venerdì 23 maggio 2025

UNA STAGIONE DA PROTAGONISTI, OLTRE IL RISULTATO

Per il terzo anno consecutivo, il campionato di A2 della Gesteco Cividale si è concluso al primo turno dei playoff E ancora una volta, l’epilogo è stato amaro: il tiro “preghiera” di Francesco Ferrari sulla sirena di gara 5 contro Forlì si infrange sul ferro, negando ai gialloblù l'accesso a una storica semifinale.

A differenza delle edizioni precedenti – la sfortunata eliminazione contro Cantù nel 2024 e la beffa contro Udine nel 2023 – questa volta il rimpianto è più profondo: la squadra di Pillastrini si era portata sul 2-0 nella serie e godeva del fattore campo, ma Forlì ha saputo rimontare, approfittando anche delle difficoltà fisiche di Cividale.

La malasorte ha fatto la sua parte: l’infortunio muscolare di Doron Lamb a gara 4, le condizioni precarie di Redivo, le assenze per infortunio di Miani e Mastellari nel cuore della stagione, ma anche Forlì era priva di due pedine fondamentali come Perkovic e Magro: insomma, il copione non può essere attribuito solo al destino.

Il pubblico in ogni caso ha salutato con applausi scroscianti il finale del match, tributando il giusto riconoscimento ad un gruppo capace di regalare una stagione ricca di tante soddisfazioni.

Una stagione ad alta quota

Infatti, guardando al quadro generale, il bilancio è decisamente positivo. In un campionato a 20 squadre considerato tra i più competitivi degli ultimi 15 anni, la Gesteco ha saputo imporsi come una delle protagoniste assolute.

Grazie al mantenimento quasi integrale del gruppo che aveva chiuso in crescendo la scorsa stagione, Cividale ha iniziato con nove vittorie consecutive, restando a lungo nella scia del battistrada Rimini e conquistando il quarto posto al termine del girone d’andata. Questo ha garantito l’accesso alle Final Four di Coppa Italia, culminate in finale contro Cantù, persa ma giocata con onore.

Tra i momenti da incorniciare: la vittoria interna contro la corazzata APU Udine, destinata a dominare la regular season e a guadagnarsi la promozione diretta in Serie A. Una vittoria che ha avuto un significato simbolico importante, non solo per il valore tecnico dell’avversario, ma per il clima rovente in cui è maturata.

Un gruppo che non ha mollato mai

La seconda parte di stagione è stata più complessa, segnata da un calendario fittissimo e da infortuni in serie. Il contraccolpo della sconfitta in Coppa Italia ha fatto perdere posizioni in classifica, tanto da mettere a rischio la qualificazione diretta ai playoff,  ma la squadra ha reagito da grande gruppo, stringendo i denti e conquistando successi pesanti sui campi di Brindisi e Bologna, chiudendo al quinto posto finale.

In totale: 26 vittorie su 45 partite ufficiali tra campionato, Coppa e playoff. Una continuità importante, impreziosita da successi contro tutte le big della stagione, sia in casa che in trasferta.

Uno sguardo al futuro

Ora si apre una fase di riflessione e probabile rinnovamento. Con diversi contratti in scadenza, è lecito attendersi una sorta di rifondazione. Il progetto tecnico rimane però saldo nelle mani di Stefano Pillastrini, che ha firmato un rinnovo triennale e sarà il timoniere della prossima fase di crescita del club, verosimilmente con nuovi giovani da lanciare.

La Marea Gialla: passione, correttezza e identità

In una stagione così intensa, un capitolo a parte merita il pubblico. La Marea Gialla, Passione Ducale e la Brigata Rualis hanno rappresentato il cuore pulsante del progetto. Sempre presenti, ovunque, con calore, correttezza e spirito sportivo.

Non solo numeri: il tifo di Cividale si è distinto per educazione e maturità, anche nei momenti più caldi. Né le provocazioni lanciate dalla tifoseria dell’APU Udine – con striscioni esposti sia a via Perusini che al Carnera – né i comportamenti discutibili di alcuni tifosi forlivesi a gara 5 hanno scalfito la compostezza del tifo gialloblù.

Un esempio di sportività autentica che ha riscosso consensi in tutta Italia, anche tra i supporter avversari. L’esodo a Bologna per la Coppa Italia e l’impresa dei tifosi in bicicletta fino a Brindisi resteranno per sempre nella memoria collettiva della stagione.

Un patrimonio culturale ed emotivo, quello della tifoseria ducale, che la società del Presidente Micalich ha la fortuna – e la responsabilità – di custodire con cura. Un vero “Tempietto Longobardo” del tifo, da tramandare e proteggere

giovedì 22 maggio 2025

SPENTE LE LUCI SULLA STAGIONE: TEMPO DI BILANCI E PAGELLE

Per il terzo anno consecutivo il campionato di A2 per la Gesteco Cividale si è concluso al primo turno dei play-off con lo sfavore degli Dei del Basket, che non  hanno premiato il tiro preghiera di Francesco Ferrari sul filo dell'ultima sirena e permesso ai gialloblù di sfatare la tradizione negativa e accedere per la prima volta alle semifinali.

Rispetto ai due precedenti sfortunati, i tiri di Redivo sul ferro che nega gara 5 contro Cantù nel 2024  e nel 2023 il passaggio del turno a spese di Udine, in questa occasione riferisrsi solo agli Dei malevoli sarebbe riduttivo, perhè i ragazzi di Pillastrini erano riusciti a conquistarsi il vantaggio del fattore campo e si erano trovati a condurre la serie contro Forlì per 2-0 prima di subire la rimonta.

Certo, la "malasuerte" non si è dimenticata dei ducali neanche in questa post season, privando i gialloblù dell'apporto di Doron Lamb sul più bello e costringendo Lucio Redivo a giocare una serie condizionato fisicamente e ben lontano dal migliore stato di forma, ma se questo é vero è pur altrettanto vero che gli sfidanti sono arrivati a gara 5 senza poter contare su due uomini del peso specifico di Perkovic e Magro.  

Per cui al gong finale, in mezzo agli scroscianti e convinti applausi tributati da tutto il Palazzetto ai ragazzi di Pillastrini per l'ennesima stagione oltre le attese, si è mescolata una delusione che non era quella degli anni passati, quando il passaggio del turno non era nelle aspettative di nessino, quanto piuttosto l'amaro sapore di un'occasione persa. 

Nonostante lo sfortunato epilogo, in ogni caso anche questa volta c'è poco spazio per recriminazioni sulle rive del Natisone, ma tanti applausi per i protagonisti di un'altra annata da ricordare per le Aquile del Presidente Micalich, capaci di condurre una stagione da protagonisti assoluti in un campionato a 20 squadre, altamente competitivo e con un livello decisamente più elevato rispetto ai precedenti. 

Cividale, grazie al mantenimento quasi totale del roster che molto bene aveva fatto nella seconda parte del torneo 2023/24, ha disputato una prima parte di stagione rimanendo ancorata quasi per tutto il girone d'andata al battistrada Rimini, mettendo assieme una striscia di 9 successi consecutivi e guadagnando il quarto posto che è valso la qualificazione alle final four di Coppa Italia accarezzando il sogno di poter vincere addirittura il trofeo, avendo poi i gialloblù conqistato la finale, persa contro la corazzata Cantù.

In questa fase della stagione pure la fuoriserie APU Udine ha pagato dazio in via Perusini.

Ha poi fatto seguito una seconda parte di stagione con il mirino sulla coppa Italia, in cui la Gesteco ha patito gli effetti di infortuni che hanno colpito a turno e a lungo uomini chiave - vedasi Miani e Mastellari -  e poi minato a lungo andare le prestazioni del Sindaco Redivo, oltre che ad un fisiologico calo di forma, visto il format di una stagione che per lunghi tratti prevedeva gare praticamanete ogni 3 giorni.

Smaltita la delusione della sconfitta nella finale di coppa Italia che ha fatto perdere alcune posizioni di classifica mettendo ad un certo punto a rischio la partecipazione diretta al play-off, i gialloblù hanno saputo stringere i denti e "tirare fuori gli artigli" nelle ultime giornate, conquistando il quinto posto finale, andando a vincere su campi di dirette concorrenti come il Pala Pentassuglia di Brindisi e poi al PalaDozza, nella tana della Fortitudo.

Oltre al ruolino finale che dice 26 vittorie sulle 45 gare complessive disputate tra campionato (38) Coppa Italia (2) e playoff (5), cito due dati per far comprendere come la stagione gialloblù debba rimanere nella memoria ben più dello sfortunato epilogo della post season con cui ho aperto questo pezzo.

Udine, che ha stravinto il campionato guadagnandosi con pieno merito l'agognata promozione diretta al piano di sopra, ha perso 8 partite su 38: una sola in casa con Brindisi e poi fuori sempre a Brindisi, Forlì, Livorno, Orzinuovi, Rimini, Cividale e Bologna tutte gare invece vinte dai ragazzi di Pillastrini che, fuori casa contro le prime 13 della regular season hanno perso solo a Udine, Verona, Cantù (di 1punto), Pesaro, Rieti e Milano (al supplementare) battendo poi a Cividale tutte le prime 6 della classifica generale finale.

Prima di mandare in archivio definitivamente la stagione della maturità, tradizionalmente sempre più ostica e complessa rispetto a quelle dei debutti e prima di iniziare il meritato riposo che farà da preludio al lavoro della dirigenza ducale per "partorire" il roster che dovrà consolidare verso l'alto il volo delle Aquile nella prossima seria A2 2025/26, concludiamo con un "pagellone" per tutti i protagonisti dell'annata 2024/2025. 

L'impressione è che probabilmente per diversi di loro sia stata l'ultima stagione in maglia gialloblù e che ci si dovrà aspettare una sorta di "rifondazione" per far partire un nuovo ciclo, ma di questo ci sarà modo di scrivere e parlare, a ragion veduta, nel prossimo futuro.

In ordine di numerazione.

DERRICK MARKS 5

Arrivato in estate da Rimini per sostituire Doron Lamb, la guardia americana tradisce le aspettative pur partecipando alla serie iniziale di 9 successi consecutivi dei gialloblù, ma disputando tutte le gare fino alla sfida esterna contro l'Urania Milano senza mai dare l'impressione di essersi davvero integrato negli schemi di Pillastrini.

Troppi sono i match giocati "senza infamia" ma con ben poche lodi e così la dirigenza ducale, alla vigilia della gara interna pre-natalizia con Orzinuovi decide di rinunciare alle sue prestazioni per richiamare Doron Lamb sulle rive del Natisone.  

DORON LAMB 7

Richiamato tra l'entusiasmo generale a Cividale prima di Natale, impiega diverse gare prima di "carburare" e diventare di nuovo un punto di forza del roster ducale. 

L'indiscusso talento dell'americano ha permesso al coach di disporre nuovamente di alternative efficaci nel gioco d'attacco, in modo particolare nel periodo in cui sono calate le prestazioni di Lucio Redivo, anche se non ha avuto lo stesso impatto della stagione scorsa, dovendo fare i conti con un'autonomia limitata da condizioni fisiche non sempre ottimali e pure colpito dalla sfortuna a gara 4 dei play-off, quando un infortunio muscolare lo mette fuori dai giochi in un buon momento di forma.

Mezzo punto in meno per la discontinuità, prestazioni invece da ricordare la semifinale di Coppa al PalaDozza contro Rimini e gara 1 contro Forlì nel play-off, quando ha fatto vedere lampi di purissima classe.

LUCIO REDIVO 7

Stagione dai due volti per l'asso di Bahia Blanca: ad una prima giocata da par suo, lunga fase culminata nella sontuosa prestazione impreziosita da 38 punti contro Pesaro nell'ultima del girone d'andata e che vale la qualificazione alle Final Four di coppa Italia, ne segue una seconda in cui l'apporto dell'argentino cala vistosamente.

Bersagliato da infortuni e affaticamenti muscolari a ripetizione non riesce più a dare l'apporto a cui aveva ben abituato compagni e tifoseria; resta sempre un pericolo costante per le difese avversarie che lo marcano a vista spesso raddoppiando su di lui, talvolta però eccede nei tiri "ignoranti" senza la precisione dei tempi migliori. 

Il voto finale tiene conto dell'andamento ambivalente, l'impressione è che debba essere recuperato anche per il notevole logorio psicofisico accumulato giocando praticamente senza soste negli ultimi 2 anni tra voli transatlantici e impegni della nazionale. 

GABRIELE MIANI 6,5

Il lungo di Codroipo si è confermato certamente uno dei prospetti più interessanti della categoria quale giocatore eclettico, con molte frecce nell'arco: efficace a rimbalzo, buon tiro dai 6,75 e con movimenti letali sotto il canestro avversario, ma l'infortunio subito a fine novembre alla schiena contro la Fortitudo ne ha condizionato pesantemente tutto il resto della stagione.

Costretto a saltare molte gare e molti allenamenti, il suo apporto nella seconda parte del campionato è stato chiaramente discontinuo, dove sono emersi ancora i nodi su cui deve lavorare per diventare un top player, come la gestione dei falli e i "passaggi a vuoto" all'interno dello stesso match.

MARTINO MASTELLARI 6,5

Anche lui bersagliato ripetutamente da malanni muscolari tutte le volte che era entrato nella migliore condizione, ha potuto così a dare solo a singhiozzo l'importante apporto di punti quale "tiratore di striscia", ovvero la sua caratteristica più significativa. 

Dolorosa la sua assenza alle final four di Coppa Italia, decisivo in gara 2 del play-off, quando da solo porta in dote i tiri e i punti che mancano da Lamb e Redivo.

Si ripete in gara 4 alimentando la rimonta finale che però non si concretizza nelle ultime battute.

MICHAEL ANUMBA n.g.

La guardia arriva da Pistoia a stagione avanzata per allungare il roster assottigliatosi per via degli infortuni di Miani e Mastellari e rinforzare le rotazioni, viste le perduranti imperfette condizioni di Redivo.

Stenta parecchio ad inserirsi nei giochi e il coach Pillastrini gli concede alla fine poco spazio, rimanendo così una sorta di "oggetto misterioso".

A parte un buon match disputato nel finale travolgente in semifinale di coppa contro Rimini, non lascia tracce significative nei referti per ottenere una valutazione.

EUGENIO ROTA 7

Il capitano raggiunge e supera le 200 presenze in maglia gialloblù, diventando l'unico a disputare tutte le partite delle Eagles nei 5 anni di storia della società ducale e meritandosi la conferma per altre due stagioni in via Perusini.

Nella prima parte della stagione ricopre con profitto un ruolo simile a quello del torneo precedente, entrando in corso d'opera in rotazione con Redivo e Lamb, mentre nella parte finale viste le imperfette condizioni fisiche di molti suoi compagni vede crescere considerevolmente il suo minutaggio, con il coach che non rinuncia mai all'apporto del suo capitano in tutti i finali incandescenti.

Mezzo punto in più per essere un'Aquila della prima ora, che incarna lo spirito gialloblù ed ha la maglia delle Eagles incisa come una seconda pelle, mai domo e incapace di ammainare la bandiera, quali siano le condizioni di gara. 

LEONARDO MARANGON 7

Arrivato da Padova a Cividale nell'estate 2023 con le credenziali di enfant prodige dopo essersi fatto notare nel campionato di B con l'oscar di miglior under 18 del torneo, il classe 2005 a fine della scorsa stagione viene premiato come miglior under 21 del campionato di A2.

Atteso quest'anno alla conferma e ad un'ulteriore salto di qualità, fatica nella prima parte a mantenere i livelli raggiunti mentre esce alla distanza nel parte finale della stagione, sopperendo al calo di energia di diversi compagni, bersagliati a turno da acciacchi vari. 

Fisicità, doti atletiche e coraggio abbondano, resta da migliorare la precisione al tiro e la capacità nelle scelte delle soluzioni offensive migliori, attitudine che benchè assai migliorata, resta talvolta ancora pregiudicata da troppa precipitazione.

Il tempo lavora sicuramente per lui.

MATTEO BERTI 5,5

Stagione tra alti e bassi per il centro di 2,12, che non fa mai mancare il suo impegno e le doti morali all'interno del gruppo ma non riesce a dare continuità al bel finale dello scorso campionato, riuscendo solo a sprazzi a risultare decisivo sotto le plance.

Fa sentire di più il suo peso in fase difensiva, dove però è spesso penalizzato dal metro arbitrale e da una difficile gestione dei falli.

Giocatore da rivalutare. 

FRANCESCO FERRARI 8

Arrivato in estate da Borgomanero anche lui con la fama di enfant prodige, alla prima stagione di A2 Francesco si conferma in toto come uno dei talenti nostrani più interessanti a livello nazionale, tanto da essersi già attirato l'attenzione del CT Pozzecco che lo convoca a febbraio, pur senza impiegarlo, nella nazionale maggiore. 

Vince il trofeo di miglior under 21 della stagione, sciorinando atletismo, energia, coraggio e doti tecniche che sotto l'abile guida di Pillastrini diventano un fattore spesso decisvo per le fortune delle Aquile, in modo particolare nel momento in cui Ferrari riesce a non far rimpiagere il compagno Miani quando questi resta a lungo fuori per il noto infortunio di fine novembre.

Da migliorare il tiro dalla lunetta, vero tallone d'Achille per tutta la stagione.

In riva al Natisone si augurano di vederlo almeno ancora un anno in gialloblù, dove il classe 2005 potrebbe disporre di un minutaggio sempre più importante ed in grado di levigare con i giusti tempi il diamante ancora grezzo del suo talento.

 GIACOMO DELL'AGNELLO 9

Jack è sicuramente quello che non solo ha confermato in toto tutte le belle cose fatte vedere lo scorso campionato ma addirittura ha migliorato le performance in maniera davvero importante, alzando anche i tentativi e le percentuali dall'arco.

Sempre presente, consolida in modo indiscutibile il ruolo di guida dello spogliatoio e offre un rendimento sopra la media con continuità in tutto l'arco della stagione, sia in difesa che in attacco. Giocatore che oltre alla garra sconfinata fa della capacità di leggere molto bene lo sviluppo delle fasi di gioco un vero punto di forza.  

In scadenza di contratto, ha sicuramente attirato su di sè l'attenzione di molte piazze importanti ed ambiziose che militano in A2, per cui la sua permanenza nella città ducale resta tutta da decifrare.

NICCOLO' PICCIONNE n.g.

Il play proveniente in estate da Ancona è sempre a referto, sono però troppo pochi i minuti che vengono concessi in prima squadra per poter valutare il terzo classe 2005 del Roster.  

STEFANO PILLASTRINI E STAFF 8

Diversamente dall'estate 2023, riparte dallo stesso gruppo che ha concluso in maniera brillante la stagione 2023/24 e la scelta paga alla grande per tutta la prima parte, quando maggior coesione rispetto ai competitors e squadra che lavora al completo senza intoppi fisici, portano le Aquile fino al secondo posto in classifica in un campionato di A2 a 20 squadre ritenuto, a ragione, il più difficile e competitivo degli ultimi 15 anni.

Gestisce al meglio i talenti di Marangon e Ferrari, garantendogli minuti veri e la possibilità di crescere senza essere appesantiti dalla pressione della piazza che deve vincere per forza tutte le partite.

Quando gli avversari di blasone e con rotazioni più ampie trovano la "quadra" e Cividale incomincia ad essere rimaneggiata a causa di infortuni a ripetizone, sa trovare i modi giusti per fare in modo che il gruppo non perda determinazione e riesce a rimanere sempre ancorato nelle posizioni di vertice.

Le final four di Coppa Italia che portano Cividale ad un passo dalla conquista di uno storico traguardo sono la perla della stagione, anche se in finale i suoi ragazzi non riescono ad andare oltre i propri limiti  nella finale contro Cantù.

Il contraccolpo fisico e psicologico che subisce la squadra non è banale, ma anocra una volta il Pilla ed il suo staff riescono a toccare le corde giuste per far riprendere quota la gruppo, nonostante tutti i contrattempi, fino ad un primo turno di playoff combattuto e perso dopo 5 gare molto equilibrate. 

Terminata la regular season si lega per altri tre anni al club ducale, per l'avvio di un nuovo progetto di crescita che molto probabilmente lo vedrà nella costruzione di un roster rinnovato e nel lancio di altri giovani talenti, abilità che fanno di Stefano Pillastrini un vero Maestro.

MAREA GIALLA, PASSIONE DUCALE, BRIGATA RUALIS 10 e LODE

D'accordo che quando si vince e le cose procedono con il vento in poppa è tutto più semplice e tutti vogliono partecipare, ma la tifoseria ducale si è confermata ancora una volta il fiore all'occhiello del club, non facendo mai mancare il suo appoggio appassionato, caloroso e genuino ma sempre rispettoso dell'avversario, anche quando questo non si comportava con reciproco fair-play.

Hanno seguito la squadra in buon numero in tutta la penisola guadagnadosi spesso l'apprezzamento anche dei supporter delle squadre ospitanti per educazione e sportività.

L'esodo massiccio a Bologna nel weekend delle Final four di Coppa Italia e l'impresa dei "ciclisti" che raggiungono Brindisi restono per i posteri  le perle della stagione.

Si meritano la lode per non aver mai raccolto le provocazioni, neppure quando vengono "stuzzicati" dai "cugini" dell'APU, che sia in via Perusini che al Carnera espongono striscioni all'indirizzo della Marea Gialla e neppure quando la tifoseria di Forlì, accorsa numerosa al PalaGesteco per gara 5, non brilla per educazione e sportività.  

Un patrimonio di passione genuina e spontanea, da conservare, e di cui la società del Presidente Micalich è ben consapevole di avere "tra le mani". 

Un diverso "Tempietto Longobardo".


mercoledì 21 maggio 2025

LA STAGIONE SI CHIUDE CON UN ALTRO FERRO SULLA SIRENA: FORLI' VA AVANTI 78-81

Ritornata a Cividale dalla doppia sfida in Romagna perdendo sia l'opportunità di chiudere la serie capitalizzando il 2-0 casalingo, che Doron Lamb, fermato a tempo indeterminato da un infortunio muscolare patito nella prima parte di gara 4, la Gesteco era chiamata disputare in via Perusini la gara senza appello, quella da "dentro o fuori" in condizioni davvero complicate.

La rinuncia forzata all'americano, che nella serie stava tirando con il 65% dall'arco, obbligava alla vigilia  tutti i ragazzi di Pillastrini ad andare persino oltre quel "tirare fuori gli artigli" scelto come motto per la post season per cercare di conquistare il primo approdo alle semifinali playoff della giovane storia del club ducale, sperando anche di poter disporre di un Lucio Redivo non troppo lontano dalla condizione che gli è valsa dalla tifoseria locale il conferimento della carica di Sindaco, nonostante i noti guai al ginocchio.

Impresa assai complicata anche in ragione della forza dell'avversario, che arrivava in Friuli con l'inerzia dalla sua parte e con il sostegno di una folta e rumorosa rappresentanza della sua tifoseria, notoriamente tra le più calde dello stivale.  

L'ambiente gialloblù, consapevole della delicatezza della sfida si è stretto intorno alla squadra come sempre da par suo,  per dare la spinta necessaria e continuare ancora una stagione che è già andata oltre le previsioni di partenza, regalando davvero tante soddisfazioni a tutti coloro che hanno a cuore le sorti del club del Presidente Micalich.

L'impresa svanisce anche in questa stagione a fil di sirena, dopo una seconda metà di gara giocata con grande generosità in cui i ducali erano riusciti a recuperare uno svantaggio di 16 punti accumulato in un secondo periodo dove i ragazzi di Pillastrini hanno accusato percentuali al tiro deficitarie e una difesa non sempre all'altezza, circostanza su cui gli ospiti hanno poi costruito il loro successo, riuscendo a resistere al veemente ritorno della Gesteco.

Da segnalare tra gli ospiti, privi di Perkovic per tutta la gara, le prove capitan Cinciarini, Del Chiaro e del friulano Gaspardo, implacabile a colpire la retina gialloblù in tutti i momenti chiave del match; sulla sponda cividalese va in archivio un'altra prova d'insieme a livello difensivo, impreziosita nel finale dalle triple di Rota e Mastellari su cui è stata costruita la sfortunata rincorsa.  

Si parte con Rota, Redivo, Marangon, Dell'Agnello e Miani per Cividale mentre per i colori biancorossi scendono sul parquet Tavernelli, Parravicini, Gaspardo, Harper e Del Chiaro e si schierano subito a zona, in un avvio di partita in cui le due squadre sono contratte e il punteggio vede Forlì avanti 4-8 dopo che Gaspardo e Parravicini hanno rotto gli indugi dall'arco.

Dell'Agnello con il suo inconfondibile gancio e Marangon dai 6'75" però ribattono subito per il 9-8  6'20" e poi Cividale perde diverse occasioni sul 13-10 di allungare ancora sbagliando diversi tiri ben costruiti dall'arco e così gli ospiti sono di nuovo avanti 17-19 a 2'46" dalla prima sirena quando Pillastrini toglie Redivo per Anumba. Si va infine alla prima pausa sul punteggio di 19-19, con Ferrari che prima impatta ma poi fa 0-2 dalla lunetta a 3" dallo stop.

Le due squadre sentono la posta in palio e dal campo fino a qui hanno tirato dal campo 8/21 Cividale e 8/18 Forlì, nonostante diverse siano stati i tiri aperti costruiti.

Il secondo periodo Mastellari illude i suoi dai 6'75", ma Forlì in meno di un minuto piazza tre conclusioni a bersaglio dall'arco con Harper e un doppio Cinciarini e fanno registrare il primo parziale della serata volando sul + 8 (22-30) a 7'20" e costringendo Pillastrini a chiamare la sospensione per firmare l'inerzia. I suoi ci mettono l'anima, ma le percentuali al tiro restano deficitarie e così gli ospiti a 3'49 portano a + 11 il distacco (27-38) dopo una tripla di Gaspardo che obbliga ancora il coach di casa a richiamare i suoi in panchina. Un fallo antisportivo fischiato a Miani su Gaspardo con il tabellone che segna già 27-41 a 2'09" spinge ancora di più avanti Forlì con Parravicini pronto a castigare dalla lunetta e dare il + 16 ai suoi (27-43).  Nelle ultime battute Cividale riesce ad accorciare le distanze, con la tripla di Miani del possibile -10 che s'infrange sul ferro sulla sirena dell'intervallo lungo e così si va al riposo sul 32-45. 

In questo periodo l'Unieuro è riuscita a dare una spallata che rischia di essere già quella decisiva, alzando sensibilmente le percentuali dall'arco e dal campo (ora al 50% con 17/34) senza mai impiegare Perkovic  mentre Cividale è rimasta su di un deficitario 13/40 nonostante gli 11 rimbalzi catturati nell'area romagnola. 

Alla ripresa dei giochi Marangon stoppa Harper e schiaccia in transizione e poi Miani dalla lunetta accorciano sul 36-45 e gli animi si scaldano all'interno del palazzo e Cividale che produce il massimo sforzo per tentare di rientrare nel match avendo ora ridotto stabilmente lo svantaggio a 8 punti. In questa fase si segnala Marangon, capace a più riprese di catturare carambole nel pitturato romagnolo e consentire a Redivo di accorciare sul 47-53 a metà frazione, con Martino che chiama sospensione.

Redivo sbaglia la tripla del possibile - 3 e Cinciarini castiga subito sempre dall'arco per il 49-58, imitato poi da Gaspardo (51-61) per frustrare la rimonta dei padroni di casa, che generosamente però non vogliono gettare la spugna e con Forlì in bonus dalla lunetta ritornano a - 5 (56-61) a 1'38" dalla penultima sirena prima che Mastellari dall'arco dica 59-61 e poi Redivo fallisca la tripla del sorpasso.

Harper dalla lunetta fa 1 su 2 e blocca il tabellone sul 59-62 con cui si va all'ultimo riposo in un clima davvero elettrico.

A 8'09" dal gong una tripla di Mastellari porta Cividale sul - 1 (63-64) e capitan Rota ancora dall'arco agguanta la parità (66-66) a 7'05"; Gaspardo non fa una piega e sempre dai 6,75 dice subito 66-69; un'altra bomba di Pollone dà il + 5 agli ospiti 67-72, Rota non ci sta e replica per il 70-72 a 3'41" dal gong.

A 3'39", dopo due punti di Del Chiaro (70-74), Pillastrini chiama i suoi in panchina per organizzare le battute decisive della sfida ma al rientro in campo Dell'Agnello e Ferrari non sfruttano il possesso e Gaspardo punisce (70-76).

Redivo replica dai 6,75" ma poi Cividale sfrutta ancora male il possesso successivo e Del Chiaro, una sentenza stasera, infila il suo punto n. 21 e allunga un preziosissimo + 5 (73-78) a 1'50"; adesso la palla scotta per davvero e Gaspardo non trema e con la tripla del 75-81 fa scorrere i titoli di coda, nonostante ancora Mastellari provi a tenere in piedi il fortino con la bomba del 78-81 a 20" e Rota abbia poi in mano il possesso del possibile overtime.

Il tiro in acrobazia sfuma lontano dal ferro e poi ancora Ferrari da metà campo sulla sirena coglie il ferro sulla sirena.

Niente da fare neanche quest'anno, i gialloblù devono accontentarsi ancora una volta di uscire con l'onore delle armi e con un palazzetto in piedi ad applaudire.

Giuseppe Passoni

(Foto Roberto Comuzzo)

UEB GESTECO CIVIDALE – UNIEURO PALLACANESTRO FORLI' 78-81

(19-19, 32-45, 59-62)

UEB GESTECO CIVIDALE

Redivo 10, Miani 12, Anumba, Mastellari 18, Rota (k) 9, Calò n.e., Abedajo n.e., Marangon 9, Berti, Ferrari 3, Dell'Agnello 17, Piccionne n.e.

Allenatore Stefano Pillastrini

Vice Giovanni Battista Gerometta, Alessandro Zamparini

Tiri da due 14/33, Tiri da tre 12/38, Tiri liberi 14/20 Rimbalzi 45 (29 dif. 16 off.)

UNIEURO PALLACANESTRO FORLI'

Parravicini 5, Cinciarini (k) 20, Tavernelli 4, Gaspardo 21, Perkovic, Pascolo,  Del Chiaro 21, Pollone 3, Sanviti n.e., Berluti n.e., Harper 11.

Allenatore: Antimo Martino

Vice Andrea Fabrizi e Paolo Ruggeri

Tiri da due 17/29, Tiri da tre 13/32, Tiri liberi 8/11  Rimbalzi 34 (30 dif. 4 off.)

Arbitri: Francesco Cassina di Monza/Brianza, Roberto Radaelli di Agrigento, Marco Rudellat di Nuoro

Spettatori: 2.700 circa



 

domenica 18 maggio 2025

ULTIMO QUARTO FATALE PER LA GESTECO: FORLI' PORTA LA SERIE A GARA 5

 

All'Unieuro Arena di Forlì la Gesteco si giocava stasera l'ultima chance a disposizione per chiudere la serie e raggiungere per la prima volta nella sua storia la semifinale promozione, evitando la roulette russa di gara 5.

Il ritmo frenetico dei playoff non concede molto tempo alle riflessioni e alle analisi post-partita, quanto piuttosto impone di recuperare al meglio possibile, date le condizioni, le energie psico-fisiche in vista della gara successiva lascinado alle spalle le scorie, soprattutto nervose, accumulate durante l'ultimo quarto di gara 3, in cui i gialloblù, orfani del loro condottiero Stefano Pillastrini espulso a metà della contesa, si sono visti sfilare dagli avversari un successo che sembrava alla portata per quanto fatto vedere per lunghi tratti della gara.

Fondamentale per Cividale il compito comunque di limare il numero di palle perse rispetto alla gara di venerdì, migliorare la circolazione della palla per evitare difficile iniziative personali e mettere pressione difensiva con maggiore continuità per tutto l'arco della sfida e sperare in un maggior contributo da parte di Redivo e Lamb, nonostante il perdurare delle imperfette condizioni fisiche dell'argentino e i soprravvenuti guai al polpaccio per la guardia di New York.

Non sono bastati 3 quarti di gara giocati alla pari con gli avversari ai gialloblù per indirizzare il match a loro favore, perchè in avvio dell'ultima ultima frazione i ragazzi di Pillastrini hanno subito un parziale di 11-0 che si è rivelto decisivo per le sorti della serie che ora assegnerà il passaggio del turno mercoledì prossimo in via Perusini a gara 5, la sfida che non ammette appello e dal pronostico assolutamente aperto.

Circostanza valida anche per determinare chi tra Rimini e Brindisi sfiderà in semifinale la vincente del quarto tra Cividale e Forlì, alla luce del nuovo successo casalingo dei pugliesi sulla compagine guidata da Sandro dell'Agnello.

Tramutata in ammenda la giornata di squalifica inflitta dal Giudice Sportivo, coach Pillastrini siede regolarmente in panchina e in avvio si affida a Redivo, Lamb, Marangon, Dell'Agnello e Berti mentre il collega Martino propone, insieme all'eroe di gara 3 Tavernelli, Harper, Perkovic, Gaspardo e Del Chiaro all'interno di un palazzetto deciso a spingere i beniamini di casa verso la virttoria.

La prima frazione si svolge all'insegna dell'equilibrio con basse percentuali su entrambe i fronti ed il tabellone inchiodato sul 7-6 dopo un canestro di Lamb a metà periodo; l'equilibio non si spezza neanche nella seconda fase del tempo, con le due squadre che giocano contratte vista l'importanza della posta in palio e tornano in panchina per la prima mini sosta con il punteggio di 18-19 per Cividale che con Rota fallisce una tripla sulla sirena per cercacare di incrementare il vantaggio.

In questo primo periodo l'equilibrio è totale, con Gaspardo in evidenza nelle fila dei padroni di casa con 10 punti messi a segno, frutto di un pregevole 4/6 dal campo, mentre sulla sponda ducale Lamb con due triple a segno su tre tentativi risulta il più produttivo dei suoi sul fronte offensivo.

Le due squadre continuano a ribattere colpo su colpo anche ad inizio di secondo periodo, con la guardia americana di Cividale che prova a dare uno strappo a 7'26“ dalla prima sirena, infilando una tripla che costa un fallo tecnico a Forlì e procura un libero aggiuntivo di Rota per il 23-27; il tentativo fallisce perchè la Gesteco soffre sotto canestro e concede diverse seconde palle e così a metà frazione una tripla di Perkovic rimette in parità la contesa (29-29). In questa fase sale in cattedra Miani nell'attacco ducale ed insieme ad una tripla di Rota confeziona il 33-38 a 2'54“ che induce Martino a chiamare time-out per bloccare l'inerzia sfavorevole in una gara combattuta su ogni possesso. La mossa funziona perchè l'Uniero si dimostra nelle battute finali più precisa nelle conclusioni dall'arco rispetto ai ducali e così si va al riposo sul 42-43, con i gialloblù che sprecano malamente con Redivo l'ultimo possesso dopo un time out chiamato da coach Pillastrini.

Fino a qui pochi i tiri dalla lunetta nonostante la grande intensità messa in campo dalle due squadre e Cividale con il braccino corto, facendo registrare un pericoloso 1/5 contro il 5/7 dei romagnoli.

Il copiopne non cambia neanche in avvio di terzo periodo con Forlì che mette la testa avanti con una tripla del solito Gaspardo (47-46) a metà tempo e poi è sempre l'ala di Vidulis a marcare il 56-54 a 1'53“ dalla penultima sirena, segnando il suo ventesimo punto con 5/7 dal campo, 4/5 dai liberi e 4 falli subiti. Si va all'ultima pausa con i romagnoli avanti 59-58, dopo che il tiro del nuovo sorpasso di Miani non centra il bersaglio nell'ultimo possesso e la palla che scotta su ogni azione del match.

L'ultimo tempo fa subito registrare un allungo dei padroni di casa che con un'iniziativa del solito Gaspardo ed una tripla di Parravicini si portano per la prima volta sul + 6 (66-60) che diventano 11 a seguito di una tripla di Harper e di un altro bersaglio in area dell'americano a 6'31“ dal gong per il 71-60 mentre Cividale litiga con il canestro e perde fluidità in attacco. E' il colpo del KO che decide la gara e schianta i gialloblù, con il tabellone finale che dirà 83-72 per i romagnoli.

Tra 3 giorni al PalaGesteco la gara senza appello.


UNIEURO PALLACANESTRO FORLI' – UEB GESTECO CIVIDALE 83-72

(18-19, 42-43, 59-58)

Unieuro Forlì: Raphael Gaspardo 24 (7/9, 2/5), Toni Perkovic 16 (1/2, 4/8), Matteo Parravicini 16 (2/3, 4/5), Demonte Harper 10 (2/6, 1/3), Angelo Del chiaro 7 (3/7, 0/0), Riccardo Tavernelli 5 (1/1, 1/1), Davide Pascolo 4 (2/4, 0/0), Daniele Cinciarini 1 (0/1, 0/3), Luca Pollone 0 (0/0, 0/2), Alessio Sanviti 0 (0/0, 0/0), Simone Errede 0 (0/0, 0/0)

Tiri liberi: 11 / 16 - Rimbalzi: 30 6 + 24 (Demonte Harper, Angelo Del chiaro, Luca Pollone 5) - Assist: 17 (Demonte Harper 5)

UEB Gesteco Cividale: Gabriele Miani 13 (4/6, 1/2), Lucio Redivo 12 (3/6, 2/5), Doron Lamb 11 (1/4, 3/5), Eugenio Rota 10 (0/2, 3/7), Francesco Ferrari 7 (2/3, 1/3), Leonardo Marangon 6 (3/7, 0/5), Martino Mastellari 6 (2/3, 0/1), Matteo Berti 5 (2/3, 0/0), Giacomo Dell' agnello 2 (1/1, 0/0), Micheal Anumba 0 (0/0, 0/1), Niccolò Piccionne 0 (0/0, 0/0)

Tiri liberi: 6 / 12 - Rimbalzi: 32 10 + 22 (Leonardo Marangon 9) - Assist: 15 (Lucio Redivo, Micheal Anumba 4)

venerdì 16 maggio 2025

UNA GESTECO NERVOSA S'INCARTA NEL FINALE: FORLI' VINCE 91-81 E PORTA LA SERIE A GARA 4

La Gesteco arrivava all’Unieuro Arena di Forlì con il sogno nel cassetto di sfruttare subito il primo “match point” per il passaggio del turno, cercando così di capitalizzare al massimo il 2-0 conquistato in via Perusini al termine di due gare tiratissime e risolte quasi in fotocopia dai ragazzi di Pillastrini con altrettante rimonte nell’ultimo periodo nelle sfide in riva al Natisone.

Desiderio legittimo ma che doveva anche fare i conti con la realtà di un Unieuro Forlì ferita nell’orgoglio e con le spalle al muro davanti al suo caldissimo pubblico di casa e per nulla intenzionata a dare il via libera ai gialloblù, per altro alle prese con il rebus dei malanni al ginocchio che assillano Lucio Redivo e ne limitano fortemente l’impiego.

Ed è noto quanto sia più pericolosa una tigre ferita di una sicura di mangiarti in un sol boccone.

Per tre quarti di gara l'impresa sembrava possibile, in un match che ricalcava l'andamento dei precedenti in Friuli con le due squadre incollate nel punteggio senza essere capaci di creare break decisivi, mentre nell'ultimo quarto il copione è cambiato decisamente, con Forlì che stavolta è riuscita ad rimanere aggrappata al match con maggiore lucidità e piazzare i colpi del KO.

Da segnalare una prova maiuscola di Tavernelli nelle fila romagnole, che iscrive a referto 22 punti con 4/4 da due punti 3/4 da tre e 5/5 dalla lunetta e 9 rimbalzi in 34 minuti, un vero fattore che assieme ad una prova tutta orgoglio di capitan Cinciarini autore di 16 punti con 4/5 dal campo, sono stati i pilastri su cui Forlì ha costruito il successo.

Pillastrini si affida in avvio a Redivo, Lamb, Marangon, Dell’Agnello e Berti mentre la scelte di Martino cadono su Tavernelli, Perkovic, Harper, Gaspardo e Del Chiaro con Lamb protagonista in apertura, prima rompendo il ghiaccio con una tripla e poi commettendo un fallo antisportivo per impedire una transizione dei padroni di casa che costa il 4-3 di Harper per i padroni di casa; la gara si gioca subito a ritmi elevati con le due squadre che ribattono colpo su colpo alle rispettive iniziative ed il punteggio che vede avanti Forlì 9-8 a metà frazione dopo uno su due di Dell'Agnello dalla lunetta. Una tripla siderale di Mastellari con aggiunta di libero porta Cividale sul 13-16 a 3'47” e poi la guardia bolognese risponde con la stessa moneta ancora ad un canestro dalla distanza di Tavernelli per il 16-19 a 2'42” dalla prima sirena a cui si giunge sul 23-28 con una schiacciata di Ferrari, ben servito sulla sirena da Redivo, dopo che Miani si era reso protagonista di un filotto di 7 punti consecutivi nella fase finale del periodo.

Mastellari allunga sul 23-30 in avvio ma poi Forlì si rifà subito sotto sul 29-30 in una gara che non ha pause e si gioca su ritmi sempre elevati, con le difese che non sono proprio irreprensibili; a metà tempo va in onda una sfida tutta di triple tra le due squadre, con Lamb infallibile che porta Cividale sul 36-40. I gialloblù sprecano diversi possessi per incrementare il vantaggio perchè Forlì fatica a trovare canestro in questa fase, con Dell'Agnello che però in un minuto commette due falli in attacco consecutivi in fotocopia e il tabellone segna 43-42 a 1'11” dall'intervallo dopo una tripla di Tavernelli suggella un parziale di 7-0 per i padroni di casa.

A coach Pillastrini alcuni fischi arbitrali sono stati indigesti e al tecnico gialloblù le vibranti proteste costano un altro tecnico e la conseguente espulsione, mentre Forli è avanti al rientro negli spogliatoi sul + 7 (49-42), avendo portato il parziale sul 13-0 nell'ultimo giro di cronometro con una tripla di capitan Cinciarini sulla sirena.

Cividale si è smarrita quando dava l'impressione di poter almeno mantenere il vantaggio, con Forlì che invece ha ripreso fiducia, alzando le percentuali al tiro dall'arco e riuscendo così a capitalizzare al massimo il passaggio a vuoto della Gesteco, tradita dai nervi dopo alcuni fischi arbitrali contestati e dal clima incandescente nel palazzo.

Si ricomincia e i gialloblù in due minuti rispondono d'orgoglio infilando un parziale di 8-0 e costringono coach Martino a chiamare minuto sul 49-50 dopo due triple di Miani e Dell'Agnello e due punti di Marangon; da qui in poi fino alla fine del periodo si viaggia in assoluto equilibrio con Forlì che però si carica di falli e Cividale che, facendo tesoro dei viaggi in lunetta, è avanti 59-63 quando mancano sul cronometro 2'52” alla penultima sirena a cui poi si arriva sul 68-69 con canestro di Rota sul gong.

L'inizio dell'ultimo tempo vede salire in cattedra Tavernelli, che segnando dall'arco il suo punto n. 17 manda avanti i padroni di casa sul 77-72, invertendo l'inerzia che nei precedenti aveva visto Cividale prendere il sopravvento e consigliando coach Gerometta a richiamare i suoi per un time-out.

Uno 0-2 dalla lunetta di Ferrari al rientro è sanguinoso, così come una palla persa di Miani in attacco sul 79-74 per Forlì che così, ancora con Tavernelli, vola sul + 8 a metà tempo (82-74) e sembra l'allungo che può spaccare la partita, anche perchè Cividale ha perso lucidità e continua a perdere palloni in attacco, soffrendo la pressione dei padroni di casa.

Il quinto fallo di Harper e un tecnico alla panchina di Forlì ridanno fiato ai gialloblù che a 3'37” sono sotto 82-78, ma un altro fallo in attacco fischiato a Dell'Agnello consente all'Unieuro di rimanere avanti 83-78 quando mancano 2'30” sul cronometro; a questo punto ci sarebbe ancora la possibilità di rientrare, ma la mira tradisce troppe volte i ducali per poterci riuscire davvero e così Forlì tiene le “mani sul volante” fino al termine ampliando il vantaggio fino al +10 chiudendo sull'ultima sirena avanti 91-81, mandando così la serie a gara 4 domenica prossima.


UNIEURO PALLACANESTRO FORLI' – UEB GESTECO CIVIDALE 91-81

(23-28, 47-42, 68-69)


Unieuro Forlì: Riccardo Tavernelli 22 (4/4, 3/4), Daniele Cinciarini 16 (2/3, 2/2), Raphael Gaspardo 14 (1/5, 2/4), Demonte Harper 13 (6/10, 0/1), Davide Pascolo 10 (5/5, 0/0), Toni Perkovic 5 (1/3, 0/4), Luca Pollone 5 (0/0, 1/4), Angelo Del chiaro 3 (1/3, 0/0), Matteo Parravicini 3 (0/0, 1/3), Simone Errede 0 (0/0, 0/0), Alessio Sanviti 0 (0/0, 0/0)
Tiri liberi: 24 / 34 - Rimbalzi: 30 3 + 27 (Riccardo Tavernelli 9) - Assist: 15 (Riccardo Tavernelli 6)
UEB Gesteco Cividale: Gabriele Miani 21 (6/10, 3/4), Giacomo Dell' agnello 17 (4/7, 2/2), Martino Mastellari 13 (2/3, 2/6), Doron Lamb 11 (0/0, 3/5), Eugenio Rota 9 (2/3, 0/3), Lucio Redivo 4 (2/4, 0/3), Leonardo Marangon 4 (2/5, 0/2), Francesco Ferrari 2 (1/2, 0/2), Matteo Berti 0 (0/1, 0/0), Micheal Anumba 0 (0/0, 0/0), Niccolò Piccionne 0 (0/0, 0/0)
Tiri liberi: 13 / 21 - Rimbalzi: 31 6 + 25 (Giacomo Dell' agnello 9) - Assist: 13 (Eugenio Rota, Lucio Redivo 4)

LA BOTTIGLIA DI MARIUPOL

Mariupol, marzo 2022.

Non si sentivano più i gabbiani.
Né il rumore del mare.
Solo il sibilo dei razzi, le urla spezzate nei corridoi degli ospedali sventrati, i vetri che cadevano dalle finestre senza vetro.

Viktor avanzava tra le rovine di via Myru come se camminasse dentro una fotografia in bianco e nero: ogni colore era stato divorato dalla guerra; il verde degli alberi, il blu dei balconi, il rosso delle insegne: tutto spento, grigio, polvere.

Solo mura scheggiate e costruzioni crollate, in un silenzio pesante che sembrava soffocare ogni speranza. Viktor camminava tra le rovine, le gambe stanche, la mente immersa in un buco nero di pensieri e ogni passo lo portava più lontano dalla sua vita precedente, quella di quando a Kyiv, qualche mese prima, pensava che tutto fosse ancora possibile.

Ora c'era solo la guerra, e la guerra non faceva domande, non si fermava mai e non chiedeva permesso, non ti dava il tempo di riprenderti.

Viktor aveva imparato a convivere con quel rumore costante in sottofondo: il boato delle esplosioni, il fruscio dei missili che sibilavano nell'aria, l'eco lontano dei colpi. Le sue orecchie ormai non rispondevano più al suono della guerra, ma il cuore, quello, non riusciva a smettere di battere forte. Ogni battito era un ricordo che tornava a galla, una domanda senza risposta.

Aveva imparato a non guardare troppo a lungo, né le case, né i volti; le cose guardate troppo a lungo in guerra si portano dietro e lui portava già abbastanza.

Fu tra i detriti di una panetteria che vide la bottiglia.

Una bottiglia semplice, di vetro trasparente, senza tappo, senza etichetta  ma intera; era lì beffarda, in piedi, appoggiata tra due mattoni, come dimenticata da Dio e risparmiata dal diavolo.

Viktor si fermò. Per un attimo, tutto intorno sembrò muto. Neppure il suo respiro arrivava alle orecchie. Solo quella bottiglia.

Era ancora intera. In un quartiere dove non restavano neppure le scale, dove in  mezzo a mura sbriciolate e corpi sepolti, c'era chi scavava col cucchiaio per cercare del cibo.
Una bottiglia. Ancora viva.

Si chinò. La prese in mano come si tiene un uccellino appena caduto dal nido. 

Fredda, liscia, perfetta. Fragile.

Intatta.

Pensò: “E io?”

Lui era ancora in piedi, sì; respirava, mangiava quando poteva e parlava poco ma dentro non era più intero. Aveva cominciato a spezzarsi lentamente: quando aveva visto la madre di Oleg morire dissanguata tenendosi il ventre, quando aveva spinto via un vecchio da una coda per l’acqua e quando aveva desiderato con tutte le sue forze che qualcun altro morisse al posto suo.

La guerra non lo stava uccidendo. Lo stava trasformando.

Aveva cominciato a odiare.

Prima i russi, con ferocia cieca,  poi quelli che erano scappati,  poi quelli che mandavano aiuti e si sentivano a posto, poi chi parlava di “resilienza” e infine… se stesso.

L’odio era come la cenere: si infilava ovunque, anche sotto le unghie dell’anima.

E la bottiglia?

Lei no.
Era ancora pulita.
Silenziosa.
Immune.

La fissò a lungo. Quasi con rabbia. Le venne da chiedersi se fosse vera o fosse una specie di provocazione del destino, come dire: “Guarda, qualcosa può ancora restare intero. Solo tu no.”

E allora la lanciò.

La bottiglia volò per un secondo, poi si ruppe con un suono chiaro, secco, come un grido breve. Andò in mille pezzi, sparsi sul cemento mentre alcuni scomparvero nella polvere.

Viktor non si mosse. Non c’era soddisfazione ma solo la prova che cercava, ovvero che niente resta intatto.
Neanche ciò che sembra impossibile da rompere.
Neanche l’anima, se la fame, il sangue, la colpa e la paura ti scavano troppo a fondo.

Si chinò e raccolse uno dei frammenti più grandi e vi si specchiò: il suo viso era lì, distorto, tagliato. Irriconoscibile.

E in quel riflesso pensò:
“Forse è questa la verità della guerra: se non ci uccide in ogni caso ci frantuma. Piano, pezzo dopo pezzo oppure all'improvviso, fino a farci sembrare normali anche quando non lo siamo più.”

Mariupol tremava, da qualche parte in lontananza.
E lui si alzò.
Con un frammento in tasca.
E nessuna parte rimasta da salvare.



LUBIANA: NIKJER IN DOMA

Lubiana lo accolse in silenzio. Una pioggia leggera cadeva sui tetti rossi della Stara Ljubljana, e il Ljubljanica scorreva come un pensiero che nessuno aveva ancora avuto il coraggio di dire ad alta voce.

Ruben arrivò in città senza aspettative. Una valigia, un taccuino mezzo pieno, e due pennelli infilati tra i vestiti come amuleti superstiziosi. Aveva affittato una piccola stanza nella Gornji trg, al terzo piano di un edificio antico con le scale in legno consumate dal tempo. La padrona di casa, una donna magra dai capelli bianchi raccolti in una crocchia, gli aveva detto con voce neutra: “Qui passano tutti, ma pochi restano.”

Non le aveva risposto.

Nei giorni seguenti, Ruben cominciò a camminare. Ore intere per le vie che odoravano di pioggia e caffè nero. Dal Prešernov trg al Grad, su per la collina e giù per i vicoli, tra il verde acido dei parchi e l’ocra dei muri antichi, senza una meta, senza nemmeno l’intenzione di conoscere davvero la città. Ma Lubiana non aveva fretta, gli mostrava sé stessa poco a poco: i ponti ornati di draghi, i palazzi barocchi, le persiane scrostate, i tramonti che spegnevano la città in un silenzio dorato.C’era qualcosa di sospeso a Lubiana, come se la città non volesse spiegarsi ma solo farsi guardare. E lui, da sempre in cerca di silenzi densi, la trovò perfetta.

Un pomeriggio entrò nel Mestna hiša, attratto da un manifesto dai colori scuri.

“Vse, kar ostane.”
Tutto ciò che resta.

Era una mostra d’arte contemporanea slovena. Ruben salì le scale in legno, respirando l’odore di gesso e luce. Le sale erano bianche, vuote, eppure piene di qualcosa che gli si infilava sotto la pelle: tele tagliate, vetro fuso, installazioni fragili come pensieri.

Ma furono le parole sui muri a colpirlo. Frasi scritte in corsivo, in sloveno, sospese tra poesia e confessione.

“Tudi reka se včasih izgubi v sebi.”
Anche il fiume a volte si perde in se stesso.

Sorrise appena. Si era sentito spesso così, negli ultimi anni: come un fiume che devia, che si sgonfia, che scompare sotto terra prima di riemergere altrove, cambiato. Ma quando aveva cominciato a smarrirsi davvero? Quando aveva sentito per la prima volta che la sua arte non bastava?

Il pensiero lo riportò a Madrid, agli anni delle prime mostre. Le gallerie indipendenti, gli spazi condivisi, le cantine con le pareti scrostate e l’umidità che mangiava i colori prima ancora di appenderli.

Aveva sempre fatto fatica a vendere. Non perché non ci credesse. Ma perché i suoi quadri parlavano un linguaggio che la gente non voleva ascoltare.

Erano volti che tremavano, occhi che guardavano da dentro, corpi mezzi cancellati. I suoi dipinti sembravano chiedere allo spettatore di fermarsi. Di sentire qualcosa. Di riconoscere una crepa. Ma quasi nessuno voleva guardare così a lungo. La maggior parte preferiva arte decorativa, superfici calme, colori rassicuranti.

Una volta, dopo un’esposizione, un collezionista gli aveva detto:

“I tuoi quadri sono inquieti, Ruben. Troppo. La gente non vuole questo in salotto. Vogliono qualcosa che li calmi. Non che li interroghi.”

Un altro gli aveva suggerito di cambiare soggetto. Più luce, meno carne viva. Più paesaggi. Più silenzio.

Ma Ruben non sapeva dipingere il silenzio. O almeno, non quello che gli altri intendevano. E poi, c’era quell’altra verità: non sapeva vendersi. Le parole gli si rompevano in bocca quando provava a spiegare le sue opere. Non riusciva a costruirsi una maschera, non conosceva il linguaggio del mercato. Non era fatto per le lusinghe, per le strette di mano studiate, per i sorrisi ai buffet.

Era solo un uomo che dipingeva ciò che sentiva.

E a volte, neppure lui sapeva esattamente cosa fosse.

Da bambino, il desiderio di disegnare era l’unico rifugio vero. Quando la casa era troppo piena di fatica, di sudore, di stanchezza incompresa, Ruben prendeva un foglio e scompariva tra le linee.

Il padre tornava ogni sera con le mani spaccate dal cemento. Era un uomo onesto, severo, e con il sogno fallito di una vita diversa. Non lo diceva mai, ma Ruben lo sapeva. Lo leggeva nei silenzi, nella rassegnazione con cui versava la birra nel bicchiere sempre uguale.

Ruben si ritrovò davanti a un'altra frase sulla parete, accanto a una scultura di specchi rotti:

“Kaj je dom, če ne kraj, kjer boli, da odideš?”
Cos’è la casa, se non un luogo che fa male lasciare?

E fu lì, davanti a quella scritta, che Ruben sentì salire un nodo allo stomaco. Era quella sensazione che conosceva fin troppo bene: smarrimento, e colpa. E con essa, arrivò un ricordo.

(Madrid, 1996)

Aveva otto anni e una scatola di cartone. L’aveva trasformata in un teatro: cieli viola, colline azzurre, e nel mezzo un cavallo alato. Pegaso. Aveva disegnato tutto con i pastelli a cera, seduto sul pavimento della cucina.

Quando il padre entrò, stanco dal lavoro, con la pelle arrossata dal sole e la camicia intrisa di calce, si bloccò.

Cos'è 'sta roba?

È un teatro, papà… per la scuola. Ma l’ho inventato io. Questo è Pegaso, vedi? Vola.

Il padre guardò il disegno, lo prese, lo osservò appena e poi lo lasciò cadere sul tavolo.

Tu vuoi fare l’artista? Vuoi crepare di fame a disegnare cavalli?
Lo fissò con occhi pieni di stanchezza, ma anche di qualcosa che allora Ruben non sapeva leggere: paura.

La vita non si nutre d’aria. E nemmeno d’arte. Le bollette non si pagano con i sogni, Ruben. L’arte è per chi può permettersi di non lavorare. Noi no. Noi stiamo coi piedi per terra.

E se ne andò a sedersi davanti alla TV. Il rumore dello schermo coprì il battito del cuore di Ruben, che rimase in piedi accanto alla sua scatola-teatro, come un equilibrista scivolato dal filo.

(Ritorno al presente – Lubiana)

Gli occhi di Ruben erano ancora davanti a quella scritta:

“Kaj je dom, če ne kraj, kjer boli, da odideš?”
Cos’è la casa, se non un luogo che fa male lasciare?

Ruben non sapeva rispondere. E nemmeno vendersi. Non sapeva sorridere a comando, parlare di “visioni” e “percorsi artistici”. Le sue parole gli restavano in gola, scomode come i sogni che fanno sudare.

Non era un pittore da salotti, era uno che dipingeva ciò che faceva male e il dolore, si sa, ha poco mercato.

Eppure, nonostante tutto, non aveva mai smesso.

Uscito dalla mostra camminò ancora senza una direzione precisa, lasciando che i suoi passi lo guidassero seguendo l'inconscio e non una qualsiasi ragione razionale, fino a sedersi sul parapetto del Čevljarski most, guardando le luci della città riflettersi tremanti nell’acqua. Lubiana non cercava di consolarlo, e questo la rendeva perfetta. Aprì il taccuino e scrisse:

“Forse mio padre aveva ragione. L’arte non paga.
Ma io non l’ho scelta.
È l’unica cosa che mi ha scelto davvero.”

Poi aggiunse, sotto:

“Non si vive d’aria.
Ma nemmeno solo di conti da pagare.
A volte si sopravvive grazie a un cavallo disegnato.
E alla testardaggine di continuare.”

Il fiume sotto di lui continuava a scorrere, silenzioso. Come i ricordi, come l’arte, come tutto ciò che resta.

Nika

Il giorno dopo, in un vicolo stretto della città vecchia notò l'ingresso di un piccolo spazio espositivo con una scritta all'ingresso: "Okno", che in sloveno significa "finestra". Non c’erano altre insegne vistose, solo un vetro appannato e quella scritta bianca tracciata a mano. Dentro, una luce calda illuminava pareti grezze e un pavimento di legno scricchiolante.

Ruben entrò come si entra in una stanza d’altri tempi: con la timidezza di chi teme di disturbare.

Un gruppo sparuto di persone stava in cerchio, qualcuno seduto a terra, altri con un bicchiere in mano. Una giovane donna parlava con tono calmo, quasi ipnotico, davanti a una tela ancora incompiuta appesa con mollette da bucato. Sul fondo, un proiettore mostrava parole fluttuanti in sovrimpressione su immagini d'archivio.

Ruben non capiva tutto — lo sloveno gli arrivava come un vento tra le foglie — ma riconosceva il ritmo, il corpo della voce. 

Poco dopo lo sguardo di Nika si posò su di lui. Non lo fissò a lungo, solo abbastanza da riconoscere un'assenza che assomigliava alla sua.

Terminato l’incontro, Ruben si avvicinò alla tela. Colori cupi, tratti larghi, e una sola frase scritta in acrilico nero:

“Nič ne izgine, če ga vidiš.”
Niente scompare, se lo guardi.

Sentì un nodo in gola, di nuovo. Ma non era più solo dolore. Era qualcosa di prossimo alla memoria.

Mentre ancora stava osservando la tela, sentì alle spalle la voce di Nika, bassa ma ferma. Aveva occhi chiari, inquieti, e il modo di stare ferma tipico di chi vive in continuo movimento dentro.

— “Tu non sei sloveno.”
— “No. Spagnolo. Madrid. Ma ora… qui.”

Lei lo guardò un attimo in silenzio. e poi disse:
— “Anche io, a volte, ho bisogno di perdere la mia lingua per dire le cose giuste.”

Si trovarono a parlare fuori, in inglese, sotto una pioggia lieve che sembrava trattenersi per ascoltarli.
Ruben le raccontò di cosa non riusciva a vendere. Nika ascoltava come chi sa cosa significa non essere compresi, nemmeno da sé stessi.

— “Le tue opere sono troppo vere?” chiese lei, senza ironia.
— “Troppo vive, forse. Troppo… scomode.”
— “Allora fanno esattamente quello che devono fare.”

Fu in quel momento che Ruben capì: non doveva più spiegarsi, doveva solo restare. E osservare.

Lubiana non lo stava solo accogliendo: lo stava attraversando e forse, finalmente, lui stava cominciando a lasciarla entrare.

Aprirsi al mondo - Odpiranje sebe svetu

Il primo invito di Nika arrivò con naturalezza, quasi senza preavviso.

— “Stiamo organizzando un progetto collettivo. Un’esposizione-laboratorio sul tema del confine. Non politico, ma emotivo. Ti va di partecipare?”

Ruben esitò. Aveva sempre lavorato da solo. L’idea di condividere lo spazio creativo con altri lo inquietava. Eppure, qualcosa in lui si era già aperto. O forse si era rotto.

— “Va bene,” rispose. “Ma non prometto niente.”

Il laboratorio si teneva in uno spazio industriale riconvertito nella Tovarna Rog, un ex complesso meccanico trasformato in centro culturale. Pavimenti ruvidi, muri spogli, luci al neon e voci che si sovrapponevano in almeno quattro lingue. Odore di vernice fresca, tè alla cannella e qualcosa che assomigliava alla possibilità.

Ruben scelse una parete laterale. Iniziò a dipingere come sempre: viscerale, silenzioso, tratti rapidi e profondi. Una figura scomposta, quasi muta, emergeva da uno sfondo grigio. Gli occhi chiusi, le mani aperte come a implorare. Nessun titolo.

Dall’altra parte della sala, Nika stava costruendo un’installazione con carta da pacchi, luci LED e vecchie fotografie di famiglia ritagliate. La sua opera si intitolava:

“Meje so znotraj.”
I confini sono dentro.

Si avvicinò al lavoro di Ruben dopo due giorni. Guardò a lungo, poi disse:

— “È forte. Ma è chiusa.”

— “Chiusa?”
— “Non lascia entrare. È un grido, ma solo tuo. Dov’è lo spazio per l’altro?”

Ruben abbassò lo sguardo. — “Non dipingo per far entrare. Dipingo per non uscire.”

Nika non rispose subito. Poi:

— “È arte o autoterapia, allora?”

La domanda lo colpì come uno schiaffo. Ma era onesta. E in fondo, Ruben lo sapeva: molte delle sue opere nascevano dalla ferita, non dal dialogo. Era come se dipingesse per trattenere il dolore, non per offrirlo.

— “E tu?” le chiese. “Tu non stai usando l’arte per raccontarti?”

— “Sì,” rispose. “Ma io voglio che qualcuno si riconosca. Anche se solo per un attimo. Anche se solo per sbaglio.”

Nei giorni successivi, tra pennelli, cavi elettrici e scambi tesi, si crearono frizioni continue. Ruben trovava l’arte di Nika troppo concettuale, troppo mediata. Lei lo accusava di essere “troppo chiuso nella carne”. Nessuno dei due cedeva. Eppure, continuavano a parlarsi. A guardarsi. A lavorare accanto.

Una sera, rimasero soli. Fuori pioveva, dentro c’era odore di solvente e silenzio.

— “Perché non hai mai smesso, Ruben?”
— “Perché non so fare altro.”
— “Questo non è un motivo.”
— “No. Ma è vero.”

Nika si avvicinò alla sua tela incompiuta. Ci scrisse sopra, con il pennello sottile, una frase in sloveno:

“Če se ne odpreš, ne boš nikoli svoboden.”
Se non ti apri, non sarai mai libero.

Non chiese il permesso. E Ruben non protestò.

Il giorno dopo cancellò la figura al centro.
Non tutto, solo il volto.
E per la prima volta, lo spazio vuoto invitava a entrare.

giovedì 15 maggio 2025

PARIGI, 2089

La notte parigina si adagiava molle sopra i tetti, come un vecchio mantello steso a coprire i rumori elettrici dei droni e gli schermi pubblicitari danzavano sui muri grigi con una luce livida, e il cielo, filtrato dalle polveri riflettenti, restituiva una luminosità opaca, quasi lunare.

Nathan, giovane americano di Boston appena laureato in letteratura francesce ad Harvard, sedeva sul letto di una stanza al dodicesimo piano dell’Hôtel Nouvelle Concorde, nel cuore del Marais. In mano, stringeva una guida turistica sgualcita: “Paris for Wanderers – 2025 Edition”. L’aveva comprata quella mattina alla Librairie Mémoire Perdue, una bottega anacronistica immersa nel tempo, dove l’odore della carta vecchia si mescolava a quello del muschio e del rame.

Claire, la sua fidanzata francese originaria di Carcassone e studentessa di Ingengeria robotica conosciuta qualche anno prima ad Harvard, era distesa accanto a lui, i capelli scuri sparsi sul cuscino come linee d’inchiostro.

Il foglietto era scivolato tra le pagine di quella vecchia guida come un seme dimenticato. Nathan l’aveva raccolto quasi con timore. Non era carta comune, era una carta che aveva attraversato il tempo, e forse anche la mente e il dolore di qualcuno.

Sul bordo inferiore, una scritta a penna indicava:

Berlin, Mitte, Weinbergspark, 28th August 2017

Nathan lesse la poesia a voce alta, mentre Claire lo ascoltava in silenzio.

Once upon a time

there was a Wall.
Impossible to overcome.
One day it suddenly crumbled apart.
Its bricks moved over heads.
The Wall became invisible
to whom was not.
Once again it divided
separated, tore apart and distinguished.
Until it makes all unbearable again.

Then it comes the Day.
Finally the contact would come possible.
Where? How?
Always at the boundaries.

Berlin, Mitte, Weinbergspark, 28th August 2017

Il silenzio che seguì era denso, saturo. Fuori dalla finestra, Parigi non era più la Parigi che forse aveva conosciuto l'autore della poesia: era un organismo pulsante, metallico, ordinato come una ragnatela meccanica. I droni di sorveglianza si muovevano su traiettorie luminose. I pannelli sulle facciate trasmettevano immagini emotivamente calibrate per ciascun quartiere. L'aria era stabile, ma artificiale e una voce pubblica, dolce e uniforme, annunciava ogni ora: «Il livello di armonia sociale è soddisfacente. Continuate a collaborare per una convivenza ottimale.»

Claire, accovacciata accanto a lui con il mento appoggiato al ginocchio, ruppe il silenzio.

«"Once upon a time there was a Wall…" sembra quasi una favola, no? Un inizio antico.»
«Sì… ma poi diventa subito freddo. Invalicabile. "Impossible to overcome."»
«Il Muro… Cos'era per chi l’ha scritto? Forse non solo Berlino. Forse era ovunque.»

Nathan scosse il capo.
«No, aspetta. Leggi questa parte: "Its bricks moved over heads." Non è solo caduto. I mattoni sono passati sopra le persone. Come se la violenza fosse diventata invisibile… ma continuasse.»

Claire chiuse gli occhi.
«E poi: The Wall became invisible to whom was not. Chi non era cosa? Che significa secondo te?»
«Forse chi non era il muro… non lo vedeva più. O forse chi non era consapevole. È ambiguo. Ma potente. Una riga sola, e ti fa pensare al fatto che spesso solo chi ha sofferto riesce a vedere il dolore.»

Claire mormorò:
«E poi dice: Once again it divided, separated, tore apart and distinguished. Come se il muro invisibile fosse ancora più feroce del precedente.»

Nathan fece una pausa.
«Fino a rendere tutto insopportabile. Until it makes all unbearable again. Mi chiedo cosa avesse visto quella persona per scrivere una cosa del genere. Cosa l’aveva spezzata.»


Nathan si voltò verso Claire.
«Secondo te… chi l’ha scritta?»
Claire lo guardò, pensierosa.
«Una donna, secondo me.»
«Davvero?»
«Sì. Una donna sola. Forse anziana. Forse seduta su una panchina di quel parco, a Berlino. Una che ha visto un cambiamento enorme, ma poi ha capito che non era affatto la fine di qualcosa, solo l’inizio di un’illusione.»

Nathan sorrise appena.
«Io invece me lo immagino diverso.»
«Dimmi.»
«Un uomo. Forse giovane. Cresciuto dopo la caduta del Muro, ma con dentro la memoria tramandata. Forse un figlio di chi è stato diviso. Un artista, magari, o un programmatore che ha smesso di credere nel suo lavoro.»
«Un programmatore poeta?»
«Perché no? I veri rivoluzionari hanno sempre abitato in più mondi.»

Claire si alzò, si avvicinò alla finestra. Parigi, da lassù, era solo grigia: i giardini erano sintetici, gli alberi crescevano in base alle esigenze energetiche e non c’era odore di terra. Il rumore dell’acqua era trasmesso in loop nei parchi urbani per illudere la mente. Tutto era progettato per la sicurezza e l’efficienza. Nessuno si toccava più: il contatto fisico richiedeva autorizzazione e registrazione.
Persino i baci erano stati standardizzati da una carta comportamentale consensuale.

«Ti rendi conto,» mormorò Nathan, «che se uscissimo adesso e iniziassimo a ballare per strada… verremmo fermati entro tre minuti?»
Claire sorrise.
«E se ci baciassimo senza consenso digitale?»
«Due giorni di restrizione di movimento.»
«E se urlassimo?»
«Anomalia comportamentale. Analisi psico-profilo. Segnalazione ai tuoi supervisori emotivi.»

Claire scosse la testa.
«E pensare che nel 2010… la gente si stringeva nei concerti. Gridava. Sudava insieme. Non esistevano scanner neurali nei musei. I bambini correvano nei cortili.»
«Lo dici come se lo ricordassi.»
«Lo dico come se lo sognassi.»

Nathan tornò al foglietto. Lo rilesse per la terza volta. Poi disse:
«Il muro è ancora qui. Solo che non lo vediamo. È fatto di comfort, di algoritmi che ci danno solo ciò che ci piace, di strumenti che ci risparmiano la fatica di dubitare.»

Claire si sedette accanto a lui.
«E pensare che chi ha scritto questa poesia sembra proprio avesse già capito tutto: i mattoni si sono sollevati sopra le nostre teste e sono diventati invisibili. Ma non meno reali.

«Ti rendi conto che questa persona—chiunque fosse—stava parlando di noi? Del nostro tempo?»

«Sì. E ci ha lasciato un messaggio, una domanda implicita: dove sono i confini? Dove può avvenire il contatto?»

Nathan sospirò.
«Ai margini, dice la poesia.»
Claire annuì.
«Siamo noi, allora. I margini. I ribelli silenziosi. Gli osservatori. I poeti.»

La stanza si fece più scura.
Il mondo fuori si piegava nella sua routine luminosa.
Nathan prese carta e penna—cose che quasi nessuno usava più—e scrisse. 

We didn’t cross the wall.
The wall crossed into us.

– Paris, 15th May 2089

Claire lo guardava in silenzio.
«Forse anche noi dovremmo scrivere qualcosa. Lasciare un segno per chi verrà.» 
Disse Nathan, serio.
«Un altro poeta del futuro?»
Chiese Claire, in tono canzonatorio.
«O solo un altro cuore aperto.»
Rispose il ragazzo prima di inserre il foglio accanto alla poesia nella guida.

La richiuse con delicatezza.
«Domani torniamo alla libreria.»
«E la lasciamo lì.»
«Per qualcuno che sappia vedere oltre il vetro.»
«Per chi sa vedere ancora oltre il muro invisibile, per chi vive ancora ai margini.»






mercoledì 14 maggio 2025

MARRAKECH NON GIUDICA

 

Marrakech, Marocco

Tetto di una riad nella medina – fine pomeriggio

Il muezzin aveva appena finito di chiamare alla preghiera. Le ultime note sembravano svanire tra i vapori della città come incenso nel vento. Ruben se ne stava seduto sul tetto della piccola riad in cui alloggiava da una settimana, con le gambe incrociate e un bicchiere di tè alla menta tra le mani.

Il sole, ormai basso, incendiava i muri color terracotta. Marrakech lo accoglieva con la sua danza continua di contrasti: sacro e profano, caos e silenzio, vita e ritiro. Per un pittore, era un incubo e una salvezza: la luce cambiava ogni cinque minuti, e ogni dettaglio sembrava chiedere di essere ritratto. Ma Ruben non aveva toccato un pennello da settimane.

«Non ti stanchi mai di guardare la città dall’alto?»
La voce era femminile, calma. Proveniva dalla scala dietro di lui.
Era Laila, la padrona della riad. Indossava un caftano color ocra e portava con sé un piatto di mandorle e fichi secchi.

«Mi dà l’illusione che le cose abbiano un ordine» rispose Ruben, senza voltarsi subito. Poi aggiunse, quasi tra sé: «Da quaggiù sembrano tutte piccole. Le voci, i giudizi, le umiliazioni… anche le ambizioni degli altri».

Laila si sedette accanto a lui, poggiando il piatto sul tappeto. «Tu non sei in vacanza» disse dopo un attimo. «Hai l’aria di chi è in esilio. Volontario, forse. Ma pur sempre esilio.»

Ruben sorrise amaramente. «Sono qui perché in Spagna non volevo più indossare maschere. Né nei salotti della critica, né nei circoli d’arte, né nelle accademie. E non volevo più inchinarmi a chi scambia la manipolazione per autorevolezza. Ma adesso mi chiedo: è stato coraggio o rigidità? Ho rinunciato a tutto pur di non piegarmi… E se fosse solo orgoglio?»

Laila lo guardò con uno sguardo assorto, poi versò altro tè. «Il potere non cambia le persone» disse, «le denuda. Fa emergere ciò che c’è già. Chi ha paura diventa feroce, chi è vuoto diventa crudele. Chi ha anima, protegge. Tu ti sei sottratto a un gioco sporco. Questo non è orgoglio. È igiene.»

Ruben alzò lo sguardo, sorpreso dalla limpidezza delle sue parole. «Eppure ho perso molto.»

«Hai perso solo ciò che ti chiedeva di tradirti. La carriera? Gli applausi? Il consenso? Non valgono la pace che hai adesso negli occhi.»

Un silenzio profondo li avvolse, mentre sotto di loro il suq ricominciava a respirare, tra i profumi delle spezie e il vociare dei venditori. Marrakech gli appariva come uno specchio deformante: amplificava le sue domande ma, a volte, gli restituiva solo brandelli di risposta.

Laila si alzò, lasciandogli il piatto di frutta secca. «La sera qui è fatta per chi ha bisogno di silenzio» disse. Poi sparì giù per le scale, lasciandolo con le sue domande e le luci morbide del tramonto.


Il tetto – poco dopo il tramonto

Ruben era rimasto solo, ancora seduto, il bicchiere ormai vuoto tra le mani. La città sotto di lui era cambiata. I colori si erano attenuati in un blu profondo, le voci si erano fatte più rarefatte, e le prime stelle avevano iniziato a spuntare sopra i minareti.

Nel silenzio, i pensieri tornarono a premere. Quelli veri, quelli che in Spagna aveva imparato a ricacciare dentro con eleganza: nei vernissage, nei pranzi con i galleristi, nei workshop in cui tutti fingevano di credere nella libertà, mentre si inchinavano ai giochi di potere.

La verità – e se la ripeteva qui, con brutalità – era che non aveva mai imparato davvero a difendersi. Non perché fosse ingenuo. Ma perché non sapeva smettere di sentirsi responsabile. Sempre. Anche di ciò che non poteva cambiare. Anche degli errori altrui, anche dei silenzi degli altri.

Tutti gli dicevano che aveva "principi forti", ma spesso sembrava più una maledizione che una virtù. Quando gli altri si svendevano, lui si chiedeva se non fosse colpa sua per non essere stato d'esempio. Quando vedeva i mediocri premiati, gli veniva da pensare che forse non aveva parlato abbastanza, o troppo. Era un artista, sì, ma portava dentro un senso di dovere che lo divorava: voleva che il mondo fosse più giusto. Come se spettasse a lui aggiustarlo.

E poi c'era il potere.

Un tempo lo aveva idealizzato. Pensava che fosse uno strumento, neutro, come un pennello: dipingi un capolavoro o un falso, dipende dalla mano. Ma ora… ora sapeva che il potere non è mai neutro. È un rivelatore. Come il fuoco sull’oro.

Chi era giusto, col potere proteggeva. Chi era ambizioso, col potere opprimeva. Chi era fragile, lo usava come corazza e diventava tiranno. Il potere non corrompe: semplicemente toglie la paura delle conseguenze. E allora emerge il vero volto.

Lui non aveva mai avuto vero potere. Ma lo aveva visto da vicino. E ogni volta aveva detto “no” quando sarebbe bastato un “sì” per guadagnarsi un invito, una mostra, una recensione benevola. Era questo il dubbio che lo torturava: e se sotto la sua coerenza ci fosse solo incapacità di adattamento?

O forse no. Forse era semplicemente uno che non sapeva fingere. Uno che aveva scelto, ogni volta, di restare fedele a qualcosa che oggi nessuno considera più importante: l’onestà con se stessi. Anche se quella scelta significava rimanere soli.

La voce di Laila gli tornò alla mente: “Hai perso solo ciò che ti chiedeva di tradirti.”

Si sporse in avanti, guardando le lanterne accendersi nella medina. Ogni luce, ogni ombra, era un frammento di qualcosa che voleva dipingere, ma non ancora. Prima doveva capire se aveva fatto bene. Se era ancora intero.

Era venuto a Marrakesh per smettere di parlare, ma anche per imparare ad ascoltarsi. E forse, in quel preciso momento, capì che non era una fuga. Era un ritorno. Forse l’unico errore sarebbe stato arrendersi a ciò che gli chiedeva di essere altro da sé.

E mentre una brezza leggera gli accarezzava il volto, per la prima volta dopo molto tempo, non si sentì colpevole di nulla.

Notte sul tetto della riad

La notte era scesa del tutto. Ruben non si era mosso. Marrakech, con i suoi richiami e le sue luci tremolanti, sembrava essersi ritirata in una quiete rispettosa. Dal tetto vedeva le terrazze spente, le finestre socchiuse, la città respirare nel suo ritmo antico.

Poi, senza volerlo, arrivò il ricordo. Come un taglio nella tela.

Madrid, due anni prima. Una galleria indipendente, un progetto collettivo. Ruben aveva lavorato per mesi a una serie di quadri dedicati alla memoria, usando materiali organici: cenere, terra, carta bruciata. Aveva osato uscire da ogni schema — troppo, forse.

Aveva portato tutto in una grande tela centrale, una sorta di paesaggio mentale in rovina. Il giorno dell’inaugurazione, era fiero e inquieto come sempre, ma convinto di ciò che aveva creato.

Poi era arrivato Antoine, il nuovo curatore venuto da Parigi. Uno di quelli che si muovono tra arte e potere con la scioltezza di chi ha capito presto che la verità si piega, e si vende. Lo aveva preso da parte, con un mezzo sorriso, una mano sulla spalla.

«Hai talento, Ruben. Ma così ti bruci da solo. Nessuno vuole sentirsi in colpa guardando un quadro. Soprattutto chi paga.»

Parole che suonavano gentili, ma erano un verdetto.

Qualche giorno dopo, l’opera era stata spostata in una sala secondaria. Niente luci dirette. Nessuna menzione nel catalogo. Un altro artista — uno più “funzionale” — aveva preso il suo posto nel centro espositivo. Nessuno lo aveva difeso. Alcuni avevano abbassato lo sguardo. Altri gli avevano consigliato, sottovoce, di “essere più furbo”.

Ruben, invece, non aveva detto nulla. Aveva ritirato le sue tele in silenzio, sotto la pioggia, caricandole da solo su un vecchio furgone. Non per orgoglio. Perché non voleva dover ringraziare chi aveva appena svuotato il suo lavoro di senso.

Quella sera aveva capito una cosa semplice e lacerante: nel mondo che frequentava, il talento serviva. Ma solo se sapevi piegarlo. Solo se accettavi di modellarlo intorno al potere altrui.

Il nodo alla gola gli era rimasto per giorni. Non per l’umiliazione. Ma per il pensiero che forse avrebbero avuto ragione. Che l’integrità non bastava.

Ruben si passò una mano sul volto. Quel ricordo bruciava meno, ma lasciava una traccia, come polvere fine negli occhi.

E poi, la domanda che lo colpì con forza:

E se non fosse stata integrità?
Se il suo rifiuto dei compromessi non fosse nobile, ma solo orgoglio?
E se sfidare il potere non fosse giustizia, ma una forma sottile e disfunzionale di sentirsi superiore?

Era sempre stato così: incapace di compiacere, di tacere, di adattarsi. Ma non per ingenuità. Forse per vanità? Per la pretesa di non dover mai abbassare lo sguardo? Forse aveva solo confuso la coerenza con il rifiuto di mostrarsi vulnerabile. Aveva scelto l’isolamento perché non sopportava il disprezzo degli altri, ma ancor più perché temeva quello verso sé stesso.

Forse la sua coerenza era solo un modo elegante per dominare la scena con il rifiuto. Forse non voleva essere accettato: voleva essere temuto. Ammirato. Incompreso.

Il pensiero lo svuotò. Eppure, nell’ammetterlo, sentì qualcosa aprirsi. Una crepa. Una possibilità.

Forse la vera integrità non era dire sempre “no”. Ma avere il coraggio di guardarsi in faccia anche quando il proprio “no” somiglia a una sentenza, e non a una scelta.


Ritorno al presente 

La voce di Laila tornò ancora una volta alla mente, questa volta come una carezza:
“Hai perso solo ciò che ti chiedeva di tradirti.”

E per la prima volta, Ruben si domandò se tradire e superare non fossero, in certi casi, due verbi fratelli.

Forse non era una fuga, questa. Forse era l’inizio di un ritorno. Non alla carriera. Ma a sé stesso. A ciò che resta, quando il volto che porti in pubblico si sgretola e sotto non c'è una posa — ma ancora, ostinata, una voce.

La sua.

Quella di un uomo che dipinge, anche se nessuno guarda. Un uomo che sceglie il silenzio, solo quando parlare significa mentire.



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