compresi il Sindaco e alcuni consiglieri regionali che, prima del fischio d’inizio, fecero passerella sulla pista d’atletica dell’impianto e vennero a salutare il “popolo” friulano assiepato nella curva a monte della città. Lo stadio Evžena Rošického era un piccolo impianto fatiscente, costruito nel 1935 durante il periodo d’oro del calcio mitteleuropeo, con una capienza limitata a soli 19.000 posti ma ricco di storia dai sapori contrapposti per i colori friulani: sulla sua pista Venanzio Ortis da Paluzza aveva vinto le medaglie d’oro e d’argento rispettivamente sui 5.000 e i 10.000 metri durante i campionati europei di atletica leggera disputati nel 1978 e nel novembre 1983, invece, gli azzurri campioni del mondo di Enzo Bearzot avevano rimediato l’ennesima batosta nelle qualificazioni verso Francia ’84, perdendo per 2-0. 

Tutto il corpo d’armata bianconero si era riversato con due ore d’anticipo all’interno dello stadio, nel varcare i cancelli dell’impianto sembravamo una delle tante ondate di fanteria che il generale Cadorna spediva contro i reticolati delle trincee austro-ungariche sui rilievi del Carso durante la prima guerra mondiale, con molti che parevano più Arditi che Fanti, considerando l’alito ricco di esalazioni a base alcolica. Per quanto mi riguarda, quell’interminabile pre-partita, fu segnato sugli spalti dalla lenta digestione di uno stinco di proporzioni monumentali che, assieme al mio compagno di viaggio avevamo “consumato” prima di raggiungere lo stadio, con un abbondante accompagnamento di Pilsner Urquell e fumo di pipa all’interno della locanda U Schnellů (!) nei pressi di Malostranské Namesti. Per inciso: la pipa e il tabacco Amphora verde erano stati acquistati il giorno precedente in una tabaccheria del centro, come rituale beneaugurante di bearzottiana ispirazione. Quello che poi fece svanire tutta l’euforia, spegnere la magia di quei due giorni “fuori” dall’ordinario scorrere del tempo per la multi-assortita Armata Bianconera e bloccare definitivamente la mia digestione, fu la partita. Una partita che i “soldati” bianconeri in campo, guidati dal generale lucano Luigi “Gicgi” De Canio da Matera, interpretarono malissimo fin dal primo minuto cercando solo di contenere i non irresistibili ma vogliosi avversari, rinunciando a far valere il miglior tasso tecnico con un gioco più offensivo. E, naturalmente, finirono pagando un pesantissimo dazio, con il nostro difensore Zanchi capace a venti minuti dalla fine di indirizzare senza alcun avversario intorno, nel sette della nostra porta, un innocuo traversone che arrivava senza pretese dalla linea di fondo, proprio davanti alla curva in cui l’Armata Bianconera era sistemata. 

E tutti noi, insieme al povero Gigi Turci, rimanemmo di marmo (…) nel vedere il pallone gonfiare la rete, facendo esultare gli sparuti e altrettanto increduli tifosi dello Slavia dispersi sui gradoni delle altre tribune dello stadio. 

Invano aspettammo un cambio di marcia da parte dei nostri beniamini nei venti minuti successivi: i “nostri” continuarono ad essere preoccupati solo di limitare i danni per giocarsi la qualificazione nella partita di ritorno fra otto giorni sul prato dello stadio Friuli. E così fu: il match terminò 1-0, con i giocatori biancorossi a prendersi gli applausi dai loro sostenitori e quelli bianconeri qualche mugugno e molti cori d’incoraggiamento in vista della rivincita. 

L’Armata Bianconera lasciò gli spalti in fretta e senza euforia, abbandonando in massa, armi e bagagli, la città invasa; quell’immagine mi riportò alla mente gli ultimi versi del Bollettino della Vittoria firmato Diaz, che così bene avevo imparato a furia di leggerlo anni prima, durante gli infiniti turni da capo-muta alla porta principale della Scuola Allievi Carabinieri di Fossano: “I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli, che avevano disceso con orgogliosa sicurezza.” Solo che, questa volta, gli austro-ungarici eravamo noi. 

Se il viaggio di andata era stato un “viaggio della speranza” quello di ritorno fu una silenziosa, assetata e insonne Odissea, con una sosta di due ore non sull’Isola di Calypso ma fermi e incolonnati al confine tra la Repubblica Ceca e l’Austria, visto che all’epoca i cechi non facevano ancora parte né dell’Unione Europea e né conseguentemente dell’accordo di Schengen; Itaca-Cividale fu raggiunta alle cinque del mattino del primo marzo e pure se non trovai la casa infestata dai Proci, i clienti non morsi dal demone della passione sportiva o turistica, agguerriti più che mai mi aspettavano in studio nel pomeriggio, dove non mi fu sufficiente neppure ricorrere a tutta l’astuzia di Ulisse per riuscire a dribblare gli impegni professionali. 

Per la cronaca, otto giorni dopo, l’impresa al contrario si compì e i cechi, perdendo per 2-1, resistendo nell’ultima mezz’ora all’assalto all’arma bianca di un’Udinese abbandonata dalla Dea bendata e alla disperata ricerca del 3-1 qualificazione, si guadagnarono il passaggio ai quarti di finale dove ad attenderli c’erano gli inglesi del Leeds. 

Finì con i bianconeri in lacrime, distesi sul prato del Friuli e noi “soldati” dell’Armata bianconera delusi sulle gradinate, nel dover abbandonare i piani già dettagliati per l’invasione della “perfida Albione”. Un po’ come i generali tedeschi del 1940, costretti a buttare nelle immondizie l’Operazione Leone Marino per l’invasione dell’Inghilterra, resa impossibile anche grazie ai tanti piloti cecoslovacchi che, arruolati nell’aviazione britannica, avevano contribuito alla sconfitta nei cieli della Luftwaffe

giovedì 14 gennaio 2021

UDINESE-AJAX, L'EUROPA E' UNA PARTITA



















E' il momento di raccontare quanto accadde quel fatale 4 novembre 1997, quando, dopo aver eliminato i campioni polacchi del Widzew Lodz ribaltando lo 0-1 dell’andata con un rotondo 3-0 casalingo al primo turno, l’Udinese ospitò allo Stadio Friuli “i lancieri” dell’Ajax, con la necessità di recuperare la sconfitta per 1-0 rimediata all’Amsterdam Arena quindici giorni prima. Fare due gol senza subirne. Serviva una nuova impresa, considerando che gli olandesi, pur in fase calante e indeboliti per le importanti partenze, solo tre anni prima avevano vinto la Champions League contro il Milan di Capello, due anni avanti perso solo ai rigori il titolo nella finale di Roma contro la Juventus e l’anno precedente erano stati eliminati in semifinale sempre dai bianconeri torinesi. Era l’Ajax dei fratelli De Boer e di Litmanen, Van der Sar, Blind, Dani, Witschge e Oliseh con il santone danese Morten Olsen a dirigere l’orchestra. Credo di essere stato uno di pochi tifosi dell’Udinese che quella sera non furono sugli spalti del Friuli, pieno in ogni ordine di posti come non accadeva dai tempi in cui Zico deliziava la platea nei primi anni 80’; con una differenza: quei 42.000 presenti, tolta una sparuta rappresentanza di tifosi olandesi, erano tutti arrivati per spingere l’Udinese a coronare l’impresa e non anche per sostenere gli avversari di blasone come di solito avveniva e avviene tutt’oggi. Uno spettacolo nello spettacolo, con trentamila bandierine a ritmare l’inno della società friulana e le varie fasi della partita. Un’atmosfera mai più rivista, a detta di chi c’era. Perché appunto, io non c’ero: mi ero imbarcato per Il Cairo proprio nella mattinata del 4 novembre, dove mi aspettavano 10 giorni di crociera sul Nilo con la famiglia, prenotati nel mese di agosto quando certo non mi potevo immaginare la storica e “drammatica” coincidenza. Rassegnato ad attendere le notizie sull’esito del match il giorno seguente, le speranze erano riposte sui servizi disponibili nella camera dell’Hilton sull’isola di Gezira. Speranze fortunatamente ben riposte perché la tv via satellite trasmetteva i canali RAI, dove in differita sarebbe stata trasmessa la partita con inizio alle ore 22,30 italiane, corrispondenti alle 23,30 ora locale; non stavo nella pelle, il tempo scorreva lentissimo ed il telefono era staccato per impedire che qualcuno potesse inviarmi dall’Italia un sms che vanificasse la decisione di “soffrire in diretta”. Quell’infinita attesa e la sua tensione vennero “rotte” dall’immagine di Carlo Nesti che, dallo studio, con queste parole, anticipava l’avvio della differita: “E ora vi lascio alle grandi emozioni di Udinese-Ajax, partita da seguire fino al termine”. L’aria era sorridente, felice per un esito fausto e pertanto, personalissimamente, mi convinsi che avevamo vinto e passato il turno, magari con un gol nei minuti di recupero di un rocambolesco finale. E così non fui sorpreso più di tanto quando nel primo tempo l’Udinese aveva schiacciato i lancieri, infilandoli con il “gol di rapina” di Paolino Poggi prima e dopo con la splendida fucilata di Oliver Bierhoff nel sette della porta difesa da un immobile Van der Sar, a conclusione di una fulminea azione di rimessa tutta “di prima”. E così non imprecai contro tutti i santi del paradiso quando vidi Massimiliano Cappioli spedire malamente a lato una colossale occasione per chiudere il match già alla fine del primo tempo. Non era quella la “trama” anticipata da Nesti. E così continuai a guardare con sufficienza i miracoli di Van der Sar, che all’inizio del secondo tempo continuavano a negarci lo strameritato 3-0. E così seguii senza particolare apprensione la parte finale del match, quando l’Udinese iniziava a pagare la fatica per il grande sforzo compiuto fino a quel momento e l’Ajax si faceva vedere sempre più minaccioso dalle parti di Turci alla ricerca del gol che li avrebbe qualificati e che, puntualmente arrivò a soli nove minuti dal 90’, con una rasoiata da posizione angolata da parte del centravanti georgiano Shota Arveladze. Tutto previsto. Nesti l’aveva detto: partita dalle mille emozioni, da seguire fino alla fine. E così rimasi in attesa del gol che era scritto nel copione che si era fissato nella mente. In fiduciosa attesa. Quel gol non arrivò mai e quando l’arbitro fischiò la fine dopo 5 minuti di recupero rimasi pietrificato. Incredulo, come qualcuno che si accorge di aver inserito nel lettore il DVD sbagliato. Era l’una e 30 del mattino al Cairo ed io non riuscivo a darmi pace, mi sembrava di vivere un incubo e, fissando il televisore con aria ebete, aspettavo che qualcuno mi svegliasse; quando piano piano ripresi pieno possesso delle mie facoltà e compresi bene ciò che era accaduto, un fiume d’imprecazioni lungo questo sì come il Nilo, si rovesciò prima abbondantemente su Carlo Nesti e solo molto dopo su Massimiliano Cappioli, Shota Arveladze ed Edwin Van der Sar. La rabbia e la delusione mi impedirono per qualche ora di addormentarmi, prima che la stanchezza e lo sfinimento nervoso mi facessero cadere in un sonno simile alla morte. Mi attendevano un volo per Luxor nel mattino e poi 10 giorni di navigazione per Assuan e poi un altro volo per Abu Simbel. Un vero e proprio Assassinio sul Nilo. Hercule Poirot non avrebbe avuto vita troppo facile per scoprire chi fosse il colpevole.

lunedì 11 gennaio 2021

IMPRESE IMPOSSIBILI E LA NASCITA DEL TRIDENTE

L’avverarsi del sogno di qualificarsi per una competizione europea, che neppure l’Udinese di Zico, quella costruita con quello specifico obiettivo, era riuscita a realizzare 15 anni prima riuscì invece ad una squadra costruita l’anno precedente con l’obiettivo di salvarsi e che, grazie all’intuizioni dell’allora quarantaquattrenne semisconosciuto allenatore romagnolo Alberto Zaccheroni da Meldola, aveva improvvisamente invertito la rotta a tre quarti di campionato, vincendo 8 delle ultime 11 partite, traslocando dal galleggiamento appena sopra la zona retrocessione direttamente al quinto posto finale e alla zona U.E.F.A., sconfiggendo fuori casa nell’ordine: Juventus (3-0), Parma (2-0), Fiorentina (3-2), Roma (3-0) e in casa Perugia (2-1), Atalanta (2-0), Verona (3-0) e Piacenza (4-0). Tutto ebbe inizio allo Stadio delle Alpi di Torino domenica 13 aprile 1997 grazie ad una bestemmia. L’Udinese, dopo qualche spavento a metà torneo, veleggia verso una tranquilla salvezza e scende in campo contro la Juventus, reduce dall’aver strapazzato sette giorni prima per 6 a 1 a San Siro il Milan dell’ultimo Sacchi, espugnato quattro giorni avanti, con uno strepitoso 2-1 l’Amsterdam Arena nella semifinale di andata della Champions League contro gli “Aiaci” e quel dì desiderosa di incamerare i 3 punti per tenere a distanza il Parma, secondo in classifica, nella corsa verso la vittoria dell’ennesimo scudetto. Una gara dall’esito segnato, insomma, anche in considerazione del fatto che all’andata “Madama” si era già imposta allo Stadio Friuli con un perentorio 4-1 e le statistiche complessive delle sfide tra i bianconeri torinesi e quelli friulani esponevano dati terrificanti a favore dei piemontesi: solo 4 vittorie udinesi nei 53 match precedenti a fronte di 37 vittorie juventine e con l’ultimo successo friulano in trasferta che risaliva allora alla stagione 1961/62. E a rendere quella “recita” all’apparenza oltremodo scontata e priva di sussulti ci aveva pensato dopo due minuti dal fischio d’inizio l’udito sopra la media dell’arbitro padovano Roberto Bettin, il quale, dopo aver fischiato un fallo per un intervento deciso del terzino belga Regis Genaux ai danni di un avversario, nel frastuono dello stadio aveva percepito una bestemmia indirizzata a lui dal difensore dell’Udinese e gli aveva sventolato sotto il naso il cartellino rosso. Friulani con un uomo in meno dopo neanche due minuti; e qui entrò in gioco il genio dell’allenatore di Meldola che invece di sostituire subito un attaccante e rimpiazzarlo con un difensore e far passare l’Udinese dal fin lì canonico e dogmatico 4-4-2 all’emergenziale 4-4-1, decide di modificare l’assetto tattico in 3-4-2. Fuori un centrocampista, Locatelli, per fare entrare Gargo, un difensore, alzando il terzino Helveg sulla linea di metà campo. Difesa “a tre” e per giunta a Torino contro la Juventus? Eresia delle eresie. Follia pura, è da pazzi giocare solo con tre difensori. Figuriamoci. Anni dopo Alberto Zaccheroni dirà che la difesa a tre lui l’aveva già provata in allenamento durante tutto l’arco di quel campionato ma non l’aveva mai proposta prima, perché “sentiva” che la squadra era riluttante, timorosa di lasciare il modulo collaudato. Quella, paradossalmente, per i giocatori si rivelò l’occasione perfetta: la situazione di classifica era tranquilla, perdere a Torino con la Juventus non sarebbe stato un dramma, bisognava invece moltiplicare gli sforzi per evitare la “goleada” degli avversari che la scelta dell’allenatore sembrava favorire. Dopo un primo tempo di assestamento al nuovo schema, la squadra rientra negli spogliatoi in vantaggio per 1-0, grazie ad un gol di Marcio Amoroso su rigore nel finale di frazione, con la consapevolezza che l’impianto tattico stia reggendo agli assalti juventini e che anzi si possano aprire nuovi e interessanti spazi per le ripartenze (il contropiede per quelli della mia generazione). Si convince che la “follia” può funzionare e in tutti la riluttanza lascia il posto alla voglia di stupire, di andare oltre, di fare l’impresa. E così fu: neanche due rigori fischiati dall’arbitro Bettin a favore della Juventus – uno di Vieri finito sulla traversa e uno di Zidane parato da Turci - furono in grado di tamponare le micidiali ripartenze friulane che fissarono nella ripresa il risultato su di un sensazionale 3-0 per l’Udinese, grazie alla doppietta di Marcio Amoroso e ad una “capocciata” di Oliver Bierhoff. Quella domenica ero in auto in direzione Palmanova e avevo iniziato come di rito ad ascoltare “tutto il calcio minuto per minuto” alla radio; alla notizia dell’espulsione di Genaux avevo spento l’apparecchio, più rassegnato che stizzito. Terminato il giro delle mura della città stellata e dopo aver consumato in compagnia una bella coppa di gelato nella piazza grande, ripresi l’auto per ritornare verso casa e, considerato che ormai le partite volgevano al triplice fischio di chiusura, decisi di sintonizzarmi di nuovo sulla trasmissione sportiva per conoscere l’entità della batosta. La voce di Carlo Nesti, chiamata dal conduttore Alfredo Provenzali a relazionare su minuto e punteggio, esclamò più o meno così: “Al “delle Alpi” il risultato resta invariato, pertanto a 5’ dal termine, il punteggio è di Juventus zero Udinese tre, cedo la linea di nuovo a te Alfredo.” Sicuramente un lapsus, pensai, spegnendo di nuovo la radio. Povero Nesti e poveri noi. Furono una serie di telefonate di amici, poco più tardi a darmi la sensazionale e “impossibile” notizia che valse una serata insieme davanti alla TV per la “Domenica sportiva”, con ampio accompagnamento di birre e affettati. Scudetto di nuovo in discussione con il Parma che, vincendo a Roma si era avvicinato a soli tre punti dalla Juventus. “L’Udinese riapre il campionato” titolarono gli esperti. Niente paura: la domenica successiva commentarono “L’Udinese ammazza il campionato”, registrando la vittoria dei bianconeri al Tardini contro gli emiliani per 2-0 e la contemporanea vittoria juventina sul campo di Bologna. Anche a Parma l’Udinese era scesa in campo con tre difensori assieme a tre attaccanti, lanciando definitivamente in orbita il 3-4-3, modulo super offensivo che nessuno aveva mai osato adottare, se non nelle circostanze in cui si trattava di recuperare partite diventate disperate in corso d’opera. Certo mai come modulo di “default”! In una settimana era cambiato il mondo, avendo strapazzato a casa loro le prime due della classe, segnando 5 reti senza subirne alcuna, e la cavalcata trionfale che si concluse strapazzando per 3-0 anche la Roma all’Olimpico con la conquista della qualificazione alla coppa U.E.F.A. per la stagione successiva non fu che, a posteriori, una logica conseguenza. L’eresia di Zaccheroni in breve tempo conquistò non solo l’Italia, ma anche l’Europa, con decine e decine di tecnici che vollero adottare lo schema anche nei loro team

martedì 5 gennaio 2021

PABLITO E L'UDINESE



 




Ci sono squadre e luoghi che da avversari ti portano "bene" e per Paolo Rossi, Udine e l'Udinese sicuramente lo sono state, incrociando la storia in momenti "clou" della carriera del compianto campione di Prato, scomparso prematuramente poco meno di un mese fa. 

Dal settembre 1979 al marzo 1987 Paolo Rossi segnò all'Udinese ben 7 reti in 13 incontri di campionato disputati contro i friulani indossando 7 volte la maglia della Juventus e 2 ciascuna quelle del Perugia, del Milan e del Verona.

Ma ben quattro di queste sette marcature ebbero un valore simbolico molto significativo nella carriera di Pablito. La prima infilata all'Udinese, il 16 settembre 1979 allo stadio Curi di Perugia, terza di andata della seria A 79/80, fu anche la prima segnata da Rossi con la maglia del Perugia, trasferitosi in Umbria dopo la fine dell'epopea con il Lanerossi Vicenza. L'incontro di Pian di Massiano finì 2-0 con un'altra rete di Pablito, alla prima doppietta con i grifoni.

L'ultima delle 13 reti complessive segnate in quel campionato dal centravanti di Prato nel periodo perugino fu siglata allo Stadio Friuli di Udine il 27 gennaio 1980, alla terza di ritorno di quell'orribile  torneo per la storia del calcio italiano e del futuro eroe di Barcellona e Madrid.

Quando al primo della ripresa il suo marcatore Catellani "lisciò" un traversone innocuo di Bagni dalla destra, mancando il contatto con il pallone e permettendogli una comoda marcatura a pochi metri dalla porta difesa dall'ex compagno del Real Vicenza  Ernestone Galli, Paolo Rossi certo non poteva immaginare che quel gol fosse non solo l'ultimo in maglia umbra - mancavano ancora 12 gare di campionato alla fine  -  ma pure l'ultimo di lì a più di due anni, visto che pochi mesi dopo venne condannato a scontare una squalifica di tre anni, ridotti poi a due in appello nel celeberrimo processo sportivo per il primo "totonero".

La squalifica terminò il 30 aprile 1982 e la prima giornata utile per il rientro in campo era quindi il 2 maggio per la terz'ultima di andata del torneo 1981/82 e indovinate un po' dove e contro chi scese in campo Pablito vestendo i colori - blu per l'occasione - della Juventus impegnata in un formidabile testa a testa con la Fiorentina per la conquista dello scudetto?

"Naturalmente" ad Udine, in uno stadio Friuli esaurito da almeno un mese e contro un'Udinese che si era salvata matematicamente la domenica precedente espugnando per 2-0 il Dall'Ara, spingendo così per la prima volta nella storia il Bologna in serie  B.

Una giornata straordinaria che ebbi l'occasione di vivere allo stadio in prima persona con l'euforia e la gioiosa ingenuità dei 16 anni: ingresso in curva nord all'apertura dei cancelli alle 13,30 - la gara iniziava alle 16:00 - per riuscire a trovare un posto decente, visto che allora non c'erano i seggiolini numerati; attesa interminabile blandamente agevolata da Loredana Bertè che, vestita con un improbabile abito attillato di pelle nera, sul prato del Friuli cantò, con voce sommersa fischi e lazzi, la sua "hit" del momento "Non sono una Signora" e, poi, una volta che la partita era finita, con un paio di amici, la personale discesa finale in campo di soppiatto quando la folla - e la polizia -  avevano abbandonato lo stadio.

Tutto il mondo del calcio italiano ed internazionale quel giorno avevano gli occhi puntati sul Friuli, indimenticabile fu la ressa di fotografi e cameraman ad attorniare Pablito al suo ingresso in campo disinteressandosi di qualsiasi altra cosa o giocatore. In tribuna anche il Commissario Tecnico Enzo Bearzot a visionare il suo pupillo, con la speranza di ritrovarlo "arruolabile" in vista dell'imminente mondiale spagnolo.

Fu proprio su quel prato che al 4' della ripresa, sotto i miei occhi in curva nord e sul punteggio di 2-1 per Madama che era riuscita a ribaltare nel finale di tempo lo svantaggio del gol friulano dal 2' segnato da Paolo Miano, che Paolo Rossi raccogliendo un calcio d'angolo battuto da Brady, spintonando via  Marco Tardelli  e anticipando in tuffo di testa il suo marcatore Dino Galparoli, infilò per la terza volta Fausto Borin e chiuse i conti del match, terminato poi con un rotondo 5-1 per bianconeri i torinesi.

E soprattutto convinse Enzo Bearzot, con quel guizzo, che l'antico estro non era andato perduto e che in Spagna avrebbe potuto contare ancora sul centravanti che 4 anni prima in Argentina aveva incantato e quasi permesso agli azzurri di arrivare alla finale.



Il film del viaggio che porterà la nazionale a vincere il mondiale a Madrid e a Pablito il pallone d'oro e la classifica marcatori del Mundial due mesi dopo, iniziò proprio in quel pomeriggio, sotto la curva nord dello Stadio Friuli. 

Toccato l'apice al Bernabeu, la carriera di Paolo Rossi inizierà un rapido declino reso dolce dalle vittorie di Coppe e scudetti nei tre anni successivi con la Juventus e da altri 2 gol segnati all'Udinese nella stagione 1983/84, prima di fare la meteora al Milan 1985/86 e poi da prestigioso turista in Messico al Mundial 1986, quello della fine insipida del ciclo di Enzo Bearzot, il Mentore friulano a cui Pablito deve sicuramente buona parte del suo successo planetario.

La parabola si conclude definitvamente l'anno dopo al Verona, in provincia agli ordini del mago Osvaldo Bagnoli, dove le ginocchia prive di tre menischi e logorate all'inverosimile lo costringono ad appendere per sempre "le scarpe al chiodo", dopo una stagione incolore con 20 presenze e 4 reti.

Provate ad indovinare a chi segnò l'ultima di quelle quattro, ovvero l'ultima della sua carriera?

Naturalmente all'Udinese, il 1 marzo 1987 alla ventesima giornata del torneo 1986/87, su calcio di rigore all'80' per fissare sul 3-1 un Verona - Udinese utile solo ai gialloblù per rimpinguare una bella classifica da zona UEFA, in quanto i friulani erano virtualmente retrocessi con la zavorra di 9 punti di penalizzazione.

Quel giorno sul campo con i colori bianconeri c'erano i suoi compagni di Spagna 82 Ciccio Graziani e Fulvio Collovati, anche loro finiti in provincia per racimolare gli ultimi ingaggi delle gloriose carriere, mentre sugli spalti dello Stadio Bentegodi c'ero io, ancora ignaro di aver assistito all'ultima prodezza di un campione che con i suoi gol e il suo sorriso ha segnato un'epoca colma di felicità.

Ciao Paolo.   

domenica 3 gennaio 2021

CI SIAMO O LO FACCIAMO?


 






Fino alla fine degli anni '80 il mantra genitoriale nei confronti dei figli folgorati dalla passione per il "balòn" era: prima aiuti me, poi se avanza tempo studi e da ultimo vai a giocare al pallone; questo dogma, nel caso di genitori che non necessitavano dell'aiuto dei figli o che per scelta educativa li esoneravano dall'incombenza, mutava in: prima studi e prendi un "pezzo di carta" e poi fai sport. E non erano frasi di circostanza, il mancato rispetto del precetto era immancabilmente sanzionato in maniera significativa, così come un andamento scolastico insufficiente aveva ripercussioni negative importanti sulla possibilità di raggiungere i compagni sul terreno di gioco, quale ne fosse la composizione: il cemento della piazzetta sotto casa, il pantano del prato del quartiere o il campo di gioco del settore giovanile di una società sportiva. Per tutti coloro che avevano compiuto 18 anni prima della fine degli anni '80 giocare a pallone era sempre stata una scelta propria, la sana forma di ribellione verso la famiglia che l'adolescenza impone a chiunque nel fisiologico processo di identificazione; si giocava a pallone, o si praticava uno sport in genere, perchè era un divertimento e un modo di emergere tra i pari e anche perchè non c'erano molte altre alternative rispetto a questo. Certo, in molti era forte il sogno di diventare un professionista, ma la molla non erano i guadagni collegati a quel mestiere ma casomai la fama e la possibilità di primeggiare tra pari e spingersi fino al punto più alto che si poteva arrivare in quella disciplina. Anche perchè se era pur vero che un campione della massima serie guadagnasse in un anno tanto e tanto di più di un operaio o di un impiegato, comunque l'arco temporale della carriera sportiva non permetteva di "sistemarsi" per tutta la vita ed era necessario organizzare con senno e competenza anche un dopo, per riuscire a garantire una vita agiata a se stessi e alla propria famiglia. Così gli spettatori delle partite del fine settimana delle squadre giovanili erano sparuti: qualche padre appassionato del gioco, il custode dell'impianto, qualche fidanzatina e ogni tanto qualche "osservatore" in missione per "scovare" qualche talento da indirizzare ai club che potevano far decollare una carriera.

Alla fine degli anni '80 iniziano ad insinuarsi nel circuito le televisioni private e a spron battuto nel decennio successivo le cd Pay-TV che, versando prima centinaia di miliardi (di lire) e poi decine e decine di milioni (di euro), trasfigurano per sempre il calcio europeo e quello italiano in particolare.

Le ingenti risorse, a differenza di quanto accadrà negli altri paesi UE, vengono spartite esclusivamente tra una ristretta cricca di addetti ai lavori: dirigenti, procuratori e calciatori e non anche per ammodernare gli stadi e far crescere le società e i loro settori giovanili.

La totale liberalizzazione delle frontiere e la globalizzazione fa il resto a partire dalla seconda metà degli anni '90: si scatena la caccia al giovane che vive in paesi economicamente svantaggiati, ma ricchi di talenti come quelli sudamericani, oppure dall'inesauribile disponibilità di atleti fisicamente superiori e grezzi tutti da formare come quelli africani.

E così, considerato che l'ingaggio di un giocatore medio di serie A inizia a consentire non solo di "bastare" ad una vita intera ma anche di porre le basi per l'agiatezza della discendenza oltre che fama e successo con donne sempre più a loro agio nel ruolo di escort che di future mogli, trasforma quei vecchi mantra in: "ti porto alla scuola calcio a 6/7 anni e tu diventerai un campione che tanto, con un diploma o anche una laurea, oggi non fai un cazzo." Il calo demografico unito al moltiplicarsi di nuove fonti di divertimento svuotano i cortili e i campetti: lo sport si pratica solo sotto l'egida di una società sportiva organizzata con allenatori e dirigenti, ad orari prestabiliti e contingentati. E così le partite del fine settimana avvengono in impianti circondati da una marea di genitori urlanti che rivendicano il ruolo di manager e fan del proprio pargolo, riverito e coccolato come un campione "ante litteram".

Risultato? Non essendo più il calcio il mezzo di identificazione personale rispetto ai propri genitori, ma sola l'ennesima polpetta che viene propinata da mamme e papà sempre più bulimici nel fornire strumenti ritenuti indispensabili per una sana crescita del pargolo e del necessario successo che questo deve avere in futuro, i pargoli stessi abbandonano la pratica sportiva intorno ai 15 anni come forma di sana ribellione, salvo gli sparuti casi di talenti baciati da madre natura.

Ci si chiede perchè gli attuali 18enni "made in Italy" appaiano alla vista dei loro genitori così privi di "mordente" "di iniziative" "di voglia di far sport" "di garra" e il mantra di questi ultimi sia: "avessi avuto io le opportunità che ti posso dare io!!! Io te le do e tu sei amorfo e non esprimi un cazzo!".

Lo dico da genitore: "ma ci siamo o lo facciamo?" Cos'altro avremmo fatto noi se a tre anni ci avessero chiesto di imparare l'inglese, a sei magari di frequentare la scuola in un'altra lingua, ci avessero scelto loro gli sport da praticare già a 6 anni mentre dovevamo imparare a suonare uno strumento musicale? Come avremmo reagito se ci avessero sin da piccoli, spesso figli unici, continuamente portati a spasso con loro dappertutto come fossimo stati loro amici, riempito la casa con ogni sorta di diavoleria elettronica e inondati di aspettative mirabolanti per il futuro? Magari assistendo al penoso spettacolo di padri che vogliono prolungare la loro gioventù bruciata sine die e madri disposte a vendere l'anima al diavolo pur di gareggiare in bellezza, altrettanto sine die, con le loro figlie.

Credo che ci potremo ritenere fortunati se questi figli non ci butteranno fuori di casa espropriandoci di tutto l'esporpriabile quando, alla soglia dei 45 anni, diventeranno autonomi e scopriranno che non gli abbiamo lasciato un euro di pensione.

Qualcuno potrà dire che ho esagerato. Forse, ma me assumo in pieno la responsabilità.

"Snocciolando" qualche statistica relativa al Friuli Venezia Giulia.

Nel campionato 1972/73 tra serie A e serie B militavano 37 giocatori nati in Regione; nel 1982/83 il numero era sceso a 20, nel 1992/93 a 17, nel 2002/03 a 14, nel 2011/12 a 10. Quanti siano oggi lo lascio alla vostra curiosità.

E aggiungo: nel 1972/73 le squadre in serie A erano 16 e 20 quelle in B, con rose che non superavano le 16 unità; nel 2020/21 sia la serie A che la B sono 20 squadre con rose non inferiori a 25 elementi. 

Si faccia lo stesso con i giocatori nati in Italia. E poi prepariamoci a dare la colpa al CT di turno se non riusciremo a vincere un mondiale nei prossimi 50 anni. 

Post in evidenza

NOTTI MAGICHE ANTE LITTERAM

25 giugno 1983 – Arrivo al campo mezz’ora prima del fischio d’inizio, di corsa dopo essere riuscito a fuggire da una riunione familiare ...